lunedì, Novembre 25, 2024

Italia

Il ritorno in ‘patria’ degli Italiani tunisini

Intervista a Marcello Bivona, ultima generazione degli Italiani di Tunisia

di Laura Sestini

Con l’uscita del docufilm a regia di Marcello Bivona e la produzione di Alfonso Campisi – di cui il 4 novembre è stata proiettata la prima mondiale all’Università di Catania https://www.theblackcoffee.eu/siciliens-dafrique-tunisie-terre-promise-in-anteprima-mondiale-alluniversita-di-catania/ – torniamo sui passi dei migranti italiani verso la Tunisia, quegli ingenti flussi migratori del 1800 e 1900 – di cui le persone provenienti dalla Sicilia furono la gran parte.

Ne abbiamo già trattato in precedenza per il viaggio di andata, qui ne ripercorriamo la traiettoria in senso inverso, ovvero quando, al verificarsi dell’indipendenza del Paese maghrebino dalla Francia colonizzatrice, molte famiglie, per scelta o indotte, tornarono in Italia, anche se la maggioranza di queste la conoscevano solo attraverso i racconti dei nonni e dei parenti più anziani.

Riprendiamo il filo dal docufilm, il cui sottotitolo è ‘Tunisia, terra promessa”. Si rivelò effettivamente una scelta fortunata per i Siciliani che nei secoli scorsi vi emigrarono in cerca di fortuna?

Marcello Bivona -“Io penso proprio di sì. L’emigrazione vera e propria – quella di cui parliamo noi – è quella di fine 1800. Nel 1881 la Tunisia diventa un protettorato francese. La Francia da quel momento trasforma la Tunisia in un cantiere, costruendo ogni sorta di strutture, ponti, strade, scuole, edifici pubblici. Si inizia a costruire la Tunisia coloniale, cioè tutta quella esterna alle mura della Medina – oggi considerata la città vecchia. Niente di meglio per il proletariato, principalmente siciliano ma anche di tutto il sud-Italia, che lanciarsi in massa verso la Tunisia, a differenza dei coloni francesi che al contrario partirono in pochissimi, indice che fa capire subito come già in Francia si vivesse meglio che in Italia. Quindi masse ingenti di proletariato si riversò sulle coste tunisine. Ma chi erano queste persone? Erano i più poveri tra i poveri, ovvero coloro che non avevano i soldi neanche per acquistare il biglietto per emigrare nelle Americhe. La Tunisia dista solo una notte di viaggio dalla Sicilia, c’è lo stesso clima, la mentalità è simile da non sentirsi neanche tanto stranieri, tanto lontani, da dove si può tornare facilmente. Sicuramente una grande fortuna ma anche un grande dolore di cui parlerò più avanti”.

Il dialetto siciliano non è un idioma semplice, ma imparare la lingua araba sarà stato un ostacolo non da poco per i migranti siciliani. Come si ovviò al problema secondo lei, considerando che molti di loro saranno stati analfabeta anche per la lingua madre? Lo stesso problema, all’inverso, che hanno adesso molti migranti che arrivano in Italia dall’Africa.

M.B.: -“La questione linguistica è uno dei primi quesiti che ci siamo posti per il documentario. Innanzitutto la Tunisia dove si è sempre parlato anche italiano. Se lasciamo da parte i tempi dei Romani, la Tunisia e l’Italia hanno avuto contatto fin dal 1700. La prima ondata migratoria dall’Italia è datata ai primi anni del 1800. Carbonari e tutti coloro che avevano avuto parte attiva nelle guerre di Indipendenza italiane che fuggono perché ricercati dalle istituzioni. Il primo nucleo di migranti è formato da intellettuali che iniziano ad aprire scuole ed aprono giornali. Noi in specifico invece trattiamo della seconda ondata, quella del proletariato di fine 1800. Con gli Arabi c’era già un rapporto, acquisito un modo di capirsi, che poi si è approfondito con il sabir, la lingua franca del Mediterraneo – che includeva vocaboli italiani, francesi, arabi, spagnoli, francesi – inventata già nel XVI secolo unendo i popoli, i marinai, i mercanti. La lingua quindi è stata uno dei problemi minori che hanno dovuto affrontare i migranti nell’incontro con i Tunisini. Anche oggi nell’arabo tunisino ci sono tantissimi apporti siciliani ed altrettanto di arabo nella lingua siciliana. I poveri tra loro si capiscono sempre, a prescindere dalla lingua. Nel 1700 alla Corte del Bey (signore, governatore) gli atti ufficiali erano scritti in italiano; i medici personali del Bey erano italiani. Per la verità la lingua è stata uno strumento straordinario dal punto di vista dei contatti. Il Siciliano che parlavamo noi in famiglia non era il Siciliano che parlavano contemporaneamente gli abitanti della Sicilia. Quello nostro era il siciliano fermo alla fine del 1800, dei nostri nonni o bisnonni, che anche provenivano da più zone della Sicilia. Il sabir era una lingua estremamente fantasiosa, arricchita di tanti termini di lingue diverse”.

