I tanti volti del genocidio, dai russi ai nazisti
di Ettore Vittorini
Per enumerare gli eccidi commessi dall’uomo sui suoi simili a partire dalla storia della civiltà, non basterebbero le cifre a due zeri per elencarli tutti. Se ci fermiamo al Secolo ventesimo potremmo incominciare dalla strage degli Armeni commessa dai Turchi durante la prima guerra mondiale. Furono eliminate un milione e mezzo di persone, uomini donne e bambini, gran parte incolonnati verso i deserti dell’impero Ottomano senza cibo e senza acqua. Un dramma spesso dimenticato e mai riconosciuto dai successivi governi turchi. Ma a quei tempi non si parlava ancora di genocidio.
La parola genocidio, oggi molto usata a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, è un neologismo coniato da Raphael Lemikin (1900-1959) un avvocato e giurista ebreo. Era nato in Polonia e riuscì a lasciare il Paese dopo l’invasione nazista per raggiungere attraverso tante peripezie gli Stati Uniti.
Nella nuova patria descrisse in una serie di conferenze la persecuzione degli Ebrei da parte dei tedeschi, la creazione dei ghetti, dei campi di concentramento e la soluzione finale. Ma all’inizio gli fu dato poco ascolto sino a quando, a guerra inoltrata, non scrisse un saggio sul ruolo dell’Asse nazifascista nell’Europa occupata. Usò per la prima volta la parola genocidio – dal greco genos e latino occisio – che riassumeva le stragi e i massacri della popolazione civile compiuti dai militari e decisi dai dittatori.
Quel termine entrò ufficialmente nella Storia durante il processo di Norimberga che iniziò nel dicembre del 1945 per concludersi nell’ottobre del ‘46 con la condanna a morte per genocidio dei principali gerarchi nazisti. Era la prima volta che un tribunale internazionale – costituito da giudici americani, inglesi e russi – si riuniva per giudicare i crimini di guerra.
Durante i lavori alcuni testimoni tedeschi – documenti alla mano – parlarono della strage di Katyn, una località russa nei pressi di Smolensk, dove le truppe naziste scoprirono nel ’43 delle fosse comuni che contenevano migliaia di corpi di militari e civili polacchi trucidati dai sovietici quando invasero la Polonia da Est, in base all’accordo firmato a Mosca – pochi giorni prima dello scoppio del conflitto mondiale – da Ribbentrop e Molotov, ministri degli Esteri dei rispettivi Paesi.
Furono trovati 22.500 cadaveri di ufficiali polacchi e di civili appartenenti alla classe dirigente della nazione invasa: politici, docenti universitari, esponenti dello Stato, con i loro familiari. La notizia di quell’eccidio pose in grande imbarazzo il tribunale internazionale di Norimberga i cui giudici occidentali preferirono sorvolare per togliere dall’impaccio i colleghi sovietici. Tanto più che da Mosca arrivò un comunicato secondo il quale quel massacro si sarebbe verificato a Chatyn un paese della Bielorussia, vicino a Minsk, dove erano stati trucidati dai tedeschi molti prigionieri sovietici. E quindi secondo la propaganda russa i tedeschi avevano mentito sulla località e gli autori del massacro.
In realtà si trattava di un episodio diverso col quale i sovietici tentarono di nascondere il genocidio di polacchi di cui si è poco parlato nel corso degli anni. La verità ufficiale giunse con la perestrojka di Gorbaciov quando l’URSS allora ammise le responsabilità sovietiche sulle fosse di Katyn: l’ordine di quel misfatto era stato dato da il ministro degli Interni fedele esecutore delle volontà di Stalin. A quei tempi il dittatore aveva deciso di eliminare tutti gli appartenenti alle classi dirigenti dei territori occupati.
Oltre alla metà della Polonia, l’URSS si era presa anche le tre Repubbliche baltiche – Estonia, Lettonia, Lituania – da dove migliaia di presunti oppositori del regime sovietico vennero trasferiti in Siberia con tutte le famiglie. Ne tornarono in pochi.
Nel 1992 il governo polacco chiese a Mosca la documentazione su Katyn ma non la ottenne perché Gorbaciov si era dimesso, la bandiera rossa ammainata per sempre e la perestrojka cancellata. Ma dopo anni di proteste e di appelli dei polacchi, i russi cedettero e nell’aprile del 2010 il presidente polacco Lech Kaczyński con altre autorità e l’intero stato maggiore militare e altre personalità, furono invitati a Mosca per ricevere i documenti e commemorare quell’avvenimento. Non vi arrivarono perché l’aereo precipitò e morirono tutti. L’inchiesta stabilì che si era trattato di un incidente, ma le voci su un attentato preparato dai russi non vennero zittite. Il caso volle che Putin fosse già allora presidente della Russia. I polacchi non hanno mai dimenticato Katyn e la ferocia delle truppe sovietiche.
Anche la popolazione ucraina conosce bene la crudeltà dei russi per quanto accade oggi e accadde nel periodo stalinista quando tra il 1929 e il 1932 Stalin dette l’ordine di trasformare la società dell’intera Repubblica autonoma appartenente allo Stato sovietico.
Sino ad allora in Ucraina dominava l’antica tradizione delle fattorie possedute da piccoli proprietari – i kulaki – che costituivano una importante componente del tessuto sociale ed economico. Il governo di Mosca per attuare la collettivizzazione delle campagne – a quei tempi molto floride – varò una serie di misure coercitive divise in due fasi: la prima venne effettuata attraverso l’eliminazione della proprietà privata della terra obbligando tutti gli agricoltori a lavorare nei Kolkoz – le fattorie statali collettive – e costretti a ricavare i raccolti in quantità stabilite da Mosca. Se non vi riuscivano, i “responsabili” venivano uccisi sul posto o deportati in Siberia.
La seconda fase fu quella dell’eliminazione dei Kulaki e di tutti i piccoli proprietari terrieri: molti furono uccisi e alcuni milioni vennero “trasferiti” nelle regioni asiatiche.
La rivoluzione collettivistica di Stalin fallì; la popolazione dell’Ucraina diminuì; le campagne produssero molto meno provocando una terribile carestia che uccise milioni di persone. Gli ucraini ricordano quel periodo col nome di Holodomor, Morte per fame. Fu un vero genocidio voluto dalla “Rivoluzione di Stalin” che provocò – secondo fonti ufficiali – tre milioni di vittime mentre molti storici indicano numeri che arrivano a sei milioni.
Quando il dittatore dette l’ordine di collettivizzare l’agricoltura dell’Ucraina dichiarò: “Per eliminare i kulaki come classe non basta la politica di limitazione e di eliminazione di singoli gruppi. È necessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti economiche della sua esistenza e del suo sviluppo”. Oggi la Storia si ripete con le bombe di Putin?
Sabato, 9 aprile 2022 – n° 15/2022
In copertina: morti per fame per le strade di Carcovia – Foto: Alexander Wienerberger 1933 – Pubblico dominio