Brexit e teatro inglese. Una sceneggiatura accantonata dalla pandemia
di Verena Leonardini
Con questo pezzo firmato dalla collega Verena Leonardini, apriamo una finestra su quell’oltreconfine che è una delle strade che The BlackCoffee vorrebbe percorrere fin dalla sua pur recente fondazione. La visione di ciò che sta accadendo al di fuori dall’Italia, attraverso la voce e l’esperienza di chi vive all’estero. Dalla Gran Bretagna, ecco quindi il primo contributo di Verena Leonardini che, dopo un Master in Scienze dello Spettacolo e Comunicazione Multimediale (presso l’Università degli Studi di Milano), ha proseguito la sua formazione alla Birkbeck University di Londra con un Master in Arts Policy and Management. Di giorno impegnata nel lavoro dietro le quinte per iniziative di teatro, danza e musica – per Greater London Authority, Dance Art Foundation, Soundreef e South London Dance School – la sera, Verena si perde nei teatri off londinesi per scovare spettacoli di ricerca che aprano nuove frontiere e orizzonti percettivi.
Corrispondente anche per l’online teatro.persinsala.it, è altresì l’apripista per un altro tra i molti e ambiziosi obiettivi che vorremmo conseguire come redazione: articoli bilingui per coinvolgere un pubblico sempre più vasto.
Let’s start!
Sebbene tutte le altre questioni siano state sostanzialmente oscurate dall’emergenza del Covid-19, il Regno Unito ha di fatto lasciato l’UE e ora siamo nel cosiddetto “periodo di transizione”. Alla fine del 2020, le relazioni del Regno Unito con l’UE saranno determinate da nuovi accordi commerciali e di altri settori di cooperazione. Oltre all’enorme complessità di ognuna di queste situazioni (Brexit e pandemia) uno dei problemi è che si stanno verificando contemporaneamente. Se la pandemia ha in qualche modo eclissato i problemi meno recenti, è improbabile che questi si risolvano da soli e potrebbe essere persino necessario un secondo anno dedicato alla transizione.
Qual è la posta in gioco per il settore artistico?
Innanzitutto, vale la pena notare che le industrie culturali inglesi sono la parte in più che cresce più rapidamente nell’economia britannica. Secondo i dati pubblicati dal DCMS (Department for Digital, Media, Culture and Sport) e la Creative Industries Federation, le arti contribuiscono al GVA (valore aggiunto lordo) più di petrolio e gas, scienze biologiche e aerospaziali messi insieme – hanno raggiunto 100 miliardi di sterline per la prima volta nel 2017, e impiegano una persona su undici nel Regno Unito. Tuttavia, le industrie creative potrebbero perdere oltre 40 milioni di sterline all’anno in finanziamenti dell’UE una volta completata la Brexit. Inutile ricordare che ciò sta accadendo in un momento difficile per l’industria data la pandemia; inoltre, l’Arts Council England era già stato costretto a tagliare il budget di 156 milioni di sterline dal 2018 al 2022 (non a caso, un sondaggio della Creative Industries Federation ha rilevato che il 96% dei suoi membri ha votato Remain nel referendum del 2016). Secondo l’Arts Council England, oltre 345 milioni di sterline erano state versate dall’UE alle organizzazioni artistiche inglesi tra il 2007 e il 2016. Quasi il 10% delle organizzazioni teatrali e performative fanno affidamento sul Creative Europe Fund.
Oltre alle preoccupazioni per la perdita di finanziamenti europei per le arti, la stessa reputazione inglese nel mondo è a rischio, come pure la perdita di talenti che non potranno più circolare liberamente tra Europa e Gran Bretagna. La situazione attuale vede il 60% delle National Portfolio Organisations (quelle che ricevono finanziamenti pubblici attraverso l’Arts Council England) lavorare a livello internazionale e vede l’Europa come il suo mercato più importante: l’UE costituisce il 59% delle attività artistiche internazionali inglesi.
Arte e patrimonio rimangono tra le caratteristiche più interessanti del Regno Unito, e tra le ragioni principali per cui le persone fanno affari, visitano o studiano in Inghilterra. Poiché è probabile che la Brexit riduca il numero di collaborazioni con le organizzazioni artistiche europee, ci si chiede come le industrie culturali possano continuare a mostrare il meglio del Paese a livello internazionale come parte del suo “soft power”.
E che ne sarà del teatro?
Molti pensano che il teatro britannico non sarà poi tanto svantaggiato dalla Brexit, poiché fa affidamento soprattutto su attori inglesi. C’è del vero. Ma il teatro non è fatto solo da attori. Una tipica performance contemporanea può avere un regista francese, un sound designer tedesco, un produttore belga, un direttore di scena svizzero. Ed è in particolare questo tipo di produzioni internazionali che sarà molto più difficile da mettere insieme. La danza, l’opera e alcune produzioni teatrali attingono da talenti di varia provenienza, in gran parte europei.
