Quando lo Stato oltraggiò la democrazia
di Ettore Vittorini
Il mese di luglio rievoca nel ricordo dei genovesi e di tutti gli italiani non più giovanissimi, che tengono alla democrazia, due gravi episodi che oltraggiarono lo Stato democratico. Si tratta dei “Fatti di Genova” del 1960, manifestazioni di protesta antifascista iniziate nel capoluogo ligure – poi estese in tutta Italia – represse con morti e feriti dalle forze di polizia. Nel 2001 – 41 anni dopo – la feroce repressione contro le manifestazioni per il G8 – che era riunito nella stessa città dal 20 al 21 luglio. Entrambi i casi sono accomunati dalla storia della politica italiana che vide l’entrata dell’estrema destra nei governi della Repubblica. Il primo, guidato dal democristiano Fernando Tambroni, ottenne l’appoggio del neofascista Movimento Sociale italiano; il secondo del premier Silvio Berlusconi eletto da poco, alleato con la Lega e Alleanza Nazionale, ex MSI.
In occasione del G8 del 2001 – vi aderiva anche la Russia espulsa anni dopo in seguito all’occupazione della Crimea – il Social Forum organizzò a Genova una manifestazione in nome della pace, della libertà, dell’ambiente. Migliaia di aderenti – pacifisti, ecologisti, no global – arrivarono da tutto il mondo per partecipare ai cortei dimostrativi decisi dalle loro organizzazioni.
Il 19 luglio trovarono una città blindata in un clima di stato d’assedio. Il centro e il quartiere del vecchio porto erano stati proclamati dalle autorità “zona rossa” interdetta e i residenti avevano severi limiti ai loro spostamenti. Decine di container e altri ostacoli bloccavano le vie d’accesso sorvegliate da polizia, carabinieri e guardia di finanza in assetto antisommossa. Erano stati messi in campo migliaia di uomini con gipponi e blindati, come in attesa dell’invasione di un esercito nemico.
La mattina dello stesso giorno parte da Brignole un corteo di manifestanti diretto verso la zona rossa; nessuno ha intenzione di superarla, ma soltanto di arrivare al limite. I dimostranti sfilano con le braccia sollevate mostrando le mani dipinte di bianco per palesare le loro intenzioni pacifiche. E infatti non avviene alcun incidente. La situazione si capovolge il giorno dopo quando in coda a uno dei cortei, sbucano dal nulla un migliaio circa di black bloc, giovani vestiti di nero, perfettamente organizzati, che al suono di tamburi all’improvviso si scatenano sfasciando pali indicatori, semafori, capovolgendo e incendiando automobili, sfondando vetrine di negozi.
Le forze dell’ordine non intervengono, ma lo fanno più tardi verso i cortei dei pacifisti che vengono caricati con estrema violenza. La reazione di gruppi di dimostranti si trasforma in guerriglia: i black bloc si mescolano ai pacifisti; vengono lanciate bottiglie molotov contro i mezzi degli agenti e ormai le strade vicine alla zona rossa si trasformano in scenari da guerriglia. In uno di questi muore Carlo Giuliani – mentre stava lanciando un estintore contro una jeep dei carabinieri – ucciso da un milite con un colpo di pistola.
Il 21 la città è ancora in stato d’assedio: le forze dell’ordine percorrono le strade fermando tutti i giovani “sospetti”, arrestandone a decine e trasferendoli nella caserma di Bolzaneto. In serata, quando tutto sembra finito, 400 agenti di polizia fanno irruzione nella scuola Diaz dove si trovano un centinaio di persone tra cui anche giornalisti stranieri. E lì comincia la mattanza o quella che il vice questore Michelangelo Fournier definì in un successivo processo una “macelleria messicana”.
Gli agenti si accaniscono contro gli ospiti della scuola massacrandoli di manganellate, calci pugni, sbattendo le teste delle loro vittime contro le pareti, i termosifoni. Vengono portate in ospedale 61 persone, molte con ferite gravi e alcune con prognosi riservata; il giornalista inglese Mark Covell è in coma e ne uscirà dopo giorni con lesioni permanenti.
