venerdì, Novembre 22, 2024

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Julian Assange rimane detenuto alla Belmarsh Prison di Londra

Il tribunale londinese ritira la libertà su cauzione

di Laura Sestini

Dopo i grandi festeggiamenti di lunedì 4 gennaio, a seguito di quanto annunciato nel verdetto dalla Westminster Court di Londra, che di fatto ha rifiutato agli Stati Uniti la richiesta per l’estradizione del giornalista australiano Julian Assange, arriva improvvisamente un ennesimo ostacolo alla libertà del fondatore di WikiLeaks.

Per la cronaca, Julian Assange è recluso dal 2019 nella HM Belmarsh Prison – carcere di massima sicurezza londinese – per aver violato la libertà su cauzione nel 2012 (concessagli nel 2010) mentre era in attesa di una precedente sentenza di estradizione verso la Svezia, nazione che avrebbe dovuto giudicarlo per una denuncia di stupro (che nel suo caso equivarrebbe ad aver consumato rapporti sessuali consenzienti, ma senza l’uso del profilattico). Assange, al contrario, fuggì e chiese asilo all’ambasciata londinese dell’Ecuador, ricevendo lo status di rifugiato politico. Le accuse di stupro sono da tempo decadute ma per aver infranto le clausole della libertà su cauzione, Assange è stato condannato dalla giustizia britannica al massimo della pena prevista – circa un anno – di cui una parte sarebbe dovuta essere scontata agli arresti domiciliari, misura mai attuata (https://www.theblackcoffee.eu/julian-assange-verso-la-ludienza-di-estradizione/).

La fuga, e la richiesta di asilo a numerosi Stati, oltre otto anni fa, erano stati attuati da Assange per il maggior timore di poter essere trasferito negli Usa – una volta conclusosi il processo nella nazione scandinava. Gli Stati Uniti lo inseguono, infatti, e ne richiedono l’estradizione sin dal 2010, a motivo di numerosi capi di accusa quali spionaggio e pirateria informatica contro lo Stato, per aver decriptato e divulgato migliaia di documenti che riguardano le missioni militari degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan e le atrocità compiute su migliaia di civili inermi (questo il video intitolato Collateral Murder poi ripreso da vari media e ancora disponibile su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=zYTxuW2vmzk ).

Lunedì 4 gennaio con la sentenza presieduta dalla giudice Vanessa Baraitser la giustizia britannica rifiutava il trasferimento del giornalista negli Stati Uniti, ritenendo il detenuto in precarie condizioni fisiche e mentali, e di fatto bloccandone l’estradizione. Si apriva anche alla possibilità di libertà su cauzione.

La linea della difesa – gestita dall’avvocato Edward Fitzgerald e coadiuvata da Stella Morris, avvocatessa, compagna e madre dei due figli di Assange – si era subito messa in moto per depositare la documentazione atta alla richiesta di libertà, come previsto dalla Corte.

Ma la vicenda non si è conclusa con tale sentenza, come sarebbe stato ragionevole, essendone già prevista una seconda per il 6 gennaio. Infine – come in una British crime novel che si rispetti – ecco l’inaspettato colpo di scena. Una repentina inversione a U nello sviluppo del procedimento legale – a soli due giorni dalla sentenza giudicata storica da numerose fonti – la stessa Baraitser per la seconda volta si è pronunciata contro il rilascio dell’uomo, con la stessa identica motivazione del maggio 2020 – quando Assange avrebbe dovuto essere liberato e terminare la condanna del 2019 agli arresti domiciliari.

A commento di come stiano procedendo i fatti riportiamo, dall’ufficio di Londra, le parole di Rebecca Vincent – direttrice delle Campagne internazionali di RSF (Reporters sans frontières): “She ruled against his release, stating that Assange had an incentive to abscond, and ‘as a matter of fairness’ she needed to give the US government the chance to pursue an appeal, which it has indicated she intends to do. Baraitser stated that Assange’s mental health is being managed at Belmarsh prison, and that the prison has its Covid-19 situation under control” (La giudice si è pronunciata contro il suo rilascio, affermando che Assange sia incentivato a fuggire e ‘per una questione di correttezza’ lei debba dare al governo degli Stati Uniti la possibilità di richiedere appello, come è stato indicato che la stessa intenda fare. La Baraitser ha affermato che la salute mentale di Assange è attualmente gestita nella prigione di Belmarsh e che l’istituto ha sotto controllo la situazione per quanto riguarda il Covid-19, t.d.g.).

