Come superare l’inghippo per la transizione ecologica?
di Laura Sestini
Negli anni ‘50/60 del secolo scorso, dalla creazione della fibra di nylon in poi, ci fu la corsa alle materie plastiche. E subito una domanda è d’obbligo: chissà se gli inventori, alcuni dei quali insigniti del Nobel per la chimica, prevedevano già come sarebbe andata a finire solo poche decadi dopo, con le ‘rivoluzionarie’ materie plastiche di allora che oggi soffocano l’ambiente naturale a tutto campo.
Giulio Natta, per citare un ricercatore chimico italiano – premiato col Premio Nobel nel 1963 insieme al collega tedesco Ziegler per le ricerche sui polimeri (una macromolecola costituita da un gran numero di gruppi molecolari uguali o diversi, uniti “a catena” mediante la ripetizione dello stesso tipo di legame ) – creò il polipropilene isotattico, ovvero un polimero semicristallino caratterizzato da un elevato carico di rottura, una bassa densità, una buona resistenza termica e all’abrasione, che comunemente potremmo chiamare ‘plastica’. Quel prodotto fu commercializzato da allora con il marchio registrato ‘Moplen’ e prodotto da aziende controllate dalla Montedison S.p.a., azienda leader nel comparto chimico italiano che in seguito è stata divisa e accorpata ad altre multinazionali.
I sessantenni di oggi – allora bambini – si ricorderanno bene le pubblicità e le gag dello showman Gino Bramieri il quale, per lunghi periodi, fu il testimonial televisivo del marchio italico Moplen al tanto amato Carosello.
Allora nessuno – o quasi – pensava allo studio dell’ambiente, con la convinzione che la Terra fosse indistruttibile ed autorigenerante. O forse erano tutti in malafede. L’uso sconsiderato delle materie generate dalla elaborazione chimica – al contrario – ha mostrato con evidenza quanto inquinamento sia stato prodotto, responsabile anche il mercato liberista e il consumismo, e quanto l’equilibrio ambientale sia delicato e abbia subito per mano dell’uomo soprattutto dalla seconda rivoluzione industriale in poi, del 1870 circa.
Sarà troppo tardi per invertire la rotta e retrocedere verso un mondo libero dalla plastica? L’Unione Europea ha mosso un primo passo in opposizione al degrado a cui l’ecosistema è stato finora esposto bannando gli oggetti in plastica monouso con la direttiva Ue 2019/904 entrata in vigore a gennaio 2021; questa intende eliminare dagli scaffali dei supermercati degli Stati membri piatti, posate, bicchieri e cannucce di plastica usa e getta, sostituibili con materiali compostabili e riciclabili. Gli Stati Ue hanno due anni di tempo per ratificare e adeguarsi alla normativa comunitaria.
Il problema della riduzione della plastica procede parallelo con gli imballaggi degli alimenti e in maniera particolarmente copiosa con le bottiglie contenenti acqua e bevande, di cui gli italiani sono grandi consumatori – i primi in Europa per l’uso di acqua imbottigliata e terzi nel mondo.
Allo scopo, nella citata direttiva Ue, si spinge il riciclo al 99% delle bottiglie di plastica PET – la qualità di plastica trasparente adatta al contatto con gli alimenti e utilizzata per la conservazione dell’acqua minerale – entro il 2030, mentre per le bottiglie di plastica future è obbligato l’uso di plastica riciclata al 25% dal 2025, in aumento al 30% dal 2030.
Sempre a proposito di acqua confezionata nella plastica, il consumo mondiale è raddoppiato in soli 10 anni (2009-2019), passando da 5 a 10 miliardi di bottiglie, molte delle quali finite sparse nell’ambiente a tutte le latitudini. Il periodo di degrado della plastica nell’ambiente prende alcune centinaia di anni e attraverso questo processo si disperdono le microplastiche, che ben si amalgamano alla terra e agli elementi naturali.
