A cavallo tra cultura patriarcale, Islam politico e desiderio di democrazia
di Laura Sestini
Il 14 gennaio 2021 si è contato il decimo anniversario dell’esilio volontario dalla carica di Presidente della Tunisia di Zine El-Abidine Ben Ali, rifugiatosi in Arabia Saudita. L’uomo politico, una volta salito al potere nel 1987, aveva istituito e guidato 23 anni di regime repressivo, lasciando i cittadini nella povertà e nella carenza di diritti fondamentali, mentre lui, la sua famiglia e pochi altri dell’entourage politico godevano di grandi ricchezze – attraverso un clan para-mafioso della famiglia Trabelsi a cui apparteneva la seconda moglie – che permetteva un’ampia corruzione ai danni del popolo tunisino.
La situazione a fine del 2010 era, quindi, giunta al limite della sopportazione, con alti tassi di disoccupazione, inflazione e rincari alimentari, precarie condizioni di vita della popolazione in generale. Anche precedentemente la piazza si era fatta sentire a più mandate, ma nel 2010 ebbe una forza mai raccolta prima, tantoché fece cadere il governo in poco più di un mese.
L’avvio delle manifestazioni popolari – iniziate il 17 dicembre 2010 – scattò indirettamente dalla protesta personale di Mohamed Bouazizi, un giovane al quale la polizia municipale confiscava regolarmente i pochi attrezzi da lavoro e gli ortaggi che vendeva per vivere, contestandogli la licenza di venditore ambulante. Il ventisettenne quel giorno si diede fuoco per protesta davanti all’ufficio del governatore, dove si era recato per lamentarsi dell’annosa questione con le forze dell’ordine e le continue vessazioni ricevute.
La tragica fine di Bouazizi funse da detonante per far scendere i cittadini in piazza a rivendicare i propri diritti e lamentare la condizione economica in cui versava la popolazione. Le manifestazioni si propagarono in tutte le maggiori città tunisine – e la risposta di Ben Ali violenta – adducendo a oltre un centinaio di morti, avvenute a causa dei colpi di armi da fuoco sulla folla per mano della polizia – e anche qualche perdita tra le forze dell’ordine.
Due diversi filoni della protesta correvano paralleli: mentre nelle aree più povere del Paese si ambiva a una riforma sociale, nelle città più grandi – Sfax e Tunisi – si lottava per una forma politica democratica.
Nonostante le numerose promesse fatte al popolo, Ben Ali non riuscì a convincere i manifestanti a una transizione più pacifica e benché avesse destituito il Capo di Stato Maggiore – il generale Rachid Anmar – l’esercito chiamato in piazza ad arginare le contestazioni si rifiutò di sparare sui cittadini e si pose solo a protezione dei palazzi istituzionali e dei beni comuni, coadiuvato da squadre di volontari per evitare saccheggi dei quartieri, delle attività commerciali e delle proprietà private.
In attesa delle elezioni generali per un’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto cambiare gli articoli ritenuti superati – votazioni scivolate al 23 ottobre 2011 – si fece un rimpasto di governo e si diede incarico all’ex Primo Ministro della presidenza di Ben Ali – Mohamed Ghannouchi. Al proseguire delle proteste e di fronte ai nuovi morti, lo stesso si dimise, lasciando le redini a Beji Caid Essebsi, uomo politico già ai tempi della reggenza di Habib Bourguiba.
Le elezioni di ottobre, le prime libere dopo 23 anni di presidenza autoritaria, videro una grandissima partecipazione. Le donne, in specifico, sembrarono le più entusiaste di esprimere la propria volontà politica. I voti confluirono in maggioranza verso gli oppositori politici di Ben Ali, in particolare verso partito islamico moderato Ennhadha, incaricato di comporre l’assemblea costituente – partito tuttora in composizione al governo – movimento islamico politico con cui l’attuale Presidente Kaïs Saïed sta flirtando da tempo.
La nuova Costituzione sarà approvata nel 2014, ma le modifiche attuate, e molte delle richieste dei manifestanti – nonostante il nuovo ordinamento giuridico sia all’avanguardia rispetto a tutto il mondo arabo – rimangono ancora solo sulla carta. La transizione verso una maggiore democrazia non è un problema giuridico, seppur di andamento lento, bensì culturale, in quanto la tradizione patriarcale e l’eredità di leggi coraniche fanno molta fatica a metabolizzare la modernizzazione, soprattutto della parte femminile della società.
