Dalla Colombia all’Iraq, passando per il Myanmar, le proteste popolari non si fermano
di Laura Sestini
Il 2021 commemora il 32° anniversario delle immense manifestazioni popolari che scossero il gigante politico-economico cinese, tra metà di aprile e il 4 giugno del 1989; queste si accesero in numerose città ma principalmente in piazza Tienanmen a Pechino, dove anche si compì un massacro, da parte dell’esercito cinese che irruppe nella piazza con i carri armati, facendo fuoco sui dimostranti.
Incerto ancora oggi il numero dei morti e dei feriti – si parla di migliaia di decessi e oltre 300 mila feriti – dati occultati per la ossessiva censura perpetrata dalla politica cinese.
L’immagine dell’uomo solo che si pone di fronte alla colonna dei carri armati cinesi a guardia della piazza, fece il giro del mondo e tuttora rimane – trasversalmente a epoche e luoghi – il simbolo per eccellenza delle lotte popolari contro i regimi repressivi.
Allora, studenti, operai ed intellettuali cinesi scesero in piazza per protestare contro le violazioni dei diritti umani e della censura al diritto di espressione, contro la povertà e la mancanza di lavoro, contro la corruzione politica e il nepotismo. A seguito delle proteste cinesi, e la carneficina di civili da parte dei militari, presero avvio numerose manifestazioni anche in Europa, contro i regimi autoritari come l’Urss, la Germania dell’Est e tutta la fascia degli Stati comunisti dei Balcani legati al regime russo.
A fine del 1989 infine cadrà anche il muro di Berlino, che decreterà a sua volta la dissoluzione dell’Urss.
In oltre 30 anni – dal 1989 – molte sono state le contestazioni popolari in tutto il mondo contro la corruzione dei governi, il vuoto dei diritti civili o contro la disoccupazione che marchia la vita con povertà, insalubrità ed umiliazioni.
Tra le rivolte popolari attualmente in corso la più violenta si svolge in Colombia dove, dal 28 aprile scorso, i giovani e gli studenti sono scesi in piazza contro la riforma fiscale del Presidente Ivan Duque – appena varata – a cui si sono aggiunte altre critiche, non ultima la corruzione governativa ( https://www.theblackcoffee.eu/colombia-la-polizia-spara-sulle-manifestazioni/). I morti sono giunti a oltre 60 – migliaia i feriti e gli arresti, centinaia le persone scomparse, 340 solo negli ultimi giorni – mentre il Presidente afferma che le contestazioni verranno stroncate con l’esercito – lo stesso che finora ha sparato arbitrariamente sui manifestanti. Nel frattempo crescono le segnalazioni di stupro di gruppo (arma di guerra sempre efficiente) – da parte dei militari e fazioni pro-governative – sulle manifestanti fermate. L’epicentro delle rivolte, e delle maggiori violenze delle forze dell’ordine, rimane la città di Cali, mentre i Social vengono tendenzialmente censurati, con la giustificazione delle scene violente pubblicate.
Dall’altra parte del mondo, le manifestazioni antimilitariste del Myanmar, contro l’esercito e il colpo di stato di febbraio scorso, sono quasi scomparse dall’orizzonte mediatico, sebbene nel Paese si continui a morire per la violenta repressione perpetrata sul popolo in rivolta. La contestazione non si svolge più nelle città, ma si è insinuata nelle regioni di campagna e nei villaggi, che vengono pesantemente bombardati dal governo golpista. Sul fronte opposto, il popolo e gruppi di combattenti rivoluzionari rispondono con attacchi dinamitardi ai convogli militari. Esecuzioni arbitrarie e rastrellamenti degli oppositori politici, permangono in tutto il Myanmar. Nessun dato pubblico certo sui morti, i feriti, gli arresti o le esecuzioni, se non per propaganda politica.
