Il Narciso della politica continua a far parlare di sé
di Ettore Vittorini
“Renzi è il peggior nemico di sé stesso, vuol far anche la vittima non riuscendoci”. La frase è di Antonio Padellaro, giornalista ed editorialista del Fatto Quotidiano, pronunciata nel corso di un dibattito televisivo. Che sia vero o no, è una realtà che in questi giorni l’ex segretario del PD, poi Presidente del Consiglio e ora leader di Italia Viva, è indagato dalla procura di Firenze per “finanziamento illecito ai partiti” nell’ambito dell’inchiesta su Open, la Fondazione che lo sosteneva da alcuni anni. La vicenda ha richiamato le attenzioni su di lui è chissà quando e come avrà termine.
A noi interessa il personaggio che per anni ha condizionato la politica italiana e che oggi gli Italiani vogliono dimenticare; ma i media lo attaccano ancora e all’interno del suo partito – che secondo i sondaggi conta sul 2-3 per cento di sostenitori – alcuni parlamentari intendono cambiare bandiera. A questo aggiungiamo le sue amicizie con l’Arabia Saudita; le strette di mano all’erede al trono Bin Salman – sospettato di essere il mandante dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi; le conferenze pagate da quel governo; la famosa frase sul “Rinascimento saudita”. E’ una condotta non confacente con la sua carica di Senatore della Repubblica italiana, di ex presidente del Consiglio e ex segretario del PD, un partito progressista. Si può dire che ha contribuito al declassamento della politica e all’allontanamento da questa di tanti cittadini. Se lui in un certo periodo ha raggiunto l’acme del successo, lo deve anche alla crisi della sinistra italiana.
“D’Alema di’ una cosa di sinistra”, è la frase ormai storica che Nanni Moretti pronunciò nel suo film “Aprile”, del 1998, rivolgendosi al il primo ministro di allora. Altre parole polemiche le disse quando fu invitato sul palco del PD durante un comizio in Piazza Navona. Durante un lungo intervento disse tra l’altro: “Con questi dirigenti non si va da nessuna parte”. Già allora quelle critiche esprimevano un malessere più generale.
Anche Matteo Renzi qualche tempo dopo assunse posizioni apertamente polemiche verso lo stesso partito per il quale occupava la carica di Presidente della Provincia di Firenze. Ma contrariamente al regista, mirava ad entrare nella battaglia politica. Eletto sindaco della città, il 26 ottobre del 2013 fece un duro discorso alla Leopolda seguito da altri contro i dirigenti del Pd, dichiarando che “dovevano essere tutti rottamati”. Quel suo intervento condito con termini durissimi verso la vecchia guardia del partito – Bersani compreso – è rimasto nella memoria come il ‘discorso della rottamazione’.
Alle elezioni politiche del mese precedente, il PD era uscito come il primo partito, ma non aveva raggiunto la maggioranza in Senato: molti suoi possibili elettori avevano scelto il Movimento 5Stelle che aveva sorpreso per l’elevato numero di voti.
La rottamazione renziana ebbe un largo seguito all’interno del PD e anche tra i vecchi comunisti che chiedevano un partito battagliero o altri che erano rimasti affascinati dall’irruenza verbale del nuovo leader. Furono pochi gli scettici che vedevano nel neosindaco fiorentino un furbo scalatore di cariche. L’incantamento per il nuovo capo del PD era paragonabile a quello – verificatosi a destra dello schieramento politico italiano – dei tanti ammiratori dell’altro Matteo, il Salvini del Papeete. Soltanto che in questo caso il leader leghista provocò l’indignazione della società civile, la stessa che invece aveva acclamato il Renzi della rottamazione. Gli interventi dei due Mattei concordavano nella delegittimazione dell’avversario.
