… e l’indifferenza
di Ettore Vittorini
Nel lontano dicembre del 1984 mi trovavo in un kibbutz, tappa di un viaggio in Israele come inviato del mio giornale. Tra gli abitanti vi conobbi la signora Formìggini originaria di Roma che scampò alla deportazione grazie all’aiuto di una concittadina cristiana. La signora mi raccontò che ancora ragazzina viveva con la famiglia in un palazzo sul Lungotevere poco distante dal quartiere del ghetto. Una mattina rientrando a casa dopo essere stata in un negozio, vide un camion militare fermo davanti al portone. Esitò per qualche attimo e restò ferma fino a quando la portinaia del palazzo non le andò incontro, la prese per un braccio e la allontanò dal portone, le indicò una panchina e disse: «Vai a sederti lì e rimani fino a quando non ti vengo a prendere».
«Da quella panchina vidi i miei genitori e mio fratello fatti salire a spintoni dalle SS sul camion», mi raccontò. «Ero tentata di raggiungerli ma mi resi conto che non sarebbe servito. Piansi fino a quando la portiera non mi venne a prendere». La donna la condusse all’interno della portineria e le disse di non farsi vedere da nessuno. La mattina dopo l’accompagnò in treno da una parente dove la ragazza rimase fino all’arrivo degli Alleati.
Il kibbutz si trovava ai confini con la Giordania ed era socialmente ben organizzato come tanti altri sparsi nel territorio israeliano. Vidi il salone dove venivano consumati i pasti in comune, i magazzini, le botteghe degli artigiani, la scuola con i banchi di tanti colori, con le pareti tappezzate dai disegni dei bambini e una scala che portava al rifugio. Di fronte alla mia meraviglia per quel locale sotterraneo, un accompagnatore mi disse: «Purtroppo siamo in zona di guerra e ogni tanto da queste parti piove qualche missile».
Questa mia premessa è un omaggio alla Giornata della Memoria, una data che impone a tutte le persone dai sentimenti normali a non dimenticare che nella ‘civile Europa’, nella Germania un tempo culla della scienza, della cultura e di tanti valori spirituali, migliaia e migliaia di uomini nel nome di Hitler e del nazismo uccisero metodicamente milioni di altri esseri umani ‘colpevoli’, secondo le menti degli assassini, di appartenere alle opposizioni di sinistra, di essere omosessuali, zingari e di professare una religione già segnata da duemila anni di persecuzioni. I più colpiti furono gli ebrei e ne morirono sei milioni nei lager dopo essere stati razziati da tutta l’Europa occupata.
Misfatti di questo genere dall’ inizio del secolo scorso se ne contano a decine e spesso vengono rimossi. Mi auguro che la Shoah non venga mai dimenticata, che la giornata della Memoria diventi universale e che comprenda anche il ricordo di tutte le vittime delle persecuzioni. Il secolo scorso è stato lo scenario di tante uccisioni di massa. Cito i pogrom contro gli ebrei organizzati nella Russia degli Zar; la strage di un milione e mezzo di armeni in Turchia voluta dal governo e dai generali durante la Prima guerra mondiale. Se ne parla pochissimo e la Turchia di oggi non riconosce ancora quell’eccidio. Lo ricordò il cantante Charles Aznavour, di origine armena (Aznavourian era il suo vero cognome), nella sua commovente canzone Pour toi Arménie, scritta negli anni Sessanta.
Gli armeni, di religione cristiana, erano da tempo ben integrati nella società turca. Erano imprenditori, banchieri, artisti, intellettuali, politici che insieme ad altri progressisti musulmani contribuivano a imprimere un certo sviluppo al Paese dei sultani. Purtroppo la crisi economica e le sconfitte nella guerra, accompagnate da proteste popolari, spinsero le autorità a inventare negli armeni un capro espiatorio. L’eccidio ebbe tale risonanza che persino l’ambasciatore della Germania, alleata nel conflitto, protestò presso il governo della Sublime Porta. L’incoerenza della storia!