La vittoria del partito Ennhadha alle elezioni del 2011, nonché il suo perpetuarsi politico all’interno dei numerosi governi che si sono succeduti da allora, è senz’altro uno dei motivi del percorso tortuoso verso una società più laica e democratica, anche a causa della valenza politica – nei numeri – del suddetto movimento politico. A Ennhadha si aggiunge il pensiero e la politica diretta – quale partito di governo – di Al Karama – movimento islamista tunisino salafita che ha fatto parlare di sé per le azioni violente di alcuni suoi parlamentari a danno di un collega del blocco democratico – Anouar Bechahed – per averlo assaltato fisicamente e ferito.
La Tunisia è un paese in evoluzione – attraversato da molte contraddizioni – che ancora non sembra aver trovato la strada giusta per proseguire un percorso post-rivoluzionario unico.
La pandemia da Covid-19 non semplifica le cose, tutt’altro, soprattutto in ambito economico, affossando di netto il settore turistico – la maggiore entrata dell’economia del Paese.
Dopo la rivoluzione sono fiorite molte associazioni femminili, naturalmente da ambo le sponde, politico-religiose e secolariste. Se da un lato si tende alla tradizione e si punta il dito alle ragazze che propendono a un comportamento più occidentalizzato, in contrapposizione troviamo coraggiosamente, e apertamente, chi lotta per i diritti Lgbtq+.
Se il numero delle donne in parlamento ha raggiunto la quota del 35% (la stessa che in Italia) e nel 2018 è stata eletta la prima sindaca donna della storia della Tunisia – nella capitale Tunisi (Souad Abderrahim – appartenente al partito Ennahdha, quindi un compromesso tra islam politico e laicità) – dalla parte opposta troviamo le migliaia di tunisini jihadisti partiti inizialmente verso la rivoluzione libica e in seguito verso la Siria. Quest’ultimi per molto tempo sono stati i mercenari in percentuale più alta come provenienza geografica, nelle due guerre civili.
L’emancipazione femminile, con la rivoluzione del 2011, ha ripreso il percorso di parità di genere – avviato attraverso il Codice di statuto personale del 1956 (anno in cui la Tunisia guadagna l’indipendenza dalla Francia) – per la modernizzazione del Paese voluta dal Primo Ministro Habib Bourguiba (poi primo Presidente della Tunisia fino al 1987, destituito con un colpo di stato da Ben Ali). Ma se per esempio si è trionfato sulla possibilità della donna di poter sposare un uomo non musulmano, tuttora ciò che regolava – e ancora norma – le eredità dai genitori ai figli rimangono vincolate al versetto del Corano che prescrive «Ecco quello che Allah vi ordina a proposito dei vostri figli: al maschio la parte di due femmine»; mentre il disegno di legge per equiparare maschi e femmine al 50% è fermo in Parlamento dal 2018 – ostacolato persino dallo stesso presidente Saïed. Il problema, non è legisativo, bensì è all’interno della famiglia stessa che si rifà alla cultura coranica; e dove ancora le violenze fisiche sulle donne si perpetrano maggiormente: al 41% la violenza fisica e al 35% quella sessuale. La pandemia, come dappertutto, aggrava la situazione.
Nonostante quanto evidenziato finora, le donne tunisine hanno sempre avuto un ruolo non secondario nella società – seppur con tutti gli ostacoli del patriarcato e delle profonde radici della Sharia – dimostrandolo con ancora più forza in questi ultimi 10 anni , dopo la rivoluzione del 2011.
Ciò traspare dalla volontà di forzare i ruoli di genere per raggiungere la parità in tutti gli ambiti della società, e per il coraggio di molte giovani donne che in questi anni si sono trasformate in attiviste, giornaliste, registe o si sono presentate in politica senza timore, denunciando cosa va cambiato nel Paese.
Lina Ben Mennhi, è una di queste. Giornalista-blogger e attivista per i diritti civili e democratici ancor prima dello scoppio della rivoluzione – scomparsa prematuramente a soli 36 anni a gennaio 2020 – seguì e pubblicò molto su quanto stava succedendo in Tunisia durante le manifestazioni popolari del 2011, proseguendo anche negli anni a venire, e diventando il simbolo stesso della libertà di parola contro la dittatura di Ben Ali, la corruzione, le torture e le storture della Tunisia. Candidata nel 2011 al Premio Nobel per la Pace è stata pluripremiata per numerosi reportage video realizzati – preziose testimonianze dal basso della rivoluzione.