In Turchia continuano le contestazioni degli studenti, iniziate a gennaio all’Università di Boğaziçi di Istanbul, da quando fu improvvisamente nominato Melih Bulu – persona vicina al partito di governo AKP – come nuovo Rettore, designato per decreto presidenziale e non su elezione di ateneo, come da regolamento. Da allora gli studenti e i docenti si sono mossi in una serie continuativa di mobilitazioni pacifiche, davanti all’università. Continuano numerose le violenze e gli arresti – per cui recentemente sono iniziati i processi – mentre vengono soppressi i corsi dei docenti che appoggiano le proteste studentesche.
In Medio Oriente – lunghi strascichi di violenze si susseguono alla imponente mobilitazione popolare iniziata ad ottobre 2019 – conclusasi forzatamente a marzo 2020 a causa della pandemia e dei lockdown governativi. Nei sei mesi di occupazione permanente di piazza Tahrir nella capitale Baghdad – manifestazioni estesesi anche ad altre città irachene – le vittime salirono a quasi 700, unite a circa 18 mila feriti. Come in Colombia, anche in Iraq furono numerose le sparizioni, spesso accompagnate da torture inflitte fino alla morte. Migliaia gli arresti. Ancora una volta in piazza erano scesi soprattutto i giovani e gli studenti – stavolta accompagnati sorprendentemente anche dalle giovani coetanee e compagne di università.
Le richieste della piazza vertono su nuove riforme, contro la corruzione politica, e contro le influenze politiche iraniane e degli Stati Uniti che, quest’ultimi, a conferma delle istanze dei manifestanti, il 3 gennaio 2020, in un attacco terroristico all’aeroporto di Baghdad uccidono il più importante generale iraniano Qasem Soleimani – capo dei reparti speciali delle Guardie Rivoluzionarie Quds; Abu Mahdi al-Muhandis – guida delle forze di mobilitazione popolare irachene PMU – e altri otto uomini.
Il 25 ottobre 2020, nonostante il coprifuoco, migliaia di giovani iracheni tornano in piazza Tahrir – durante il primo anniversario delle manifestazioni dell’anno precedente – per chiedere i nomi degli assassini delle centinaia di vittime, molte delle quali per mano di milizie iraniane che scorribandano nel Paese.
Le manifestazioni hanno ottenuto delle nuove elezioni – slittate ad ottobre 2021 – ma gli attivisti continuano ad essere rastrellati da veri e propri squadroni della morte – milizie appartenenti a gruppi politici conservatori e islamisti. Negli ultimi mesi 35 attivisti sono stati uccisi, mentre nelle nuove contestazioni lo slogan principale è “Who killed me?” per la campagna lanciata dalla famiglia dell’attivista Al-Wazni, membro del coordinamento delle manifestazioni, ucciso da milizie filoiraniane a Kerbala l’8 maggio scorso.
A novembre 2020, anche nella Regione Autonoma Curdo-irachena si innescarono delle manifestazioni popolari giovanili per contestare l’operato del governo guidato dal Primo Ministro Masrour Barzani, la corruzione politica, la disoccupazione, e i mancati stipendi dei lavoratori pubblici, esercito compreso. In pochi giorni otto giovani furono uccisi per colpi di armi da fuoco sparate dall’esercito senza stipendio da mesi (https://www.theblackcoffee.eu/in-kurdistan-iracheno-sinfiamma-la-protesta/ ).
Ad Hong Kong – ex-colonia britannica ormai sotto potere cinese – il 32° anniversario di piazza Tienanmen è stato vietato dalle autorità per il secondo anno consecutivo, schierando 7mila agenti e arrestando preventivamente Chow Hang-tung, avvocatessa e vicepresidente di Alleanza di Hong Kong – movimento attivista che supporta il Movimento patriottico democratico della Cina (HK Alliance) – che dal 1990 organizza la veglia in ricordo delle vittime. Nonostante ciò centinaia di persone vestite di nero si sono presentate intorno al Victoria Park per lanciare i loro slogan pro democrazia e libertà. Come da copione, alcuni attivisti sono stati arrestati rischiando fino a cinque anni di prigione per manifestazione non autorizzata.
Sabato, 5 giugno 2021 – n°19/2021
In copertina: la campagna di ricerca dei desaparecidos – Foto courtesy Colectiva Feminista DiverGente