La crisi del settore ci sarà e sarà grave, sottolinea Sir Nicholas Hytner, che è stato direttore del National Theatre per dodici anni. “Non troverai nessuno nel mondo dell’arte che non pensi che ci sia un’enorme nuvola nera all’orizzonte portata dalla Brexit (…). Siamo così dipendenti da idee, talenti, persone che si muovono liberamente… La libertà di movimento non era altro che positiva per noi”. Nell’ombra che la Brexit ha gettato sulle arti dello spettacolo, il futuro non sembra roseo.
Storicamente, la libera circolazione ha notevolmente supportato le arti dello spettacolo nel Regno Unito, incoraggiando il facile movimento non solo di persone, ma anche di idee. I registi e gli attori si sono spostati liberamente tra i centri culturali in Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia e oltre per studiare, incontrare potenziali collaboratori e fare esperienza di un’estetica completamente diversa. Luna Williams in Culture Matters ricorda, ad esempio, Antonin Artaud, le cui idee hanno influenzato registi teatrali inglesi del calibro di Peter Brook. Allo stesso modo, i principi di Jacques Lacoq sono stati cruciali per vari artisti britannici tra cui il fondatore di Complicite’ Simon McBurney. Le teorie di Bertolt Brecht si trovano nei programmi della maggior parte dei corsi teatrali di tutta l’Inghilterra. “Questi individui (insieme a molti altri) hanno modellato il modo in cui gli artisti britannici apprendono, praticano e scrivono nel teatro fino ai nostri giorni”.
La perdita della libera circolazione dovuta alla Brexit potrebbe limitare le tournée di alcune compagnie teatrali, in particolare quelle più piccole, il cui equilibrio finanziario è meno stabile. È probabile che le compagnie itineranti debbano affrontare costi amministrativi nuovi e vengano di fatto bloccate da una burocrazia proibitiva. Molto probabilmente ci saranno visti da ottenere e documenti extra per la circolazione di scenografie e attrezzature, insieme a potenziali controlli e procedure fiscali più complesse. Non solo: le stesse aziende europee potrebbero evitare di includere il Regno Unito nelle loro tournée.
Come la più ampia industria culturale, anche le arti dello spettacolo saranno colpite dalla riduzione di finanziamenti europei come il programma Creative Europe e Horizon 2020. Molti piccoli teatri sono sostenuti dall’European Social Funding e altri finanziamenti europei. Senza queste ricorse, molte compagnie teatrali locali si troveranno in difficoltà.
Il Presidente della National Campaign for the Arts, Samuel West, sottolinea che, perché la salute del teatro inglese sia protetta, le negoziazioni sulla Brexit dovranno tenere conto di quanto importante sia stato per l’Inghilterra far parte dell’UE. Se il Regno Unito non è in grado di attrarre talenti, questi andranno semplicemente altrove. Nel frattempo, per gli artisti britannici, le opportunità di lavorare in Europa inizieranno a diventare proibitive. “Sono un attore di medio raggio”, afferma West, “che potrebbe, se fortunato, ottenere qualche giorno di lavoro in un film europeo che si gira a Bucarest, per esempio. Potrei ricevere la sceneggiatura martedì, avere l’audizione giovedì e, se ottengo il lavoro, avere un volo venerdì, se non ho bisogno di un visto. Se ho bisogno di un visto, la parte verrà data al ragazzo francese. Quindi i soldi che avrei ottenuto per quel lavoro, e le tasse che avrei pagato, finiranno in Francia anziché in Inghilterra. Ecco perché non saremo più competitivi dopo la Brexit”. West esprime il suo timore che la Gran Bretagna “torni ad essere un Paese insulare e ripiegato su se stesso, la nostra arte sarà meno stimolante e la gente avrà meno voglia di venirla a vedere”.
Indubbiamente, una hard Brexit rischierebbe di rallentare uno dei settori più in crescita del Paese. Ma con così tanto ancora da decidere, è forse possibile sperare che le negoziazioni portino a un risultato più favorevole per le arti dello spettacolo. Only time will say.
English Version
Brexit in the UK theatre. A script that’s been shelved by the pandemic
Although all other issue have been substantially overshadowed by the Covid-19 pandemic emergency, the UK has in fact left the EU and we are now in the so-called “transition period”. At the end of the year 2020, the UK’s relationship with the EU will be determined by the new agreements on trade and other areas of co-operation. Besides the enormous complexity of each of these situations (Brexit and the pandemic) one of the problems is that they are happening at the same time. If the pandemic has somehow eclipsed older problems though, they are not likely to solve themselves and a second year of transition might be needed.
