venerdì, Novembre 22, 2024

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Il giornalismo si è dimenticato di Julian Assange

Il 4 gennaio 2021 il verdetto sull’estradizione verso gli Stati Uniti

di Laura Sestini

Mentre Julian Assange rimane detenuto nella Belmarsh Prison di Londra – istituto penitenziario di massima sicurezza già considerata la Guantanamo britannica – il verdetto per la sua estradizione verso gli Stati Uniti è stato posticipato al 4 gennaio 2021 dalla giudice Vanessa Baraitser.

Ben 18 mesi sono passati da quando l’imputato, una volta tradito dall’Ambasciata ecuadoriana di Londra – dalla quale aveva ricevuto asilo politico nel 2012 – è stato trasferito nelle carceri britanniche in attesa della sentenza di estradizione – seppur questo prossimo appuntamento giudiziario sembra solo annunciare l’inizio di una lunga serie di processi.

In condizioni di salute precarie, sia fisiche che mentali – come afferma Jennifer Robinson, avvocatessa australiana del pool di legali in difesa di Julian Assange – il fondatore di WikiLeaks rischia una pena di 175 anni in caso di estradizione negli Stati Uniti, con a carico 17 capi di imputazione ai sensi dell’Espionage Act e del Computer Fraud and Abuse Act, e con l’accusa di aver contribuito alla divulgazione di informazioni riservate – la più grande incursione in atti militari secretati nella storia degli Stati Uniti.

WikiLeaks, fondata nel 2006, ha pubblicato oltre 10 milioni di documenti autentici. Ciò include i registri della guerra in Iraq e in Afghanistan, i file dei detenuti a Guantanamo e altre rivelazioni che hanno esposto gli abusi del governo statunitense e di alcune imprese, a spese di persone dell’intero pianeta. Questa settimana segna altresì i 10 anni dalla data in cui Wikileaks ha divulgato i documenti relativi alla guerra in Iraq.

Ma cosa successe esattamente oltre una decade fa?

All’inizio del 2010, Bradley Manning (in seguito Chelsea Manning, per il cambio di sesso avvenuto subito dopo la condanna nel 2013, n.d.g.), analista dell’intelligence delle forze armate statunitensi in campo in Iraq, si allarma per gli abusi perpetrati dai militari a stelle e strisce nei confronti dei civili iracheni – violenze che talvolta aveva visto commettere direttamente, e per le quali nessuno degli ufficiali suoi superiori, a cui si appella, sembra dimostrare alcun interesse. Deciso a non retrocedere, assumendosene la responsabilità, contatta alcuni media, ma ciò non provoca alcuna reazione – forse perché non gli si crede o, più facilmente, a causa dei documenti giudicati troppo sensibili. Nessuna delle testate giornalistiche pare volerlo ascoltare, almeno finché si rivolge a Wikileaks al quale, in seguito, invierà alcuni file.

Tra le eroiche azioni di Bradley/Chelsea Manning va ricordato che, oltre ad essere stata oggetto di 10 anni di persecuzioni legali, compresa la detenzione, gli Stati Uniti hanno tentato sui di lei una coercizione di falsa testimonianza a carico di Julian Assange, a cui non ha mai capitolato.

Chelsea Manning

WikiLeaks, quindi, esamina i dati, oscurando accuratamente le informazioni sensibili, e rilascia online 391.832 documenti di report sul campo delle forze Usa e degli alleati coinvolti nella guerra di invasione in Iraq, dal 2004 al 2009, dove sono stati registrati 109 mila morti tra gli iracheni.

I documenti mostrano come le forze armate statunitensi descrivano abitualmente coloro che uccidono come ‘ribelli’ invece di comuni civili. Tra questi, risulta il caso del famoso attacco con elicottero Apache – nel 2007 a Baghdad, documentato nel video Collateral Murder (edito da WikiLeaks) – che uccide 19 cittadini inermi, inclusi due giornalisti della Reuters. Un comunicato stampa dell’esercito statunitense, all’epoca, descrisse l’evento come un fittizio ‘scontro a fuoco con insorti’.

I registri di guerra rivelano inoltre che circa 700 civili sono stati uccisi dalle truppe statunitensi e alleate per ‘essersi avvicinati troppo’ a un checkpoint militare: nei numeri sono inclusi bambini e malati di mente e, in almeno sei occasioni, le vittime stavano portando le mogli partorienti in ospedale.

Tra le informazioni trovate nei documenti si leggono anche violenze verso i civili perpetrate dagli appaltatori privati ​​che operavano come truppe d’assalto dell’occupazione americana. Un rapporto descrive i dipendenti della Blackwater che sparano indiscriminatamente su una folla dopo l’esplosione di un ordigno, oppure a un veicolo civile a Baghdad – maggio 2005 – uccidendo un uomo innocente e lasciando mutilate la moglie e la figlia.

Nel complesso, tre risultano essere le principali categorie di rivelazioni.

Vittime civili: almeno 15 mila uccisioni di civili non dichiarate sono state occultate nei documenti delle forze della coalizione a comando Usa.