Gli ricercatori ambientalisti hanno già pubblicato differenti studi sulle microplastiche – ovvero i detriti polimerici sotto i 5mm. – ormai entrate a far parte integrante nell’ambiente marino e nel ciclo della pioggia, tantoché le ritroviamo al suolo in luoghi desueti e anche nei ghiacci dell’Artico (https://www.theblackcoffee.eu/piovono-microplastiche/).
Secondo il rapporto annuale del WWF ogni anno l’equivalente di fino a 20 milioni di tonnellate di plastica finisce negli oceani, rappresentando il 42% del totale dei rifiuti abbandonati sulle spiagge. L’Europa si aggiudica lo sversamento in mare annuo di 150-500mila tonnellate di macroplastiche e tra le 70 e 130 mila tonnellate di microplastiche.
Ma se in Europa si tenta, con una certa timidezza, di correre al riparo, altrettanto non possiamo affermare per i Paesi in via di sviluppo.
Partiamo dal concetto che i produttori di materie plastiche – sovente multinazionali legate al comparto petrolifero – non abbandoneranno il campo tanto facilmente. A conferma di ciò, nel 2019, solo 20 produttori di polimeri rappresentavano più della metà di tutto il rifiuto di plastica monouso generato a livello globale. Le statunitensi ExxonMobil e Dow sono le prime in lista, seguite dalla cinese Sinopec: queste sole tre aziende rappresentano il 16% di plastica monouso globale, su 300 produttori mondiali. Una parte dei produttori non ha considerato ancora di passare al riciclo – neanche in parte – dei polimeri usati, continuando a produrre materia vergine.
Grandi investitori e gruppi bancari internazionali investono (e speculano) sul comparto chimico polimerico, detenendo 300 miliardi di dollari Us di azioni nelle società madri produttrici e stimando in 30 miliardi il prestito per la medesima produzione, da banche come Barclays, HSBC e Bank of America, dal 2011 ad oggi.
Nel 2019, la produzione di polimeri riciclati da rifiuti di plastica con modello ‘circolare’ ha rappresentato non più del 2% della produzione globale. Tra le aziende produttrici di materie plastiche, 1/5 di queste ha ricevuto la più bassa valutazione per impatto di economia circolare, mentre ExxonMobil e la taiwanese Formosa Co. sono appena sopra al voto peggiore a causa di mancanza di obiettivi e scadenze certe (fonte: NoPlasticWaste).
L’espansione pianificata della capacità di produzione di polimeri vergini minaccia e stravolge le speranze di un’economia circolare della plastica, stimando la potenzialità globale di crescita del monouso per i prossimi anni oltre il 30% sul totale attuale; una crescita che porterà ad alcuni trilioni di singoli rifiuti di plastica usa e getta in più entro 2025.
I rifiuti generati chiuderanno il circuito convertendosi in inquinamento ambientale nei Paesi in via di sviluppo – i maggiori acquirenti di oggetti in plastica per i bassi prezzi – che spesso hanno una cattiva gestione dei rifiuti; mentre parallelamente i Paesi più ricchi, con gli alti consumi di mercanzie di ogni genere, cercheranno di liberarsi delle proprie spazzature smaltendole in paesi terzi – leggasi Turchia per la Germania e Tunisia per l’Italia – per risparmiare sui miliardari importi di tassazione per i dovuti percorsi di separazione e smaltimento.
I maggiori consumatori di plastica monouso – e quindi di rifiuti plastici – risultano gli Statunitensi e gli Australiani, con 50 chilogrammi annui a testa; 18 chilogrammi attribuiti ai Cinesi – seppur tra i più grandi produttori al mondo – mentre in India si scende a soli 4 chilogrammi pro capite.
I rifiuti di plastica sono un problema geopolitico globale che richiede una potente volontà di cambiamento, nonostante qualche mercato o area geografica più ‘illuminata’. Il valore della produzione mondiale di polimeri è al 30% di proprietà statale: sul podio ci sono Arabia Saudita, Cina ed Emirati Arabi.
Sabato, 22 maggio 2021 – n° 17/2021
In copertina: bicchierini monouso da caffè – Foto ©Laura Sestini (tuti i diritti riservati)