Il neoliberismo sfrenato della Gig economy
di Laura Sestini
Le migliaia di documenti confidenziali che è riuscito ad ottenere il famoso quotidiano britannico The Guardian – circa 124 mila – a proposito della piattaforma di sharing economy Uber, riguardanti il comparto della condivisione di viaggio – riportano nuovamente alla ribalta le distorsioni della gig economy – ovvero quel modello di lavoro a chiamata, precario ed occasionale, che nacque negli Stati Uniti a seguito della grande depressione economica del 2008, che in breve tempo si è trasformato in qualcosa di totalmente differente, ripercorrendo le peggiori politiche neoliberiste.
Attualmente, con la pubblicazione dei cosiddetti Uber Files, significativi nomi di politici europei – Macron e Scholz, giusto i più noti – sono tacciati di essere coinvolti in operazioni lobbistiche ed economiche con la piattaforma digitale globalizzata di servizio taxi (qui potremmo subito chiederci perché solo soggetti europei, considerando che Uber è anche in Canada, Usa, ed oltre), mentre, spostando il focus, la preoccupazione nel Vecchio Continente va dritta a puntare il dito sulla Russia e le attività dei suoi agenti di intelligence sparpagliati in Europa, che cercherebbero di destabilizzare lo scenario politico dell’Unione Europea.
Nei tempi che furono, dopo l’effetto domino del crollo dell’economia statunitense, a causa della bancarotta della Lehman Brothers Holdings nel 2008, la nascita effettiva della sharing economy salvò dalla povertà milioni di cittadini statunitensi che avevano perso il lavoro per la profonda crisi finanziaria che aveva investito il loro Paese, nonché diede possibilità a moltissimi di cambiare completamente vita, passando dal lavoro sottoposto nine-to-five ad una occupazione autonoma, ed in molti casi anche molto remunerativa.
La piattaforma Airbnb, di offerta di alloggi entro le case private, in alternativa ai tradizionali hotel, era appena nata a San Francisco proprio per la scarsità di camere alberghiere durante un grande convegno di design industriale nel 2007, situazione di disagio che diede spunto a due studenti di offrire alloggio a pagamento presso le loro abitazioni – su materassi ad aria – airbed – posizionati in salotto – ad altri loro omologhi provenienti da città che desideravano partecipare all’evento. Oggi i due ex studenti – Brian Chesky e Joe Gebbia – sono ai vertici della società che gestisce migliaia di alloggi in tutto il mondo, nata originariamente con il nome Airbedandbreakfast.
L’idea della sharing economy – da persona a persona – l’economia condivisa che desiderava uscire dai canoni della finanza neoliberista, era già nata molto prima del 2008, almeno nei presupposti di base, nell’ideologia di condivisione non gerarchica del lavoro; già alla fine degli anni ’60, infatti, a seguito delle battaglie politico-lavorative statunitensi, si discuteva tra i lavoratori su come poter riorganizzare il lavoro per renderlo meno alienante dai ritmi già serrati del boom economico, di cui i metalmeccanici di Detroit divennero simbolo di lotta, cercando di eludere, in un modo meno disumanizzante, il potere della finanza mondiale.
Da quando esiste il capitalismo, esistono collisioni di vedute e di obiettivi tra i lavoratori e le società che distribuiscono lavoro dipendente. Cosa mancava allora – nonostante la volontà – per forzare gli ambienti lavorativi ed avere almeno l’illusione di scardinare minimamente il mercato della forza lavoro capitalista? Ancora non era affinata la tecnologia digitale, la stessa che – al contrario – ha dato avvio dopo il 2008 alle innumerevoli piattaforme di condivisione dell’occupazione in linea orizzontale – profit e nonprofit – molte delle quali ancora in vita. TaskRabbit, Uber, Airbnb, BlaBlaCar, Lift, sono tutte piattaforme digitali sorte in quel periodo.
I presupposti principali, su cui molte piattaforme si mossero – in particolare le non profit – come la Timebank – banca del tempo – Couchsurfing, o il recupero di cibo non venduto, o in scadenza, da donare a chi ne avesse necessità, si basavano sulla condivisione dell’economia orizzontale, la socialità tra gli utenti ed una maggiore salvaguardia dell’ambiente per diminuzione delle emissioni di CO2, attraverso viaggi condivisi in auto, riciclo e riparazione dei materiali recuperabili, alimenti compresi.
La sharing economy – avvalendosi della rafforzata tecnologia digitale – per i più idealisti avrebbe cambiato il mondo. Ad oggi le piattaforme non profit sono quasi scomparse del tutto, con pochi casi ancora virtuosi, mentre tra le pro-profit, solo tre – Lift, Uber e Airbnb – sono diventate dei colossi milionari, il 27% sono morte ed il 18% acquistate da altri giganti della tecnologia, quali Google.
Tra le piattaforme pro-profit, Airbnb fu fin da subito oggetto di studio e di forti critiche per il serpeggiante razzismo che animava i propri utenti: gli afroamericani ed i Latinos, sia che offrissero spazi abitativi, sia che li volessero prendere in affitto, avevano almeno il 20% di possibilità in meno di riuscirci, rispetto a soggetti bianchi. D’altronde tutte le piattaforme erano nate da giovani bianchi, istruiti, figli della borghesia americana che, anche se pseudoprogressisti, riflettevano i valori a cui erano stati educati.
Tornando all’attualità, non deve sorprendere se Uber – che già ha avuto dei precedenti legali per aver forzato personaggi influenti per entrare nei mercati dei Paesi più avanzati – continua a mostrare la sua faccia neoliberista. Questa è la realtà. Attraverso gli idealismi dei late Sixties, solo un decennio dopo si e brutalmente infiltrato il neoliberismo degli anni ’80.
I fondatori delle piattaforme, una volta usciti dagli ambiti studenteschi, si sono lasciati alle spalle gli ideali di un mondo più egualitario e socialmente sostenibile, dando completa fiducia alla tecnologia digitale ed alla trasformazione del mondo del lavoro neoliberista.
Uber in particolar modo mantiene la forma della sharing economy a scapito degli autisti, facendo ricadere tutte le responsabilità sui lavoratori, costretti a operare come autonomi, senza assicurazione e ammortizzatori sociali.
Lo sfruttamento dei lavoratori – e se ne discuteva fin dalla nascita delle piattaforme – si è manifestato in più ambiti, non solo nel servizio taxi, ma anche con i riders per il servizio di food delivery, di tutte le differenti società.
Uber ha ovunque un approccio politico con grandi investitori come Google, JP Morgan, Goldman Sachs, Jeff Bezos, patron di Amazon, Toyota ed altri.
Non ci sono ancora certezze su quanto il quotidiano britannico ha pubblicato degli Uber Files, sia della loro fonte accertata, sia dei grandi nomi a cui si riferiscono.
La sorpresa più grande al momento rimane l’illusione che la politica – globalmente – sia immune dal mondo finanziario neoliberista, sia che agisca a carte scoperte, che dietro le quinte.
Sabato, 16 luglio 2022 – n° 29/2022
In copertina: applicazione di Uber per smartphone – Foto: Marina Stroganova/Pixabay