Il Paese dell’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustafha Milambo
di Ettore Vittorini
Non sarà facile risolvere il mistero della morte dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci e di Mustafha Milambo. Forse una vendetta, un tentativo di rapimento o addirittura un fuoco amico. Certo è che Attanasio stava percorrendo la strada in cui la sua auto è stata attaccata, per una missione umanitaria.
Era un uomo di pace, non strettamente legato ai protocolli del suo ruolo, attento alle condizioni di vita della povera gente di quei luoghi abbandonati dalle autorità congolesi, inefficienti e corrotte, incapaci di arginare la guerriglia delle milizie locali, alcune legate alla jihad, delle bande di ex militari Hutu, sconfinate dal Rwanda e di banditi. Tutti questi gruppi taglieggiano la popolazione dei villaggi, uccidono, stuprano le donne, rapiscono bambini che poi obbligano a usare le armi e a diventare loro affiliati.
Non è la prima volta che degli italiani in missione di pace in Congo sono assaliti e assassinati. Nel novembre del 1961, 13 avieri della base di Pisa atterrati all’aeroporto della cittadina di Kindu, con due aerei carichi di aiuti umanitari, furono trucidati da militari congolesi sbandati. Già a settembre dello stesso anno, sempre a Kindu, era stato ucciso Raffele Soru, volontario della Croce Rossa Italiana. La Repubblica del Congo, ex colonia belga diventata indipendente da pochi mesi, era subito precipitata in una sanguinosa guerra civile.
Uno scenario che si è ripetuto in tante altre ex colonie europee diventate indipendenti agli inizi degli anni 60. Popoli, oppressi per decenni, furono abbandonati a se stessi dai colonizzatori dopo un lungo sfruttamento, senza un minimo di istruzione, senza quelle basi fondamentali per organizzare la nascita di nuovi Stati. Mancavano i quadri dirigenti, i tecnici, i politici. Le forze armate prima comandate da ufficiali europei furono affidate a sergenti divenuti, con l’indipendenza, colonnelli e generali. A questo si aggiunse il ritorno delle lotte tribali fomentate dall’esterno e cioè da quegli europei che continuavano a conservare i propri interessi nei Paesi resi liberi soltanto ufficialmente.
L’attuale Repubblica Democratica del Congo – prima Zaire – divenne indipendente il 30 giugno del 1960. Il presidente era Joseph Kasa-Vubu e primo ministro Patrice Lumumba, un intellettuale che aveva studiato in Europa. Il Paese era ed è ricchissimo di prodotti minerari di ogni tipo: coltan, carbone, rame, cobalto, uranio, diamanti, oro, argento, zinco, petrolio oltre al legname. Una ricchezza sfruttata dal Belgio attraverso la Union Minière che, in realtà, era la vera padrona della colonia.
La guerra civile scoppiò dopo che Lumumba, nell’interesse del Paese, decise di nazionalizzare tutte le miniere provocando la rivolta di quei politici locali legati alla società belga. Ci fu subito la secessione della regione più ricca – il Katanga – capeggiata da l’ex sergente Moïse Kapenda Tshombé, finanziato dalla società belga. In appoggio a quest’ultimo, il governo di Bruxelles inviò subito un contingente militare con la scusa di mettere in salvo i civili europei. All’esercito belga si unirono bande di mercenari provenienti soprattutto dal Sud Africa e dalla Rhodesia, a quell’epoca Stati razzisti. Intervennero le Nazioni Unite con l’invio di truppe di pace che poterono far poco nel caos che si era generato. Tanto più che il segretario generale dell’Onu, lo svedese Dag Hammarskjöld, morì in un ‘incidente’ aereo sui cieli della Rhodesia, mentre si recava in Katanga per negoziare il cessate il fuoco. Il velivolo esplose in volo e le cause non sono mai state accertate. Qualche mese prima Lumumba era stato arrestato e ucciso mentre ‘tentava la fuga’. Con lui finiva il sogno di un Congo veramente indipendente.