With this in mind, let’s see what’s at stake here for the creative industries
Firstly, it is worth noting that the UK Creative Industries are the fastest growing part of the UK’s economy. According to figures published by the DCMS (Department for Digital, Media, Culture and Sport) and the Creative Industries Federation, they contribute in GVA (Gross Value Added) more than oil and gas, life sciences and aerospace combined – they hit £ 100 billion for the first time in 2017, and employ 1 in 11 people in the UK. Yet the creative industries could lose more than £40m per year in EU funding once Brexit has been completed. Needless to say, this is happening at a difficult time for the industry given the Pandemic; in addition, Arts Council England had already been forced to cut its budget by £156m from 2018-22 (not surprisingly a poll by the Creative Industries Federation found 96% of its members voted Remain in the 2016 referendum). According to the Arts Council England, over £345 million was received from the EU by English arts organisations between 2007 and 2016, with nearly 10% of live arts organisations currently relying on the Creative Europe fund.
Alongside the concerns about the loss of European funding for the arts, also Britain’s reputation around the world and the loss of free movement of talent are jeopardising the health of the British creative sector. The current situation is that 60% of the British National Portfolio Organisations (the ones receiving public funding through Arts Council England) work internationally, and see Europe as their most important market: the EU makes up 59% of all international activity in the English arts field.
Arts and heritage remain among the UK’s most appealing features, and main reasons why people do business, visit, or study in the UK. As Brexit is likely to decrease the number of partnerships with EU organisations, there is a reasonable concern about how the creative sector can keep showing internationally the best of the country as part of its soft power.
And what about theatre?
Is theatre not going to be less disadvantaged by Brexit, as British theatre relies mainly on British actors? Maybe. But theatre is not only made by actors. A contemporary performance might have a French director, German sound designer, a Belgian producer, a Swiss stage manager. And it is particularly those sorts of international crews that are going to be much harder to put together. Large scale dance, opera and some theatre productions draw on international talent, much of it European, either for long term or very short notice projects.
The crisis in the sector is on its way, and it is serious, stresses Sir Nicholas Hytner, who was director of the National Theatre for twelve years. “You will find nobody in the arts world who doesn’t think there is an enormous black cloud on the horizon in the shape of Brexit (…) We are so dependent on ideas, talent, people moving freely. Freedom of movement was nothing but good for us”. In the doubtful shadow Brexit has cast over the performing arts, the future does not look rosy.
Historically, free movement has supported the UK’s performing arts dramatically, encouraging the easy exchange of not only people, but also ideas. Directors and performers have freely moved between cultural hubs in Britain, Germany, Italy, France and beyond to study, meet like-minded individuals and see completely different aesthetics. Luna Williams in Culture Matters mentions Antonin Artaud, for example, whose ideas have influenced British theatre-makers like Peter Brook. Likewise, the principles of Jacques Lacoq have been crucial for various British performers including Complicite’s founder Simon McBurney. Bertolt Brecht’s theories and practices can be found as core modules in most theatre courses across the UK. “These individuals (along with many others) have shaped the way that British performers and practitioners learn, practice and create drama to this day”.
It is argued that the loss of free movement due to Brexit may limit the ability of certain performing arts companies to tour, most particularly the smaller ones, whose financial situation is less secure. Touring companies are likely to face increased administrative costs and be bogged down by prohibitive red tape. Their members will most likely have to obtain visas and extra documents for the temporary movement of goods, such as scenery, along with potential custom checks and more complex tax procedures. Not only that: European companies may be disinclined from including the UK in their tours.
Like the broader creative industry, the performing arts too will be affected by the decrease in funding from EU organisations such as the Creative Europe Programme and Horizon 2020. Many small theatres benefit from the European Social Funding and other European financial support. Without these sources local venues and theatre companies are going to struggle.
Chair of the National Campaign for the Arts, Samuel West stressed the need for Brexit negotiations to take into account how important being a member of the EU has become to the health of the world-leading performing arts sector. “The need and ability to move people fast, at short notice, in large numbers, for short times, is essential to a cultural hub like London”. If the UK is not able to attract talents, they will simply go elsewhere. Meanwhile, for British performers, opportunities in Europe will start to get prohibitive. “I’m a medium-range actor” says West, “who might, if I’m lucky, get a few days’ work in a Euro film that shoots in Bucharest, for instance. I might get the script on Tuesday, the audition on Thursday, and if I get the job I fly on Friday – if I don’t need a visa. If I do need a visa, they’ll give it to the French guy. So the money I would have got for that job and the tax I would have paid on it go to France and not to Great Britain. That’s why we won’t be as competitive post-Brexit”. West goes on to say that he fears that “we will go back to being an insular, inward-looking country and our art will be less exciting, and people will want to see less of it and come here to see it less often”.
In effect, a hard Brexit would risk slowing down one of the country’s most consistently growing sectors over the last decade. But with so much yet to be decided, is it possible to hope that negotiations might lead to a more favourable outcome for the performing arts sector? Only time will tell.
In copertina/on the cover: Verso un nuovo orizzonte. Foto di/photo by Simona Maria Frigerio (tutti i diritti riservati/all rights reserved).