Modelli standard di crimini di Stato
di Laura Sestini
Il caso della morte del ricercatore Giulio Regeni è nuovamente alla ribalta delle cronache nazionali – e finalmente europeee – di questi giorni, per l’arrivo del Presidente egiziano al-Sisi in Francia in visita ufficiale, al quale il presidente francese Macron ha riservato un’accoglienza trionfale, conferendogli persino la Legion d’Onore – il più alto riconoscimento onorifico della nazione transalpina.
L’assegnazione dell’onoreficenza al politico egiziano ha scatenato notevoli rimostranze da parte di alcuni tra coloro che la medesima Legion d’Onore l’hanno meritata con ben differenti motivazioni di alto valore morale, tantoché alcuni nostri connazionali – iniziativa a cui il giornalista e scrittore Corrado Augias ha dato avvio – hanno restituito al mittente il titolo a suo tempo ricevuto.
Ma cosa si contesta a Macron, con l’arrivo di al-Sisi in visita ufficiale in Francia? Chi è il presidente egiziano per sollevare tanto sdegno tra gli attivisti per i diritti umani e gli intellettuali europei? I conti son presto fatti. Proprio mentre l’Europa decide un percorso per sanzionare chi compia violazioni a tali diritti – quali la tortura, il genocidio, la riduzione in schiavitù, nonché gli arresti e le detenzioni arbitrarie – congelando i beni di chi si macchia di detti crimini (Stati od organizzazioni che siano), in Francia si accoglie con tutti gli onori il Presidente egiziano. A conferma che, di fatto, non cambierà niente. Così si può ragionevolmente interpretare il comportamento di Emmanuel Macron, il quale non ha nemmeno ammesso la stampa agli incontri, svoltisi rigorosamente a porte chiuse.
Sulla violazione dei diritti umani in Egitto, si potrebbe disquisire a lungo e al-Sisi dimostra continuamente di essere sordo a tutti gli appelli internazionali riguardo alle detenzioni arbitrarie, i processi perennemente rimandati e le innumerevoli violenze perpetrate a carico di oppositori politici, attivisti, intellettuali e giornalisti, nel Paese da lui governato – affermando egli stesso che nessun governo dovrebbe immischiarsi nelle modalità operative di altri Paesi (https://www.theblackcoffee.eu/primo-piano-su-legitto-di-abdel-fattah-khalil-al-sisi/).
Oltre ai particolari sopracitati, riguardanti la politica interna egiziana, è necessario ricordare che la Francia negli ultimi anni è stata il maggiore fornitore di armi all’Egitto, cedendo poi il passo all’Italia. Macron difatti precisa – a paradossale giustificazione delle sue scelte – che la vendita di armi e i diritti umani sono due ambiti da considerare in separate sedi, indipendenti l’uno dall’altro. Ma questo fatto convince assai poco e sembra più consono rammentare che la Francia e l’Egitto hanno stretti legami politici, commerciali e geo-strategici in più settori.
Relativamente a Giulio Regeni – purtroppo per la famiglia e per tutte le persone che ne hanno a cuore il caso, ma elementi utili alle indagini – sono state rivelate recentemente le torture da lui subite nei nove giorni che lo hanno condotto alla morte. Oltre a onorarne la memoria e ad auspicare da parte dell’Egitto e di al-Sisi la dovuta collaborazione per conoscere fino in fondo la verità, vorremmo sottolineare le modalità della sparizione, le torture, l’assenza di informazioni adeguate per oltre quattro anni e la similitudine con un altro atroce caso di omicidio – a carico del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre 2018 .
Ricapitolando, il corpo del giovane ricercatore triestino viene ritrovato lungo la carreggiata di una strada di grande comunicazione, poco fuori da Il Cairo il 3 febbraio 2016, non lontano da un edificio operativo dei servizi segreti egiziani. Il corpo è martoriato e il viso irriconoscibile, tanto che la madre lo identificherà solo dalla punta del naso, rimasta sorprendentemente illesa. Le indagini egiziane puntano subito a bande di criminali specializzati in rapimenti di stranieri a scopo di estorsione e in breve tempo si ritrovano i documenti di Giulio, intatti – neanche un po’ impolverati – come fossero stati conservati nell’archivio di qualche ufficio, in attesa di essere recuperati al momento giusto.
Il lungo ping-pong tra Italia ed Egitto per la ricerca della verità sulla morte del ragazzo, puntualmente non accertata o sviata dagli inquirenti oltre Mediterraneo, si protrae fino a che non emergono – circa un anno fa – quattro nomi legati a elementi dei servizi segreti egiziani, potenziali fautori delle fatali torture. Ma ciò non basta per formulare imputazioni precise a loro carico poiché, se è vero che gli autori materiali possono rivelarsi costoro, le direttive in merito alle azioni da essi compiute ai danni di Regeni, è plausibile che siano giunte da ranghi gerarchici superiori. Possiamo presupporre ciò dato che si tratta di uno straniero, la cui vita ha qualche maggiore valore – talvolta valevole merce di scambio – rispetto a un comune cittadino egiziano.