Siciliani in Tunisia: una minoranza etnica su cui gravava razzismo e sfruttamento lavorativo da parte degli autoctoni, ed anche dei Francesi?

M.B.: -“Più che altro da parte dei Francesi. Anche se la Francia era ascritta come protettorato, in realtà si comportava da colonizzatore ed era padrona. Lo sfruttamento era nei riguardi dei sottoposti, i quali non erano soltanto gli autoctoni, ma anche noi Italiani. Per noi i rapporti erano più facili con i Tunisini che con i Francesi. Noi fungevamo da cuscinetto tra gli autoctoni schiavizzati ed i Francesi che erano ‘benestanti’ e lavoravano nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni. Noi Italiani eravamo artigiani e agricoltori, specialmente i Siciliani”.

Quanti Siciliani, in percentuale, sono tornati in terra natia dopo la vita lavorativa e quanti invece si sono stabiliti definitivamente nella patria di adozione?

M.B.: -“Pochissimi dei Siciliani emigrati sono poi tornati in madrepatria. Non solo non sono tornati indietro, ma sono diventati endemici del territorio; dopo due, tre generazioni Tunisini a tutti gli effetti. Noi ci sentivamo Italiani come tradizioni, ma la Tunisia era diventato il nostro Paese. A riprova di questo, quando siamo tornati in Italia – alla fine degli anni ’50 – per noi è stata una nuova emigrazione, non un ritorno. Mia madre ha pianto tutta la vita per aver dovuto lasciare la Tunisia, anche mio padre e così tantissime altre persone. E’ stato un distacco lacerante, straziante. Per noi è stata una nuova emigrazione, tornati in Italia da profughi, in una Patria che nessuno conosceva se non idealisticamente. A partire da dove, da quale punto eravamo Italiani? Pochi Siciliani sono tornati indietro, anche perché allora l’emigrazione non era pensata per rimanere 10 anni per raccogliere denaro e poi tornare al proprio paese, ma era vista ‘per sempre’. Si partiva definitivamente. Si partiva per la disperazione di un Sud alla fame e quel posto si abbandonava. Una volta arrivati in Tunisia e messe le basi per avere una vita migliore, si chiamavano lì i parenti e gli amici, che arrivavano in massa. Mia nonna mi raccontava che fino agli anni ’30 arrivavano dalla Sicilia i barconi con i clandestini, come ora succede in senso opposto; uomini con i capelli legati a coda, l’orecchino e gli scialli sulle spalle che, come succede oggi con i migranti, venivano accolti da varie associazioni umanitarie che provvedevano a fargli avere il visto di ingresso e quello di cui avevano bisogno. C’era un medico italiano famoso, grande benefattore – il Dottor Calò, di origini livornesi. Nel film precedente intervistai la figlia Clotilde, ormai scomparsa. In Tunisia c’era anche una comunità di Sardi, ma a differenza dei Siciliani, questi preferivano migrazioni temporanee. Dalla Sardegna non arrivavano le famiglie, ma singoli, che in genere lavoravano nelle miniere al Sud della Tunisia, rimanendo solo qualche anno. Al contrario di mio nonno che è rimasto – anche se morto prematuramente – seppur richiamato in Italia per la Prima Guerra Mondiale”.

La nostalgia di casa era un sentimento comune, oppure le similitudini geografiche delle due sponde del Mediterraneo addolcivano la lontananza?

M.B.: -“Sicuramente la similarità delle due regioni potevano addolcire, ma per quanto riguarda la nostalgia possiamo parlare solo della prima generazione, che naturalmente io non ho vissuto essendo nato molte decadi dopo; sinceramente devo ammettere che in casa mia non ho mai sentito parlare di nostalgia verso l’Italia. C’era sì un legame, perché noi ci sentivamo italiani, ma Italiani di Tunisia. Forse è difficile comprendere questo sentimento: ci sentivamo italiani, ma di cultura francese, lingua che parlavamo correttamente, e di nascita tunisina; quindi un’identità culturale specifica – autoctona – nata nelle basi di tre culture differenti, a cui si aggiunge anche quella siciliana. Quello era il nostro Paese, quindi nessuna nostalgia per l’Italia. La nostalgia al contrario l’abbiamo sentita quando abbiamo dovuto lasciare la Tunisia, il nostro Paese. Tutta la mia vita è stata attraversata dalla nostalgia che mia madre aveva della Tunisia, un sentimento fortissimo che mi ha portato poi a scrivere, ad approfondire e divulgare queste conoscenze. I primi a partire della mia famiglia sono stati i bisnonni nel 1880, con in braccio mia nonna in fasce di quattro mesi. Quando è nata mia mamma, nel 1915, mia nonna era già perfettamente inserita nella società tunisina. Ancora oggi le terze e quarte generazioni sentono questa nostalgia, che io immaginavo spenta nel tempo. Invece ci sono una miriade di associazioni che possiamo trovare sui social di Italiani di Tunisia. Non sono un assiduo dei social, ma mia sorella attraverso questi ha allacciato centinaia di contatti di Italiani di Tunisia in Canada, Francia, Australia, Italia ed anche con quelli di fede ebraica tornati in Palestina. Tutte queste persone si scambiano ricordi ed aneddoti tramandati da genitori e nonni, che a loro volta raccontano a figli e nipoti. Io ho scoperto tutto questo solo dopo aver scritto ‘Ultima generazione’, perché subissato di messaggi e telefonate. Al contrario, fino ad allora, avevo creduto che questo amore e trasporto verso la Tunisia fosse un sentimento solo di mia madre. Sono passati 50-60 anni da quando siamo tornati dalla Tunisia, eppure tutti i sentimenti sono ancora vivissimi, ed i nipoti che non sanno niente della Tunisia”.

