venerdì, Novembre 22, 2024

Cultura, Letteratura

Le illustrissime Vite del Vasari al tempo del coronavirus

Un divertissement d’autore e lo sfascio dell’editoria

di Simona Maria Frigerio

Come può uno scrittore oggi – di saggistica, romanzi o poesie – emergere? Ottenere l’attenzione di un critico, scovare la figura in carne e ossa di un agente letterario, districarsi tra le Case Editrici per riconoscere quelle che potrebbero davvero leggere il suo libro (e non cercare di vendergli a peso d’oro semplicemente la stampa del suo lavoro, obbligandolo anche a comprarne a badilate da rifilare ad amici e parenti), e poi farsi spazio sugli scaffali ammuffiti e polverosi di librerie sempre più all’inseguimento dell’offerta, del best seller, del nome televisivo da rivendersi, del titolo sull’onda dell’ultimo scandalo o, ancora, della strenna natalizia – tanto innocua quanto scontata – che può andare bene per tutti e non legge nessuno?

E anche quando si arrendesse, comprendendo che l’unica strada praticabile – per evitare almeno di pagare per il proprio lavoro, invece di ricevere un anticipo e un compenso oltre agli agognati diritti d’autore, da un editore ancora degno di questo nome, ossia che finanzia un’inchiesta, che s’impegna a pubblicizzare un romanzo, che mette in campo un editor, che rischia, in breve, come qualsiasi imprenditore dovrebbe fare e, quindi, punta davvero su un autore e la sua opera come il dirigente sull’ultimo modello di vettura – ebbene quando arrivasse alla consapevolezza che l’unica strada è l’autoedizione, sarebbe comunque alla base di un’erta à la Sisifo.   

Il nostro autore, a quel punto, dovrebbe improvvisarsi grafico e predisporre il proprio libro in formato adatto alla pubblicazione su Amazon; o andare alla ricerca di siti, che nascono con le migliori intenzioni ma che danno comunque una visibilità ridotta, come Wattpad; industriarsi a comprendere quale potrebbe essere il prezzo di copertina appetibile per il lettore eppure abbastanza elevato da coprire almeno gli eventuali costi sostenuti o da sostenere. E ancora inventarsi strategie di marketing e promozionali; campagne di crowdfunding per coprire le stampe o una festa per il lancio del volume; cercare librerie dove fare le presentazioni; e sollecitare i soliti amici e parenti a sceglierlo come regalo di Natale.

Un capitolo a sé resta quello della partecipazione a concorsi che, quasi sempre, prevedono le cosiddette spese di segreteria oltre alla cessione di tutti i diritti in caso di vittoria e, quindi, il rischio (in cambio dell’essere, magari, pubblicati su una rivista che non acquisterà nessuno) di dover pagare a peso d’oro (ancora una volta) la pagina stampata della propria fatica, perdendo persino la possibilità di rivenderla in caso di migliore offerta ed essendone, di conseguenza, espropriati (o scippati) senza nemmeno rendersene conto.

Le chicche migliori sono altre, però. Sassolini che tutti gli scrittori hanno raccolto nelle loro scarpette, trasformandosi da Cenerentole in Maghe Magò. Come, ad esempio, ricevere la fatidica telefonata dalla Casa Editrice e chiedere alla gentile signorina che ci sta decantando le virtù del nostro lavoro se ha apprezzato, in particolare, il personaggio di Prospero o quello di Calibano e scoprire che non ha letto nemmeno una riga – neppure di Shakespeare. Oppure vedersi recapitare un contratto in cui un editore che, in realtà, è uno stampatore pagato per fare il proprio mestiere dall’autore stesso, pretenderebbe anche il diritto di prelazione sui successivi lavori. E ancora, rendersi conto che se in Italia chiunque svolga una professione artistica è considerato un nullafacente o, nel migliore dei casi, un’anima bella che dovrebbe cercarsi un lavoro serio invece di perdere tempo in facezie e hobby; se oltretutto appartiene alla categoria scrittore (invece di danzatore, attore o musicista) non potrà chiedere alcun contributo allo Stato o ad altre istituzioni o Enti ma dovrà per forza adattarsi a fare mille e un mestiere, scrivendo la notte o quando andrà in pensione (del resto, persino il sommo Gadda faceva l’ingegnere).

Paolo Orsini. Immagine gentilmente fornita dall’Autore

Ma torniamo al Vasari
Nel forzato periodo di clausura monastica imposta da un Governo che, invece di combattere un’epidemia, ha abbattuto lo spirito e l’equilibrio degli italiani e delle italiane, Paolo Orsini, scrittore, mi ha inviato il suo divertissement (come lo ha definito lui stesso) da leggere, intitolato Le illustrissime Vite del Vasari al tempo del coronavirus. Probabilmente sovrastimando le mie capacità critiche e, in caso di recensione positiva, promozionali. Nel senso che una recensione positiva di Simona Maria Frigerio vale ben poco, per quanta buona volontà la succitata ci metta.