Nella caserma di Bolzaneto – alla periferia di Genova – la polizia si accanisce contro un centinaio di dimostranti che avevano arrestato. Al processo in Cassazione i giudici scrivono: ‘ Ci fu un completo accantonamento dello stato di diritto; furono commesse violenze per motivi abietti; gli agenti avevano la certezza dell’impunità’. Dagli atti processuali risultò, tra l’altro, che un agente aveva divaricato le dita della mano di un prigioniero fino a strappargli i tendini. Fu dunque usata la tortura – termine che ancora non era contemplato dal nostro codice penale – divenuta reato solo nel 2017 – dopo 29 anni di faticoso iter parlamentare.
Sulla Diaz e Bolzaneto nel corso degli ultimi anni si sono svolti processi nei tre gradi, ma i giudici hanno avuto molte difficoltà nel portare avanti le indagini, tra l’omertà all’interno della polizia, i rinvii e le prescrizioni. Poche le condanne e non proporzionate alla gravità dei reati. In quei giorni di Genova era ministro degli Interni Claudio Scajola, noto alle cronache anche per aver comprato con un forte sconto, a ‘sua insaputa’, un appartamento di lusso nei pressi del Colosseo.
Passiamo ai Fatti di Genova del 1960. Il governo Tambroni, sostenuto dai neofascisti – con l’approvazione del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi – permette che il congresso del MSI si svolga in questa città, insignita della Medaglia d’oro della Resistenza per aver costretto le truppe tedesche alla resa, ancor prima dell’arrivo degli alleati. Quel congresso rappresenta una sfida a una popolazione che ha subìto l’occupazione nazista e che si è ribellata combattendo.
Il 30 giugno, durante un pacifico corteo di protesta, cui partecipavano i partiti dell’arco costituzionale – dai comunisti ai repubblicani – la polizia attacca duramente i manifestanti. La risposta della piazza è immediata: seguono giorni di guerriglia urbana che ha per protagonisti molti giovani. Alla fine il congresso del MSI viene rinviato a data da destinarsi e in un’altra città. Un mese prima di questo episodio c’era stato un antefatto: a Livorno i parà della Folgore avevano sfilato per le strade del centro cantando inni fascisti e facendo il saluto romano. Fu una provocazione in una città in cui per il PCI votava più del 60% della popolazione. Le gesta dei paracadutisti provocarono la reazione dei livornesi: portuali, operai, giovani scesero in piazza e caricati duramente dalla polizia.
Sembrava che le provocazioni fossero state preordinate a livello governativo. Dopo Genova la tensione si estese nel resto del Paese: il 7 luglio a Reggio Emilia la polizia sparò ad altezza d’uomo sui dimostranti uccidendone cinque; ad Avola ci furono due morti durante una manifestazione di solidarietà; a Licata decine di feriti.
Il 6 luglio a Roma, durante una cerimonia a Porta San Paolo – cui partecipavano anche parlamentari comunisti, socialisti, repubblicani e socialdemocratici – in ricordo della battaglia contro i tedeschi successiva all’8 settembre del ’43, i carabinieri a cavallo attaccarono – sciabole sguainate – la pacifica commemorazione.
Anche all’interno della DC ci furono reazioni contro il governo Tambroni: ai funerali delle vittime di Reggio Emilia partecipò il segretario regionale democristiano. A Roma 61 intellettuali cattolici firmarono un documento contro l’alleanza della DC con i neofascisti. Tambroni, ormai assediato, fu costretto a dimettersi il 19 luglio. Venne aperta la strada verso l’alleanza con i socialisti. Due anni dopo si svolsero processi soltanto contro i dimostranti, molti dei quali subirono pesanti condanne dopo una lunga detenzione. Un certo Giuseppe Moglia, subì la condanna di appena un mese, ma si era fatto nell’attesa del processo due anni di carcere.
Tra i due episodi la differenza consta che nel 2001 la magistratura è intervenuta contro i gravi soprusi delle forze dell’ordine e anche il capo della polizia Franco Gabrielli, ha duramente stigmatizzato quei soprusi. Nel 1960 e sino a pochi anni fa, queste prese di posizione sarebbero state impensabili.
Sabato, 3 luglio 2021 – n°23/2021
In copertina: Gli scontri a Genova del 2001 – Immagine Ares Ferrari