Sullo sfondo un’area più moderna di Tunisi capitale
Foto courtesy Marcello Bivona (tutti i diritti riservati)

Le generazioni successive dei migranti siciliani in Tunisia quanto si riconoscono nella terra di origine dei genitori? E quanti di questi conoscono la lingua siciliana?

M.B.: -“La nostra maniera di riconoscerci nella patria di origine – l’Italia – è tutta filtrata dalla nostra nuova cultura e identità assunta in quel nuovo Paese; figura multietnica e multiculturale che era veramente straordinaria. Quando la mia famiglia è arrivata in Italia, nell’hinterland milanese, dove avevamo dei parenti che ci hanno accolto, e ci avevano promesso ‘un raggio di sole’. In effetti così è stato, in mezzo alla nebbia si poteva ritrovare solo un raggio di sole. L’impatto con questa realtà milanese – non climaticamente – fu una grande delusione, perché pur sentendoci italiani, venivamo da un paese dove mia mamma, presa ad esempio di tutte le mamme italiane di Tunisi, parlava francese, arabo, italiano e siciliano; cucinava piatti francesi, arabi, ebraici, italiani, siciliani. Avevamo grande apertura mentale perché ci eravamo sempre rapportati con cristiani, ebrei, musulmani ed altri. Quando siamo arrivati a vicino a Milano, paese di 4 mila abitanti, gli abitanti mangiavano ‘riso giallo’ e prosciutto cotto ed i selvaggi eravamo noi. Parlavano solo in dialetto milanese, neanche in Italiano. Abbiamo passato anni così. Ma come potevamo far capire la ricchezza delle nostre esperienze e di ciò che conoscevamo? Dovevamo rapportarci in una situazione dove neanche eravamo ‘terroni’, bensì peggio perché venivamo dall’Africa. Io ero piccolo, ma tutte queste esperienze le ho vissute di riflesso a mia madre che ce le ha trasmesse in maniera forte, che vanno avanti ancora adesso, dopo la sua morte. Chi poteva capire che noi avevamo ‘una marcia in più’, espressione che usava sempre un amico tunisino che ormai non c’è più? A scuola ricordo i miei compagni che chiedevano se abitavamo nelle capanne in Africa. Oppure nella foresta. Pochi conoscevano la Tunisia 60 anni fa. Come far capire che parlavamo tre lingue e Tunisi era allora una piccola Parigi, piena di locali e sale da ballo dove passavano le più grandi star internazionali? I fratelli più grandi di me che hanno lasciato Tunisi a 18-20 anni hanno davvero vissuto una grande lacerazione. Anche mio padre, che a Tunisi ha fatto la aveva una vita decorosa come tassista, arrivato in Italia a 50 anni si è dovuto reinventare lavorando alla Montecatini Edison come manovale, indirizzato dal prete e tutti i retaggi democristiani, che vendevano le tessere ai meridionali e li smistavano poi nelle varie aziende, per ‘comprare’ voti. Si alzava alle cinque del mattino per prendere 3 mezzi e giungere alla Bovisa a fare il manovale. Ha vissuto l’ultima parte della sua vita a disagio. La vita lo ha vinto, con figli piccoli e tutte le preoccupazioni di darci un futuro; mentre lui aveva perso il suo di futuro, aveva perso la sua vita in mezzo alla nebbia di una città che non gli apparteneva – abituato al mare, al sole, gli aperitivi con gli amici di tutte le razze a La Goulette. I suoi ultimi 15 anni a Milano sono stati vissuti così – da migrante. Queste sono le storie che noi tentiamo di far sapere attraverso le nostre modeste opere, vicende molto comuni alla nostra comunità di Italiani-tunisini ed a tutti i migranti. Pensiamo ai nuovi migranti che accogliamo in Italia: quante storie ci saranno come questa, ed anche peggiori. Come possiamo comprenderle, invece di ridurle a poche frasi fatte “Ah, no! Gli immigrati non li vogliamo!” Ricordo mio padre che, mentalità siciliana, raccontava di quando al lavoro offriva una sigaretta a qualcuno dei suoi colleghi e questi gli rispondevano: “Grazie, a rendere”. Lui si stupiva molto di queste situazioni: se voglio offrire una sigaretta, mica è perché la rivoglio indietro. Lo stesso poteva succedere al bar con il caffè o per altre piccole condivisioni – che lui credeva piacevoli – con i colleghi di lavoro”.