Alle primarie del dicembre del 2013 fu eletto segretario del PD, portandosi dietro nella direzione tanti giovani sostenitori e amici. Quel gruppo fu chiamato il ‘Giglio magico’. Nell’ottobre dell’anno dopo si “autonominò” Presidente del Consiglio dopo aver fatto cadere il governo di Enrico Letta. Qualche giorno prima aveva rassicurato l’appoggio al premier con la frase: ”Enrico stai sereno”. Invece il capo del governo fu praticamente cacciato col consenso della direzione del partito e fu tale il suo disappunto che al passaggio delle consegne trasferì il simbolico campanello al successore e andò via senza stringergli la mano.
Renzi – 38 anni, il più giovane presidente del Consiglio della Storia d’Italia – cominciava così a governare tra il malumore e i dissensi della minoranza dei vertici del partito. Evitò ogni dialogo e fu ben lieto quando i rottamati se ne andarono per creare il gruppo Leu, più a sinistra. Letta invece emigrò a Parigi per dirigere con successo l’Istituto di Studi politici.
E’ sempre stata una caratteristica del nuovo leader evitare il dialogo con coloro che si opponevano alle sue decisioni e azioni politiche. Per esempio, contrariamente a quello che avrebbe dovuto essere il comportamento di figura primaria del centro-sinistra, evitava o riduceva al minimo gli incontri con i sindacati. Dava loro appuntamenti alle otto del mattino e mezz’ora dopo si allontanava “per impegni più importanti.”
Era sicurissimo del suo ascendente sull’opinione pubblica e gliene dettero conferma i risultati delle elezioni europee del 2014 dove il PD guadagnò il 40% di voti, il massimo mai raggiunto dal partito. Voti ottenuti in parte dal suo carisma ma anche – e forse maggiormente – per aver elargito durante la campagna elettorale un bonus mensile di 80 Euro agli italiani col reddito inferiore ai 24mila annui. “Con quel denaro in più potrete andare in pizzeria con tutta la famiglia”, proclamò. Quella elargizione sarebbe costata allo Stato 10 miliardi di Euro, una somma forse più utile per ridurre il tasso della disoccupazione.
Forte del successo elettorale, nel 2015 mise le mani nello Statuto dei lavoratori col Jobs act che eliminava l’Articolo 18 sui licenziamenti. A nulla valsero le proteste dei sindacati – in realtà poco efficaci – con in testa Susanna Camusso, segretaria della CGIL. Renzi le ignorò e attuò quello che non era riuscito a fare Berlusconi 12 anni prima.
Sempre seguendo la scia dei “successi”, fece approvare dal Parlamento nel 2016 la legge costituzionale chiamata “Renzi-Boschi” sul ridimensionamento del Senato.
Consisteva nel ridurre il numero dei senatori a 100, dei quali 5 erano scelti dal Presidente della Repubblica e 95 venivano eletti tra i consiglieri regionali e comunali. Un grande pasticcio che praticamente esautorava quell’istituzione parlamentare. E non contento sulla legge – che era stata già approvata – per trasformare quest’ultima vittoria in un trionfo, indisse un referendum. E qui prese una batosta: il 60% degli italiani votò NO segnando così l’inizio del declino del giovane arrampicatore politico.
E così Matteo, da moderno Masaniello è stato scalzato dal potere senza spargimento di sangue – com’era invece accaduto col rivoluzionario napoletano – ma tramite una consultazione democratica. Non si è arreso: ha continuato a insinuarsi nella politica facendo cadere anche il secondo governo Conte, che lui stesso aveva contribuito a far nascere. In questi giorni il suo partito ha votato per due volte contro il governo Draghi pur facendone parte. Oggi trama per l’imminente elezione del Presidente della Repubblica e corteggia i partiti di destra. Che altro combinerà ancora? Lo sapremo dai risultati dei suoi interventi al meeting della Leopolda di questo fine settimana.
Sabato, 20 novembre 2021 – n°43/2021
In copertina: Immagine da Future Investment Initiative Institute di Public Investment Fund, il principale fondo sovrano dell’Arabia Saudita