In ogni caso, per buona educazione e curiosità innata, ho accettato di leggere il libro attratta da subito dal titolo che mi sembrava possedere quel tocco di ironia che non guastava, visto il clima generale. E non tanto perché l’atmosfera delle strade fosse cupa, ma in quanto prescrizioni serissime come “se si viaggia da soli in auto, sedersi al posto del guidatore”, avevano ormai talmente invaso la nostra quotidianità con la loro involontaria dose di grottesco che un po’ di sana ironia mi sembrava necessaria, quanto una boccata d’aria.

Paolo Orsini rientra negli scrittori après la retraite, è tra i soci fondatori del Gruppo Scrittori Firenze e ha già pubblicato una raccolta di racconti, nel 2018, intitolata La grande rivelazione.

Il divertissement che ho letto ha, innanzi tutto, la capacità di fondere personaggi di altre epoche (e infatti i capitoli più riusciti paiono quelli dedicati a Baudelaire, Don Chisciotte e Casanova) con le prescrizioni del lockdown, creando una lettura sdoppiata e distopica del momento storico presente, così da mostrarne insieme tutti i limiti (dato che molte cosiddette regole paiono più consone alla peste nera del Trecento che non a un virus dell’influenza nel Duemila) e anche l’intima vicinanza con usi e costumi più vetusti, profondamente radicati nella nostra società e cultura. In parole povere, se in queste settimane abbiamo assistito agli inseguimenti coi droni dei runner e all’affastellarsi di autocertificazioni sempre più cervellotiche e lesive delle libertà personali – quasi fosse una colpa correre in solitaria su una spiaggia deserta, o aspirare a una camminata senza per forza doversi recare in un supermercato per arricchire la grande distribuzione o fare razzie a spese dei propri concittadini – ebbene, il rendersi conto che già due secoli fa era personaggio comune il flâneur, ossia il gentiluomo che vaga oziosamente, e che lo stesso aveva tutto il diritto di andarsene a spasso per il gusto di farlo, almeno ci toglie il senso di colpa fasullo nei confronti di un’esigenza umana – senso di colpa creato ad hoc da politica e mass media – restituendoci la giusta proporzione delle cose.

Il divertissement è anche un modo per conoscere più da vicino i nomi illustri succitati, con richiami a particolari autentici delle loro esistenze (vere o letterarie), in modo da avvicinarli con garbo alla nostra percezione e facendoceli sentire complici. Particolare, questo, da non sottovalutare in quanto troppo spesso gli studenti non sentono il richiamo della storia e della letteratura perché i loro insegnanti non riescono a tracciare quel sottile fil rouge che unisce passato e presente, vite illustri e comuni, la nostra contemporaneità con i tumulti della storia.  Eppure, proprio in questo periodo, anche una semplice parola come untore avrebbe potuto recare con sé un universo di senso, se solo i ragazzi fossero potuti andare a scuola. Avrebbero scoperto sulla loro pelle perché furono giustiziati gli innocenti della Colonna infame; come sia facile trasformarsi da onesti cittadini in organizzatori di flasmob anti-runner (il tiro con la fionda dai balconi promosso su alcuni social) fino a masse che inneggiano al linciaggio (chi ricorda il film culto Fury, diretto da Fritz Lang?). Oppure che il merito del Manzoni come storico e il suo lavoro non furono molto diversi da quelli di Julian Assange come giornalista investigativo. E ancora, che i pregiudizi forgiavano fake news anche in epoche lontane e, queste ultime, potevano e possono generare comportamenti potenzialmente pericolosi o, al contrario, assolutamente inutili a contrastare un virus (che, ricordiamo, nonostante quanto dica il Governatore Fontana: “Non possiamo cedere a un virus subdolo, invisibile e sempre pronto a colpirci”, appartiene pur sempre all’ecosistema, non è mai di grandezza tale da essere visibile a occhio nudo, non è intelligente e non ha una volontà, in quanto essere senziente, di nuocerci, e soprattutto non è un essere umano dotato di fucile ad alta precisione per spararci).

A corredare il tutto, le belle foto di Helene Weifner, di una Firenze lunare. Foto scattate al tempo della pandemia e, quindi, potenzialmente ‘pericolose’ (chi non ricorda gli strali contro chi girava per strada scattando foto alle città deserte?), ma che al contrario cristallizzano un momento della nostra storia recente che, siamo certi, finirà sui libri e allora quelle foto (come le mummie nelle teche) cambieranno di segno. Da frutto di pratica quasi massonica, si trasformeranno in sagace testimonianza di tempi bui in cui la politica pensava di doverci imbeccare come minori, prescrivendo che “se viaggiamo in auto, dobbiamo sederci al posto del guidatore”.

In copertina: Firenze, prima del coronavirus. Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione).

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