Cosa significa per lei la definizione di ‘migrante’? L’accezione comune, da sempre, non corrisponde propriamente ad un concetto positivo. Su quali presupposti?

M.B.: – “In genere il migrante è colui che abbandona il suo Paese per cercare un lavoro o una condizione migliore di vita. Premettendo che le migrazioni esistono da sempre, ma nell’arco dei secoli sono cambiate le condizioni. Oggi l’impatto dei flussi migratori è di dimensioni e numeri globali. Indietro nei secoli i numeri erano più contenuti oltre a meno possibilità di viaggiare. Ai tempi dei miei nonni c’erano condizioni che imponevano tali scelte di sopravvivenza. I migranti non sono mai visti tanto bene per sentimenti di razzismo o di ingerenza nelle comunità di arrivo, le rivalità che possiamo già vedere tra gli abitanti di comuni contigui del milanese, per campanilismo. Gli scontri tra religioni e culture diverse. Adesso è in atto una nuova epoca delle migrazioni che riguarda condizioni globali di 800 milioni di persone – gli Occidentali – a spese di 7 miliardi di altre persone nel mondo. Si vendono armi e bombe ai paesi in guerra, da dove le persone ovviamente tentano di fuggire, ma noi poi sbarriamo le nostre porte e non le facciamo entrare a salvarsi in casa nostra. Anche aiutarli a ‘casa loro’ non può funzionare, visto che siamo noi a intrecciare ‘guai’ in quei paesi. Secondo me il genere umano – per il suo modo di vivere – è destinato all’estinzione, non essendo in armonia con la natura, a differenza degli animali; l’uomo crea scompiglio nella natura. Gli animali vivono per istinto, gli uomini devono essere accompagnati ed educati fino a 30 anni per mancanza di questa virtù, ed hanno bisogno delle regole, della polizia, dello Stato. Oggi emigrare significa scappare da tante situazioni messe insieme: guerre, povertà, clima, persecuzioni politiche. Il colonialismo, che definiamo finito, in realtà si è trasformato in qualcosa di diverso, senza necessità di essere presenti nel luogo colonizzato. E’ un colonialismo economico che con l’appoggio dell’informatica ha cambiato tutto, anche le guerre. Il colonialismo vero è adesso. Sui immigrati si viaggia sui luoghi comuni, sulle frasi fatte – che tanto piacciono agli elettori di destra italiani. La sinistra è in difficoltà perché cerca di comprendere un po’ meglio questi fenomeni, che a dire il vero creano solo divisioni di correnti interne. Alla destra basta dire ‘Prima gli Italiani’ e tutti gli vanno dietro. Durante la campagna elettorale per le comunali qui da noi ha fatto un comizio Salvini seguìto da tanta gente, soprattutto migranti arrivati qui dal Sud Italia negli anni ’60. In questo Paese non c’è memoria, senza questa non c’è neanche identità, non rimane niente. Le piccole cose che noi Italiani-tunisini facciamo per non perdere memoria dei nostri genitori e nonni potrebbero essere sostituite con le situazioni che vediamo adesso di altri migranti africani o mediorientali, e le cose non sono così semplici da ridurle solo a slogan. Ovvero sarebbero semplici ma vogliamo farle diventare complicate. I bambini fino ad una certa età non fanno differenza tra un loro con-simile bianco, nero, cinese; non sono razzisti. Altri sentimenti vengono acquisiti alle età scolare, dall’instradamento della scuola e culturale. E’ un’utopia, ma dovremmo tornare alla purezza dei bambini e ricominciare daccapo”.

Sull’argomento:

https://www.theblackcoffee.eu/quando-i-poveri-eravamo-noi/

https://www.theblackcoffee.eu/alfonso-campisi-e-la-lingua-siciliana-un-ponte-culturale-dalla-sponda-sud-del-mediterraneo/

Sabato, 6 novembre 2021 – n° 41/2021

In copertina: Porte de France nella capitale Tunisi – a destra una delle entrate della Medina – Foto courtesy Marcello Bivona (tutti i diritti riservati)

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