Rifacendoci alle parole della Vincent, di cui sopra, il 4 gennaio, mentre la maggioranza dei sostenitori di Assange e degli attivisti per i diritti umani e la libertà di parola – le cui cause sono sostenute da tutti i trattati internazionali dei quali anche gli Usa sono firmatari – festeggiavano ad ogni punto cardinale del globo, immaginando un imminente rilascio definitivo di Assange, in pochi si sono soffermati a riflettere sulle reali motivazioni della Corte di Giustizia Londra per la concessione della sua futura – e, a breve, mancata – libertà.

Dovrebbe essere ormai un valore condiviso, da parte dei cittadini e degli attivisti, appellarsi alla libertà di Assange, dato il fondamentale servizio al diritto di informazione che lo stesso ha fornito all’opinione pubblica mondiale, in particolar modo riguardo agli atti di violenza indiscriminata sui civili, commessi da membri dell’esercito nonché da gruppi di sicurezza privata di un Paese, come gli Stati Uniti, che sbandiera di essere campione di democrazia e diritti in ogni punto della Terra, ove poggi piede (https://www.theblackcoffee.eu/trump-concede-la-grazia-ai-mercenari-della-ex-blackwater-worldwide/).

In totale antitesi, la giudice Baraitser e la Corte di giustizia di Londra non hanno minimamente fatto cenno al diritto di informazione e non si sono pronunciati in merito a quanto affermi la legge a riguardo, bensì hanno preso in considerazione unicamente il diritto alla salute mentale del prigioniero Assange, e allo stato di debilitazione al quale – fattivamente – hanno contribuito le stesse sentenze e la prigionia in Gran Bretagna.

L’argomentazione legale sulla salute – fisica e mentale – è dovuta per qualsiasi detenuto; ma in questo caso specifico – fortemente politico – la sua trattazione ha una dimensione parallela al dibattito principale e non si incrocia, né mai si incrocerà, con esso.

A proposito della libertà di parola e del diritto dei cittadini di ricevere una corretta informazione, la giustizia d’oltremanica non si è espressa – sebbene dei relativi trattati internazionali siano firmatari anche i britannici. E ciò non è una premessa positiva. Mentre la volontà della giudice Baraitser sembra già orientarsi a favore di quell’appello per l’estradizione verso gli Stati Uniti, per il quale gli avvocati statunitensi hanno già avviato le procedure (così come i difensori di Assange si stanno muovendo contro di esso).

In pratica la situazione rimane ferma – congelata – a prima della sentenza del 4 gennaio scorso, salvo le dichiarazioni circa lo stato di salute del prigioniero, relativamente al quale le istituzioni britanniche – nonostante gli appelli dei familiari e degli avvocati di Assange – fino a qualche giorno prima dell’udienza non pareva si interessassero minimamente, dato che all’uomo non fornivano nemmeno abiti invernali adatti alle temperature interne alla struttura carceraria di massima sicurezza londinese, dove è tuttora rinchiuso.

Come giornalisti non possiamo che sostenere il giornalismo nella sua accezione più alta, e la libertà di parola – legittima per ogni cittadino – difenendone sempre le rivendicazioni, compreso il caso di Julian Assange.

Alla luce delle sentenze della Westminster Court di Londra, sembra confermarsi quanto paventato da Roger Waters, sostenitore di Assange e co-fondatore dei Pink Floyd, che aveva dichiarato alla stampa: «Con Biden non cambierà la volontà degli Usa di punire Assange». Affermazione a cui aveva fatto seguito con: «I potenti sperano che Julian muoia in prigione».

Ancora una volta ci chiediamo quanto sia legale la mancata liberazione di Assange, che per la seconda volta rimane detenuto in virtù di una presunzione potenziale di reato. Lo stesso ha infatti già scontato l’intera condanna per l’unico reato amministrativo commesso, non ha infranto la legge britannica in altro modo né ha torto un capello a nessun essere umano, ma ha solo cercato di proteggere la propria vita riguardo alla caccia all’uomo organizzata globalmente a suo carico dalle varie amministrazioni statunitensi, che vogliono mantenere il segreto sui propri atti criminali. #Trump/Bush & Co. docet.

In copertina: Julian Assange
Sabato, 9 gennaio 2021

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