Nel 1965 si concluse la secessione del Katanga mentre lo sfruttamento delle miniere rimase ai belgi e ad altre multinazionali. Il generale Mobutu Sese Seko assunse il potere mantenendo una dittatura che durò sino al 1997. Fu un esempio di dittatore cleptocratico – arricchitosi, cioè, attraverso le tangenti sulle risorse minerarie e i copiosi aiuti internazionali, mentre la maggior parte della popolazione continuava a vivere nella miseria.
Sino alla metà del 1800 l’intera regione del Congo, grande tre milioni di chilometri quadrati, non aveva ancora subito le ‘attenzioni’ delle nazioni espansioniste europee. Vi arrivavano dal Sudan gli arabi che, con le loro incursioni nei villaggi, catturavano gli abitanti più validi per poi venderli come schiavi.
Quell’enorme territorio, ancora da sfruttare, attirò l’attenzione del re del Belgio, Leopoldo II, il quale da tempo pretendeva per il suo piccolo Paese un’espansione coloniale, nonostante il parere contrario del Parlamento e del governo. Agì da privato, inviando nel 1876 nel Congo un gruppo di geografi cui affidò il ruolo di una esplorazione ‘umana e civilizzatrice’. La missione era in realtà una facciata dietro la quale si nascondeva la ricerca delle ricche risorse del territorio. La spedizione, che percorse tutto il fiume Congo, dette ottimi risultati attraverso i contatti ‘amichevoli’ che gli esploratori ebbero con i vari capi tribù. Così il re s’impadronì gradualmente di gran parte del territorio e ne affidò l’organizzazione al giornalista e avventuriero inglese Henry Morton Stanley, proprio quello che ritrovò il dottor Livingstone sperduto lungo le rive del lago Tanganica.
Lo sfruttamento cominciò dall’avorio ricavato dalle stragi di elefanti, poi passò al caucciù. La Conferenza internazionale di Berlino (1885-86) riconobbe i possedimenti della Corona belga, alla quale assegnò i territori sulla riva sinistra del fiume Congo (2.350.000 Kmq); mentre la riva destra, meno estesa – il Congo di Brazzaville – fu affidata alla Francia. I possedimenti del re presero il nome di ‘Stato libero del Congo’ che, di libero, non aveva proprio niente. I congolesi vennero ridotti in schiavitù: le loro terre quasi tutte adibite allo sfruttamento e alla lavorazione del caucciù; i contadini costretti a produrre secondo un certo standard e coloro che non lo raggiungevano venivano impiccati. Questo sistema valeva anche per il lavoro nelle miniere, nella costruzione di ferrovie e in tutte le attività in cui erano utilizzati gli schiavi. A mantenere questo regime era stato creato un esercito di congolesi comandati da ufficiali bianchi. L’Agenzia Fides sottolinea che le vittime del periodo della brutalità del re padrone furono 10 milioni.
Dopo una serie di proteste dell’opinione pubblica belga e l’intervento del governo, nel 1908 Leopoldo fu costretto a cedere la sua ‘proprietà’, che diventò una colonia amministrata dallo Stato. Il re morì l’anno dopo lasciando alla Casa reale un enorme patrimonio. Sessant’anni dopo l’indipendenza del Congo, il re del Belgio, Filippo, ha inviato una lettera al Presidente di quella Repubblica nella quale chiedeva perdono per i misfatti compiuti dal suo trisavolo. Come accade per tutti gli eccidi commessi nel secolo scorso, i pentimenti e le scuse arrivano sempre in ritardo o non arrivano mai.
Fu, quello del Congo, uno dei tanti genocidi compiuti dalla colonizzazione europea nel nome della ‘civiltà’. Un termine abusato per nascondere lo sfruttamento delle popolazioni africane e di altri continenti, per arricchire poche grandi famiglie, in passato, e tante multinazionali nei nostri giorni.
Tempo fa un gruppo di studenti mi chiese come mai gli Stati africani dopo l’indipendenza sono precipitati nelle guerre civili, nelle feroci dittature corrotte, senza mai vedere apparire una vera democrazia. Feci loro l’esempio del Congo, delle colonie britanniche, tedesche, inglesi, francesi e italiane che avevano abituato i popoli oppressi a odiare.
Sabato, 27 febbraio 2021 – n° 5/2021.
In copertina: schiavi congolesi ai tempi della colonizzazione belga.