E nell’arrivare agli eccidi commessi dai nazisti nella Seconda guerra mondiale, il percorso è insanguinato da tante altre stragi di popoli. Merita ricordare un genocidio rimasto sconosciuto per tanto tempo: quello del popolo ucraino dopo la presa del potere dei bolscevichi. Seguirono le deportazioni in Siberia volute da Stalin; la strage di Katyn’ dove furono assassinati diecimila militari polacchi inermi dalle truppe sovietiche, dopo la spartizione della Polonia decisa dal patto tra Germania nazista e Urss; la deportazione in Siberia di decine di migliaia di cittadini delle tre Repubbliche baltiche occupate dall’Armata rossa. I partiti comunisti occidentali, i cui leader erano a conoscenza dei fatti, non ne accennarono mai.
Anche un altro immane eccidio si è perso negli angoli più oscuri della memoria: quello che i cinesi definiscono l’Olocausto asiatico. Si svolse nel 1937 durante l’invasione giapponese della Cina. La città più colpita fu Nanchino quando le truppe del Sol Levante la occuparono. In una settimana furono uccisi 500 mila civili (altro che Hiroshima e Nagasaki!); migliaia di donne stuprate e poi uccise; bambini massacrati. Gli ufficiali giapponesi avevano promesso ai loro soldati una promozione per chi uccideva in tempi più brevi 100 cinesi. I giornali di Tokio riportarono la notizia come se fosse stato un evento sportivo. Anche la mite Corea, invasa dagli ‘eroi’ del Sol Levante, subì un grave affronto: 600 mila giovani donne furono deportate in Giappone e costrette a prostituirsi o a fare le cameriere – meglio sarebbe dire le schiave – presso le famiglie giapponesi.
Di fronte a tutto questo l’imperatore Hirohito, venerato come un dio, non si pronunciò mai. Dopo la guerra i cinesi denunciarono al mondo il massacro, mentre i giapponesi per tanti anni si limitarono a definirlo un ‘incidente’. Solo poco tempo fa l’ex Premier Shinzō Abe ha fatto pubblica ammenda, ma pochi giorni dopo ha reso omaggio al Mausoleo di mille criminali di guerra. I giapponesi sono restati indifferenti.
Questo è accaduto anche nella Germania del dopoguerra per tanti anni. Lo scrittore britannico George Orwell, inviato nel ‘45 dal giornale Observer in quella nazione appena occupata, scrisse in un articolo che i tedeschi erano arrabbiati non contro Hitler, che li aveva condotti al disastro, ma per aver perso la guerra.
Anche in Italia i ricordi della Seconda guerra mondiale, della Resistenza, dei misfatti del fascismo, vennero accantonati dai governi, da una gran parte della popolazione e della grande stampa legata al potere democristiano. ‘Italiani brava gente’ era la frase che circolava in continuazione. Niente di più falso perché quelle parole coprivano il grave operato del fascismo e dei militari in patria e nei territori occupati. Delle leggi antiebraiche del 1938 volute da Mussolini con la complicità della Casa Reale non se ne parlava proprio; nemmeno della deportazione degli abitanti del ghetto di Roma occupata dai nazisti; degli eccidi nella Risiera di San Sabba a Trieste; del campo di concentramento di Fossoli. Molti italiani aiutarono gli ebrei perseguitati, ma tanti altri indicarono i loro nascondigli agli aguzzini.
Quello che l’Italia fece nell’Etiopia occupata, venne rivelato dallo storico Angelo Del Boca nel suo libro dal titolo ironico Italiani, brava gente?. In seguito a un attentato al governatore fascista, generale Rodolfo Graziani, che rimase ferito, fu ordinata una feroce rappresaglia durante la quale nella sola Addis Abeba, tra il 19 e il 21 febbraio del ‘37, furono uccisi 30 mila civili etiopi. A maggio ci fu il massacro premeditato di Debra Libanòs, un grande santuario della Chiesa etiope cristano-copta nel quale erano radunati monaci, preti e pellegrini. Il governatorato fascista aveva sollecitato quel raduno, con la partecipazione anche di autorità italiane, come simbolo di una pacificazione. Fu un tranello: invece delle autorità arrivarono i soldati comandati dal generale Maletti, che massacrarono 2 mila religiosi presenti in quel luogo. La Chiesa di Roma, pur conoscendo l’accaduto, tacque.