Sulle le lotte femminili segnaliamo anche due registe e altrettanti film che testimoniano la realtà del paese magrebino, tra cultura patriarcale e desiderio di maggiori diritti e libertà personali.
‘Appena apro gli occhi (A Peine J’Ouvre les Yeux)’ opera prima di Leyla Bouzid, Premio del Pubblico ai Venice days del Festival del Cinema di Venezia del 2015 – sulla relazione genitori-figli, tra pregiudizio e tradizioni sociali.
‘La bella e le bestie’ di Kaouther Ben Hania e Khaled Walid Barsaoui del 2017 – film di denuncia sulla violenza sessuale, la corruzione e la violazione della legge da parte di funzionari statali e forze dell’ordine.
Sulle orme del movimento femminista internazionale MeToo, in Tunisia nasce EnaZeda (Anche io), che porta avanti gli stessi principi di emancipazione di genere.
Con l’arrivo della pandemia, la Tunisia già economicamente traballante, accusa un forte contraccolpo economico e sociale, tanto che ricominciano a grandi numeri le partenze dei barconi di chi tenta la traversata del Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Dalle rotte dei barconi in mano alle organizzazioni malavitose, il movimento migratorio si è nel frattempo trasformato in viaggi di gruppo di intere famiglie che – con barchini molto più piccoli – tentano la traversata in proprio. Nel 2020 i migranti tunisini sono balzati nuovamente in cima alla lista per nazionalità, con il 42% medio. In maggioranza sono giovani uomini fino ai 30 anni, e minorenni.
Tra questi, a settembre è sbarcato a Lampedusa anche Brahim Aouissaoui – l’attentatore di Nizza.
Non è nostra intenzione puntare il dito o addentrarci nell’argomento: l’indottrinamento islamico è una questione molto complessa che non si può liquidare con due frasi. Certamente tra le motivazioni – non giustificabili ma reali – ci sono la povertà di certe regioni meno abbienti del Paese, e la scarsa istruzione. In proposito abbiamo posto la stessa domanda a tre differenti donne legate alla Tunisia: un’italiana sposata con un uomo tunisino, una donna italiana che vive a Tunisi e una ragazza tunisina che studia in Italia.
“Cosa ne pensi dei giovani radicalizzati islamisti?”
In ordine hanno risposto:
“L’occidente vede la Tunisia un paese meno islamizzato ma la mentalità dei tunisini è limitata dalle imposizioni dell’Islam, radicate fin dall’infanzia. Non tutti nella stessa quantità – chi più chi meno – ma è difficile uscirne. Qui tutti si comportano in maniera standard – dalle cose banali a quelle più importanti. Sono molto conformisti.”
“L’indottrinamento salafita in Tunisia é arrivato nella valigia con Ennahdha. Dieci anni di indottrinamento spinto. Non ho pena per chi sgozza degli sconosciuti: qualsiasi problema o ragioni abbia, non mi fa pena. Mi fanno pena le vittime. Però penso che ci sia qualcosa di veramente potente dietro per convincerli a uccidere.”
“Che dire? Solo che mi si spezza il cuore vedendoli ignoranti e facilmente indottrinabili. Prima della rivoluzione era raro sentire di un tunisino terrorista che ha compiuto un attentato.”
Aggiornamento al 19 gennaio: in prossimità dell’anniversario a 10 anni della caduta di Ben Ali, con il deterrente del coronavirus, nel Paese tunisino era stato indetto il coprifuoco per quattro giorni. Contro ogni previsione, dalla notte del 14 gennaio in numerose città – Tunisi, Sfax, Tozeur, Gafsa, Kasserine, Bizert , Beja, Kairouan, and Monastir – sono in atto rivolte contro il Presidente Kaïs Saïed e l’attuale governo, contro la povertà, la disoccupazione e la crisi politica ed economica. Nelle strade sono scesi soprattutto i giovani e moltissimi minorenni, ovvero le generazioni che non vedono un futuro dignitoso. Oltre 650 manifestanti sono già stati arrestati – maggiormente studenti – mentre le strade fumano dei pneumatici dati al fuoco e dei lacrimogeni usati in quantità dalle forze dell’ordine.
Sabato, 16 gennaio 2021
In copertina: Manifestazione davanti al Teatro Nazionale a Tunisi durante la rivoluzione del 2011. Foto ©Laura Sestini – Archivio Ishtar Immagini (tutti i diritti riservati).