giovedì, Novembre 21, 2024

Cultura, Multimedialità, Teatro & Spettacolo

Danza e cinema, che passione!

Esce il nuovo libro di Francesca Camponero che ripercorre la settima arte a pas de deux

di Simona Maria Frigerio

Si possono scorrere oltre centoventi anni di cinema per fini storico-documentaristici o accademici, oppure lo si può fare con un piglio divulgativo e molto godibile – come nel caso del libro autoprodotto dalla giornalista e critica di danza e teatro, Francesca Camponero.

Danza e cinema, che passione! è essenzialmente suddiviso in tre parti. La prima affronta gli anni del muto e della definizione tecnica del nuovo medium. È interessante, a proposito, scoprire come la danza possa essere una chiave di lettura per interpretare, a livello semantico, l’utilizzo dei giochi di luce o la scelta dei materiali come, ad esempio, nella danza serpentina ideata ed eseguita da Loïe Fuller (protagonista anche delle prime opere dei Lumière); l’importanza del ritmo (che è intrinsecamente parte di qualsiasi danza) nel cinema degli esordi firmato da Georges Méliès (e, in particolare, nel suo La lanterne magique); o ancora l’uso degli oggetti filmati da Fernand Léger in Ballet mécanique quali elementi plastici in movimento (ossia intrinsecamente danzanti).

Dopo il corposo preambolo e chiariti il sostrato e l’importanza della danza in due generi come l’animazione e le esibizioni coreografiche nell’acqua di Esther Williams, si passa a una ricca carrellata di titoli che hanno fatto la storia della cinematografia. E qui, prima di passare oltre, è d’uopo soffermarsi sull’interessante approfondimento dedicato al capolavoro della Disney, Fantasia – ante sdolcinata deriva che trasformerà il marchio statunitense in sinonimo di politically correct Made in Us.

Nella seconda parte (la più ampia), Camponero non racconta solo la trama dei vari film che analizza, ma per ognuno trova una chiave di lettura originale. In effetti, non si ferma alle pellicole espressamente dedicate al mondo della danza – quali il recente Pina, l’omaggio di Wim Wenders alla Bausch o il thriller psicologico di Darren Aronofsky, Il cigno nero (del 2010) – bensì, da un lato, segue le tappe che hanno contrassegnato l’universo del musical e, dall’altro, trova spunti originali per interpretare film che non penseremmo strettamente connessi con l’arte coreutica, quali Suspiria.

Da notare, a proposito, il modo in cui la giornalista indaga sull’evoluzione del genere musical connettendone sempre forma e contenuto con le istanze sociali e le dinamiche storiche coeve. Attingendo riccamente al patrimonio critico, Camponero fa sua, quindi, in Cenerentola a Parigi (1957) la lettura di Federica Maragno in Cinefilia Ritrovata: “il corpo ‘affamato’ della Hepburn si fa metafora dell’Europa devastata… mentre l’obiettivo della macchina fotografica, a sua volta metafora dell’imperialismo statunitense, trasforma tutto in merce, dal panorama alla modella”; oppure rimanda al saggio di Claudio Bisoni per comprendere la sacralità del corpo di Tony Manero in La febbre del sabato sera, e lei stessa acutamente osserva come: “Un mito esiste in quanto narrazione investita di sacralità” e ancora: “il mito è la riduzione narrativa di momenti legati alla dimensione del rito”. Ecco, quindi, che da spazio/luogo di evasione durante la Recessione a ventata di ottimismo, prima roosveltiana e poi da Piano Marshall, il musical si trasforma nelle sapienti mani, ad esempio, di Bob Fosse in carica erotica trasgressiva che cavalca i movimenti libertari degli anni 70 e 80. Camponero ha anche il gusto di far notare come la danza, in alcuni musical, sia in grado di farsi specchio dell’azione e del mutamento degli stati d’animo dei protagonisti, come accade ad esempio in Cappello a cilindro con l’indimenticabile duo Fred Astaire e Ginger Rogers, che sapranno di essersi innamorati solamente in quella “danza di coppia espressione dell’unità finalmente raggiunta (Cheek to cheek)”.

La terza parte si potrebbe definire tematica e affronta l’utilizzo – da parte dei registi – dell’elemento danza come mezzo per portare alla luce istanze profonde, per fare appello a quell’immaginario collettivo, atavico, che ha sempre trovato espressione nei riti sia religiosi che laici – quali il teatro e, appunto, la danza. E qui si va dall’uso della danza macabra di origine tardomedievale scelta da Ingmar Bergman per Il Settimo Sigillo alla scena del ballo ne Il Gattopardo di Luchino Visconti (e, in particolare, al valzer) che occupa, nella pellicola, quasi la medesima importanza del ricevimento dei Guermantes in À la recherche du temps perdu di Proust.

Un libro scorrevole e gradevole, adatto sia ai cinefili che agli amanti dell’arte tersicorea, che si spera possa essere pubblicato, con la cura necessaria, anche da un editore. Speranza quanto mai vana in tempi in cui tale mestiere sembra scomparso, sostituito dall’autore che deve farsi editore di se stesso, correttore di bozze, promotore, distributore e critico. Mentre pseudo-stampatori si accreditano inappropriatamente di tale titolo, non più investendo sugli scritti e sulle idee, bensì facendosi pagare per pubblicare.

Sabato, 2 gennaio 2021

In copertina: foto di Gerd Altmann da Pixabay.

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