Il generale Graziani lo rivediamo più tardi nella Repubblica di Salò come Ministro della guerra e comandante delle milizie. Dopo la Liberazione venne processato e condannato a morte. Ma fece soltanto pochi mesi di carcere e fu liberato. Anni dopo la sua morte per vecchiaia, il suo paese natio, Affile, in provincia di Roma, gli dedicò un mausoleo finanziato per 150 mila Euro dalla Regione Lazio. Il sindaco nella richiesta della sovvenzione spiegò che si trattava soltanto di un monumento ai caduti. L’ANPI denunciò l’episodio e nel 2018 il processo si concluse in Cassazione con la condanna per apologia del fascismo del Sindaco Viri e di due assessori. Del mausoleo ne parlò addirittura il New York Times definendo il generale un massacratore e aggiungendo: “Come se in Germania fosse stato eretto un monumento a Himmler o a Göring”. Il commento del sindaco fu che il monumento sarebbe rimasto dov’era e che Graziani era un illustre cittadino e un grande condottiero. Dichiarazioni che fanno paura e che aprono il sipario dietro il quale viene celato il risorgere del fascismo e della negazione di un drammatico passato.
Al contrario, nel Giorno della Memoria, i giornali, la Rai e La7 hanno dato grande spazio alla Shoah; hanno dato voce agli ultimi ebrei scampati alla morte dei campi di concentramento; hanno ricordato le parole di Primo Levi. Questa mobilitazione deve diventare costante, deve entrare di più nelle famiglie, nella scuola, senza mai sottovalutare i rigurgiti del fascismo.
L’ambasciatore israeliano a Roma, parlando alla Radio ha ricordato la Shoah e ha anche sottolineato giustamente l’indifferenza degli inglesi verso le persecuzioni naziste iniziate ancor prima della guerra. Le autorità britanniche, che allora occupavano la Palestina, respingevano le migliaia di ebrei che fuggivano dall’Europa per raggiungere la terra promessa; istigavano la popolazione araba contro gli ebrei residenti. Ma ha sottolineato che l’antisionismo continua anche oggi attraverso le numerose sanzioni contro lo Stato d’Israele e le continue accuse contro il suo operato verso i palestinesi. Su questi due ultimi punti sbaglia perché le sanzioni partono dall’ONU e le critiche vengono rivolte non al popolo ebraico ma a uno Stato che usa sistemi imperialistici verso popolazioni cacciate dalle loro case e costrette a vivere per anni da profughi.
Anche gli israeliani prima dell’indipendenza hanno combattuto attraverso le loro organizzazioni militari clandestine. È da ricordare l’attentato antibritannico del luglio 1946 contro l’hotel King David di Gerusalemme dove morirono 91 civili. Fu un’azione terroristica molto grave, non giustificabile ma comprensibile. Irresponsabile invece fu il massacro compiuto dai terroristi del movimento ebraico dell’Irgun nel villaggio palestinese di Deir Yassin, dove morirono centinaia di civili. Avvenne il giorno prima dell’indipendenza di Israele.
Citare questi episodi non significa essere antisionisti, ma dare spazio alla storia, allontanare il manicheismo che vuole i ‘buoni’ da un lato e i ‘cattivi’ dall’altro. Fa parte della cronaca politico-militare il ricordo dell’invasione israeliana del Libano nel 1982 e delle truppe che assistevano indifferenti di fronte alla strage nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila commessa dalle falangi cristiane. Ancora più grave fu la strage di Tel al-Zaatar del 1976, un altro campo profughi palestinese. Complici furono le truppe siriane, mandate dall’Onu per pacificare il Libano, che coprirono le spalle alle falangi cristiane armate di cannoni. I morti tra i civili furono migliaia.
Oggi tutto il Medioriente vive nel caos della guerra e dell’odio tra dittature e false democrazie. L’unica nazione veramente democratica resta Israele e da qui dovrebbe partire un segnale di pace.
Sabato, 30 gennaio 2021 – n° 1/2021
In copertina: Berlino, il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa. Foto di Emoro da Pixabay.