Crimini di guerra: i registri della guerra in Iraq hanno mostrato come le forze della coalizione abbiano ucciso giornalisti e altri civili innocenti, etichettandoli come ‘nemici uccisi in azione’ al fine di occultare la realtà

Abusi dei diritti umani: i documenti hanno rivelato come le forze statunitensi sapessero che i prigionieri consegnati agli alleati erano sottoposti ad abusi, torture, stupri e omicidi; mentre la politica ufficiale delle forze della coalizione, come rivelato nei registri, era quella di non indagare su tali violenze e di ignorare sistematicamente gli abusi.

In questi anni di asilo politico e poi di detenzione di Julian Assange in Gran Bretagna, è evidente la sistematica violazione dei diritti umani nei suoi confronti, soprattutto da parte della honest law britannica, che non ha dimostrato nessun riguardo – confinandolo fin dall’inizio in cella di isolamento come il più spietato dei terroristi. 

Ma ciò che lascia davvero esterrefatti, il gap più inverosimile in questo caso di libertà di stampa travestito da imputazione di spionaggio, è il silenzio dei media, anche negli ultimi giorni di udienze presso l’Old Bailey – la Corte della Corona e tribunale penale centrale di Londra – a carico dell’imputato Julian Assange.

Oscar Greenfall, giornalista britannico, sempre attivo nella difesa di Assange e del diritto dei cittadini all’informazione, così scrive: “Il New York Times e il Guardian hanno collaborato con WikiLeaks riguardo ai registri di guerra. Il loro scopo, a suo tempo, era controllare la narrazione e ottenere uno scoop. Ma quando divenne chiaro che le pubblicazioni stavano contribuendo a una radicalizzazione politica dei lavoratori e dei giovani, e che WikiLeaks stava affrontando da solo tutta la forza dello Stato americano, allora iniziarono a denunciare Assange nei termini più calunniosi.

Questa è la ragione fondamentale della velenosa ostilità dell’intero establishment politico e mediatico in ogni Paese nei confronti di Assange, in particolare entro i suoi contingenti di pseudo-sinistra e liberali. Lui e WikiLeaks hanno ‘scosso la barca’ da cui dipende la loro esistenza privilegiata ed egoista quale classe medio-alta. Le guerre, inoltre, non erano state affatto un male per i loro portafogli azionari, contribuendo all’aperto sostegno di questo ambiente verso gli attacchi imperialisti contro la Libia e la Siria”.

Concordiamo pienamente con la visione di Oscar Greenfall e riteniamo che questo sia il motivo principale delle forti reazioni politiche nei confronti di Julian Assange, ovvero contro il coraggio di un solo individuo di scoprire le carte dei signori della guerra. Del resto, i principali alleati degli Stati Uniti nella Seconda Guerra del Golfo e nell’invasione dell’Iraq furono proprio Gran Bretagna e Australia.

Difendere, quindi, la libertà di Julian Assange, non significa occuparsi solo del suo caso individuale ma della libertà di stampa, in generale, e del diritto dei whistleblowers e dei giornalisti di denunciare la corruzione e gli abusi degli Stati. Una questione a cui non possiamo sottrarci, neanche come semplici cittadini.

Di seguito riportiamo alcune affermazioni sul caso Assange:

“Sia chiaro: Julian Assange non avrebbe mai dovuto essere accusato di un crimine, a meno che non sia un crimine denunciare crimini di guerra” – Roger Waters, attivista, co-fondatore dei Pink Floyd.

“Dobbiamo ribaltare la situazione su coloro che cercano di perseguitare Julian e renderli imputati che devono rispondere dei loro crimini”. – Yanis Varoufakis, co-fondatore di DiEM25.

“Il processo all’Old Bailey è una farsa: una parodia per dare l’apparenza di giustizia sulla criminalizzazione di un uomo che ha rimosso il velo sui crimini di guerra, la sorveglianza e la corruzione”. – Alicia Castro, diplomatica argentina, ambasciatrice nel Regno Unito 2012-2016.

“Abbiamo scoperto che, in cambio di sostegno finanziario, il mio successore Lenin Moreno ha accettato di consegnare Julian Assange agli Stati Uniti”. – Rafael Correa, ex presidente dell’Ecuador.

“L’insistenza del mondo occidentale, principalmente degli Stati Uniti e del suo satellite britannico, è di imporre una narrazione e di impedire altre notizie che potrebbero sfidare quella narrazione. Questa è la guerra contro Julian Assange”. – Tariq Ali, attivista, storico, giornalista, regista.

“I media che hanno sfruttato così tanto le rivelazioni di Wikileaks sono assenti quando arriva il momento di difendere il giornalista che era la loro fonte”. – Jeremy Corbyn, ex leader del partito laburista britannico.

“Julian ci ha mostrato che esiste un lato oscuro della Luna e che la peggiore non libertà è la non libertà che sperimentiamo come libertà”. – Slavoj Žižek, filosofo e membro del comitato consultivo di DiEM25.

“Ho citato gli intrecci svelati da Wikileaks presso la Corte internazionale di giustizia, quindi mi colpisce che la persona che ci ha aiutato a guidare questi sforzi di responsabilità sia in prigione”. – Jennifer Robinson, avvocato per i diritti umani.

In copertina: Manifestanti davanti alla Corte di Giustizia di Londra.

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