Per avere ulteriori dettagli sulla vicenda, ci sono voluti ancora molti mesi, fino a quando alcuni tra gli agenti di sicurezza che hanno visto transitare Giulio Regeni nella ‘caserma-camera di tortura’ cairota, hanno avuto il coraggio di parlare; fintantoché adesso sono disponibili ben cinque testimonianze contro i sopracitati ufficiali della National Security egiziana – dettagli che permettono di chiedere un regolare processo a loro carico. Sulla conclusione della vicenda – e vorremmo sbagliarci – vediamo già la parola fine, nonostante gli appelli formali di istituzioni politiche europee rilevanti: (David Sassoli@EP_President “Today the @Europarl_EN told Egypt: no compromise on truth, justice and human rights. We want truth for Giulio Regeni, and the killers to be handed over to the Italian authorities. We want Patrick Zaki to be free to reunite with his family”).
La vicenda di Jamal Khashoggi, invece, se nei dettagli specifici è differente dal caso Regeni, per finalità e conclusioni non se ne discosta molto.
Jamal Khashoggi, giornalista molto noto nel mondo arabo, scriveva sia in patria – l’Arabia Saudita – puntando spesso il dito sul principe ereditario Mohamed Bin Salman (MBS), che su affermati quotidiani statunitensi – quali The Washington Post – dove inizia a pubblicare dopo l’autoesilio dalla madrepatria verso gli Stati Uniti, a causa delle differenze di vedute con i regnanti sauditi e il mondo conservatore musulmano sunnita wahhabita (https://www.theblackcoffee.eu/primo-piano-su-larabia-saudita-del-principe-ereditario-mohammad-bin-sal-man/).
Il 2 ottobre 2018 Khashoggi entra da solo nell’ambasciata saudita, a Istanbul, in Turchia – su consiglio della medesima sede diplomatica in territorio statunitense – per ritirare i documenti di divorzio che gli serviranno per il futuro matrimonio con la fidanzata turca Hatice Cengiz, rimasta fuori ad aspettare. Khashoggi, da quel momento, non varcherà mai più vivo la porta del consolato – e il suo corpo non è stato ancora ritrovato, con considerazioni investigative di essere stato disciolto nell’acido all’interno dell’edificio stesso.
Le prime indagini vengono svolte dalla polizia turca che, infine, nonostante i numerosi depistaggi e rifiuti di collaborazione da parte delle autorità saudite, comunica che – secondo quanto scoperto – Khashoggi è stato ucciso dentro il consolato mentre la fidanzata lo attendeva all’esterno, dato che nessuna telecamera di sicurezza ne ha registrato l’uscita. Sarà la stessa Hatice Cengiz a denunciarne la scomparsa dopo tre ore di silenzio, come da accordi presi in anticipo con il fidanzato che, sembra, non si sentisse sicuro neppure ‘in terra saudita’ extraterritoriale.
In seguito alla misteriosa scomparsa, i media turchi pubblicheranno informazioni su un gruppo di 15 uomini sauditi atterrati con jet privati lo stesso giorno a Istanbul e ripartiti in gran fretta la medesima sera, nonostante una prenotazione alberghiera di tre notti nella città sul Bosforo. Gli stessi, dopo gli accertamenti, risulteranno ufficiali delle forze armate saudite e agenti dei servizi segreti – tutti ricollegabili al principe ereditario MBS.
La vicenda e le indagini hanno percorsi contorti, con continui tentennamenti della reggenza saudita a collaborare fattivamente, ma a luglio 2020 a Istanbul vengono processati una ventina di imputati legati al caso; mentre a settembre, a Riyadh, sotto sottoposti a processo otto imputati, condannati per omicidio da tre a vent’anni – eludendo la pena di morte prevista per questo reato, a seguito del perdono della famiglia Khashoggi schierata contro la pena capitale. I condannati appartengono tutti – come previsto dal copione – a reparti delle forze di sicurezza saudita. Le analogie con il caso Regeni sono palesi.
Come per le circostanze di Giulio Regeni, così per Jamal Khashoggi, gli appelli a cercare la verità arrivano da più parti e – per quest’ultimo omicidio – l’Onu ha fatto richiesta di un’indagine a carico del futuro reggente saudita MBS. La verità sembra comunque avere davanti un percorso a lungo termine.(AgnesCallamard@AgnesCallamard#JamalKhashoggi: “Ces verdicts n’ont aucune légitimité légale ou morale, au terme d’un procès qui n’était ni équitable ni juste ni transparent”).
Sabato, 19 dicembre 2020
In copertina: Giulio Regeni.