lunedì, Novembre 25, 2024

Italia, Politica

La prima volta del reato di tortura in Italia

Dalle rivolte carcerarie del 2020, fino a Bolzaneto e Giulio Regeni

di Laura Sestini

Dopo tre decenni di dibattito parlamentare sull’introduzione del reato di tortura nella giurisprudenza penale italiana, ecco che nel 2017 viene approvata la legge n°110/2017 che, con gli articoli 613 bis e ter, colma il vuoto legislativo, motivo di numerosi richiami della CEDU – Corte Europea dei Diritti Umani.

L’adeguamento giuridico alla prima ratifica italiana della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 è divenuto particolarmente urgente – pressato dall’Europa – a seguito degli atti di violenza e tortura, ormai ben noti, accaduti durante il G8 di Genova a danno di decine di persone inermi, di differenti generazioni, estrazione politica e sociale, durante la lunga notte della Diaz dove, in un’operazione delle forze dell’ordine, irruppero 346 poliziotti e 149 carabinieri e, in seguito, alla caserma di polizia di Bolzaneto, luogo quest’ultimo dove i fermati furono lasciati nelle mani di un reparto speciale di polizia penitenziaria, i tragicamente famosi GOM.

Allora gli arresti furono 93, mentre 61 le persone ferite e trasportate in ospedale, 3 delle quali in prognosi riservata ed una in coma.

Ricordare questi fatti che, a distanza di vent’anni, hanno ancora molti risvolti poco chiari e intrallazzi di corte da svelare – tali le promozioni a incarichi superiori per alcuni degli autori delle violenze sebbene già condannati, vicende sulle quali ci poniamo ancora domande – rimanda istantaneamente alle rivolte carcerarie di marzo 2020, dove hanno perso la vita 14 detenuti. La recente puntata di Report su Rai Tre – condotta da Sigfrido Ranucci – ha proposto puntualmente un’interessante, e rivelatrice, inchiesta sui decessi nel carcere di Modena https://www.raiplay.it/video/2021/01/Report-ec5cef26-c277-4b36-bcb1-b5603e512787.html, per la quale sono indagati numerosi agenti di polizia penitenziaria, ancora una volta per la prepotente violenza anche su coloro che non avevano aderito alla  contestazione di massa.

Per tortura ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della Convenzione dell’Onu si intende: “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso, o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate“. Nella CAT, quindi, la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni della libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è ivi individuata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell’abuso di potere e, quindi, nell’esercizio arbitrario e illegale di una forza legittima https://www.camera.it/leg17/561?appro=OCD25-270.

Mentre nella convenzione Onu può risultare tortura ‘un qualsiasi atto causante dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali’, la legge italiana prescrive:

«Art. 613-bis (Tortura). – Chiunque, con violenze o minacce gravi,

ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un

verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà

personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza,

controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di

minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a

dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se

comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della

persona. Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico

ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei

poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al

servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze

risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o

limitative di diritti […]. https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2017;110.

Alcune precisazioni della normativa italiana risultano alquanto equivoche, e potrebbero dare adito a interpretazioni errate da parte di chi detiene il potere, privilegiando le forze dell’ordine, siano reparti antisommossa o di polizia penitenziaria che, secondo quanto riportato dal testo della legge, potrebbero causare sofferenza nell’esecuzione legittima di misure privative. Così come potrebbe non essere considerata tortura una sola condotta – intesa questa come unica azione – che, invece, deve essere reiterata per tramutarsi in atto di tortura. Tutti i confini che determinano cosa sia effettivamente un atto di tortura paiono molto torbidi e aleatori, insufficienti alla protezione dovuta al soggetto sottoposto a violenza.  Di fatto, numerose sono le associazioni per i diritti umani, quali Amnesty International, insoddisfatte della legge n°110/2017 sul reato di tortura, della quale denunciano i numerosi punti labili, suscettibili a mala interpretazione.

Nonostante tutte le lacune della giurisprudenza italiana sulla tortura, il 15 gennaio scorso Pietro Licari – un agente penitenziario in servizio presso il carcere di Ferrara – è stato condannato, con rito abbreviato, a tre anni e otto mesi per tortura aggravata e lesioni personali, per aver commesso – in veste di pubblico ufficiale – deliberata violenza contro un detenuto, avendo agito con crudeltà e violenza grave. Una vicenda del 2017, per la quale sono stati rinviati a giudizio anche due colleghi di Licari e un’infermiera. La sentenza di condanna a Licari è la prima in assoluto per il reato di tortura comminata in Italia da quando la legge è entrata in vigore. In ogni caso una vittoria sul contorto percorso verso la salvaguardia dei diritti umani.

Parlando di tortura non ci si può sottrarre dal citare la morte di Giulio Regeni, caso di sequestro e di tortura da parte di alcuni membri dei servizi segreti egiziani (Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif), riguardo al quale il Presidente al-Sisi non sembra voler collaborare. L’udienza che avrebbe dovuto tenersi in questi giorni a Roma, per decidere se gli imputati andranno a processo, è stata rimandata, e si ipotizza già che l’iter giudiziario si svolgerà in contumacia, ovvero in assenza degli accusati. Quella dello studente triestino – di cui il 15 gennaio ricorreva il compleanno – deceduto per le crudeli torture ricevute, è una vicenda giudiziaria che fatica ad andare avanti, e rischia di incontrare altri rifiuti da parte dell’Egitto. Eppure, entrambi gli Stati, Italia ed Egitto, hanno ratificato la Convenzione internazionale contro la tortura, e proprio in base a questa l’Egitto ha l’obbligo di sottoporre a giudizio i suoi pubblici ufficiali accusati degli atroci atti perpetrati sul ragazzo.

Una domanda sorge spontanea: chissà se l’Egitto, attraverso il proprio ordinamento giuridico, nei suoi tribunali, emette condanne per il reato di tortura, o viceversa, analogamente all’Italia – che ha impiegato tre decadi per inserirlo nel Codice penale – latita di volontà di applicazione, nella stessa misura dimostrata fin qui per il caso di Giulio Regeni.

Sabato, 23 gennaio 2021

In copertina: una stanza adibita a pratiche di tortura. Foto: Marcin Czerniawski da Pixabay.

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