L’ex presidente e premier russo ha abbandonato la moderazione
di Ettore Vittorini
Al punto in cui è arrivata la guerra in Ucraina, la parola “pace” ormai appartiene a un miraggio irraggiungibile. Il conflitto è precipitato nell’abisso dell’odio e del terrore, il popolo del Paese invaso non intende arrendersi e i russi si sono incarogniti sempre di più, mentre Unione Europea e Stati Uniti continuano a mandare armi.
Per arrivare a una seria trattativa bisogna essere in due: ma come si può fare se la Russia non sembra disposta a collaborare o almeno a mandare dei segnali di pace? I segnali arrivano ma sono di guerra, come il bombardamento terroristico di Kiev per “salutare” il G7 di Garmisch-Partenkirchen e il precedente dopo la visita del 26 aprile a Mosca del segretario generale dell’ONU Antònio Guterres.
È da sottolineare che le guerre “cavalleresche” non sono mai esistite nella realtà: non dimentichiamo quella del Vietnam di più di 50 anni fa con i quotidiani bombardamenti a tappeto americani su Hanoi col napalm, con le bombe chimiche lanciate su tutto il territorio del Nord per disboscarle e scoprire i nascondigli dei Vietcong, senza tener conto dell’esistenza di villaggi pacifici. E proprio in uno di questi villaggi, nel 1968, una compagnia della fanteria USA comandata dal tenente William Calley, compì un massacro: furono uccisi 120 civili, donne vecchi e bambini e l’azione venne interrotta quando il pilota di un elicottero americano in perlustrazione si accorse di quanto stava accadendo. Atterrò e l’equipaggio riuscì a fermare le atrocità dei commilitoni.
L’episodio rimase sconosciuto sino all’anno dopo quando il soldato di un altro reparto lo rivelò con una lettera a un deputato. La notizia comparve sulla Associated press e poi sui maggiori giornali. Calley fu processato per omicidio premeditato e condannato a una pena severa, ma il presidente Nixon lo graziò. Scontò soltanto tre anni agli “arresti domiciliari”.
È la verità a creare la differenza, tra la guerra condotta da una nazione democratica e quella voluta da una retta dalla dittatura. Inoltre Nixon fu costretto a trattare con Hanoi spinto dalle grandi proteste dell’opinione pubblica americana e dalla stampa che ne faceva eco. Vi immaginereste cosa accadrebbe oggi in Russia se un soldato impegnato in Ucraina, mandasse una lettera a un parlamentare della Duma e i media locali divulgassero la notizia? La risposta è che non potrebbe mai accadere. La libertà di stampa è soffocata e chi osa protestare contro la “guerra” viene condannato a 15 anni di carcere.
Il caso di Julian Assange – cofondatore di WikiLeaks – rivela però che nella democratica America vi è un ritorno a una forma di neo-maccartismo. Il giornalista verrà estradato dalla Gran Bretagna negli USA con l’accusa di spionaggio. In realtà Assange ha rivelato tantissimi segreti del Pentagono e della diplomazia di Washington sulle guerre in Iraq, nello Yemen e in altri Paesi. Gli inglesi all’inizio lo avevano arrestato per una accusa di stupro proveniente dalla Svezia – poi ritirata – in seguito per la richiesta di estradizione proveniente dagli Stati Uniti dove lo vogliono processare. Lo attende una condanna all’ergastolo. Pertanto anche nell’Occidente democratico certe libertà che danno fastidio al potere vengono soffocate, ma in maniera più ipocrita.
Da Mosca un segnale di “pace” lo ha dato il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov il quale ha dichiarato che se gli Ucraini si arrendessero, la guerra finirebbe lo stesso giorno. Che ne sarebbe poi dell’Ucraina?
Anche la diplomazia è diventata un miraggio tra i cortigiani di Putin: oltre alle uscite di Lavrov, ci si è messo anche Dimitrij Medvedev, un tempo considerato molto moderato e aperto verso l’Occidente.
Presidente della Federazione Russa dal 2008 al 2012 – si era scambiato il turno con Putin perché la Costituzione di allora non permetteva più di due mandati – per diventare Primo ministro nel ’13, quando il “capo” era rientrato alla guida della nazione dopo la parentesi da premier.
Durante la presidenza, Medvedev si era aperto all’Occidente: a Washington ebbe un incontro molto amichevole col capo della Casa Bianca Barak Obama e firmò il Trattato sulla riduzione delle armi nucleari. Inoltre stabilì che la Russia non avrebbe cercato confronti con altre nazioni e accettò la concezione della multipolarità del mondo. Quando Obama lo rassicurò che la NATO non avrebbe installato missili nella Repubblica Ceca e in Polonia, lui li fece togliere dalla regione di San Pietroburgo che confina con la Finlandia. Erano altri tempi.
Oggi sembra aver rinnegato il passato e i suoi interventi pubblici sono carichi di minacce e di stereotipi. Quando Mario Draghi si è recato a Kiev col presidente francese Emmanuel Macron, ha dichiarato testualmente: “Italiani mangia spaghetti e francesi mangia rane”. Una espressione stupida e ridicola per un uomo di Stato. In Russia i leader politici sono scesi così in basso?
Eppure Medvedev non ha mai nascosto le sue simpatie per l’Italia e soprattutto per la Toscana dove avrebbe trascorso lunghi periodi nella tenuta dell’Aiola di 36 ettari, a pochi chilometri da Siena.
Secondo il dissidente russo Aleksej Navalny – che aveva indagato attentamente tra gli archivi del catasto nazionale – il patrimonio di Medvedev ammonterebbe a 1,2 miliardi di dollari e la fattoria in Toscana, con villa-castello, apparterrebbe a lui tramite un prestanome. Costui, Vladimir Dyachenko, nel 2012 ha acquistato l’Aiola dagli eredi di Giovanni Malagodi, ex leader del Partito liberale italiano. I vigneti producono tuttora migliaia di bottiglie di buon Chianti.
Di fronte alle rivelazioni rese pubbliche da Navalny, l’ex presidente russo rispose: “Sono fantasie degli oppositori”. Adesso il dissidente si trova in carcere duro, dopo aver subito un attentato al veleno.
La storia di Medvedev è quella di uno dei tanti oligarchi beneficiati dall’amico Putin e che oggi si sono adeguati al potere assoluto del loro protettore.
Sabato, 2 luglio 2022 – n° 27/2022
In copertina: Villa-castello di Aiola – Castelnuovo Berardenga (SI) – Foto: LigaDue – CC BY-SA 4.0