La maggioranza socialista era frammentata in vari partiti
di Ettore Vittorini
Nel caos di questi giorni pre-elettorali che ha coinvolto la sinistra e i piccoli movimenti centristi – vedi il voltafaccia di Carlo Calenda e la nuova alleanza con Matteo Renzi – i vari commentatori politici hanno trascurato di segnalare che il 28 ottobre ricorre il centenario della marcia su Roma, da cui ebbe inizio la tragica avventura del Ventennio fascista.
Un mese prima di quella ricorrenza conosceremo l’esito delle elezioni del 25 settembre che quasi certamente – salvo un miracoloso capovolgimento delle previsioni – darà la vittoria ai partiti di destra. Certamente non ci sarà un ritorno al Fascismo di un secolo fa, ma ricordando le recenti urla reazionarie di Giorgia Meloni al comizio tenuto in Spagna tra i suoi “camerati” di Vox – il partito neo-falangista – le sparate di Matteo Salvini e le sue simpatie per certi regimi attuali, gli interventi nostalgici sulla dittatura mussoliniana di molti aderenti a Fratelli d’Italia e alla Lega, queste premesse non sono da prendere alla leggera. Se la destra ottenesse i tre quarti dei seggi in Parlamento, avrebbe anche la facoltà di cambiare la Costituzione.
Rispetto al Regno d’Italia di cent’anni fa, la nostra Repubblica possiede gli anticorpi istituzionali che bloccherebbero eventuali colpi di testa dittatoriali, ma come è avvenuto in Polonia e Ungheria, qualcuno al governo potrebbe portarci verso la “democrazia illiberale” di quei due Paesi.
La frammentazione dei partiti di oggi ricorda molto quanto era accaduto nel 1921 dopo le elezioni politiche del 15 maggio di quel terribile anno. Ma allora la situazione economico e sociale italiana aveva raggiunto livelli spaventosi. La grande guerra, conclusasi da poco, aveva danneggiato enormemente il Paese creando un generale malcontento tra la popolazione che lo Stato liberale era incapace a contenere.
L’enorme inflazione aveva provocato le reazioni operaie che chiedevano aumenti salariali; oltre ai continui scioperi, le fabbriche venivano occupate dalle maestranze e le città bloccate dall’interruzione dei servizi pubblici. Nelle campagne i contadini si erano ribellati ai latifondisti e chiedevano la fine dei rapporti di sudditanza medioevali e una moderna riforma agraria. Lo Stato rispondeva difendendo la borghesia industriale e latifondista inviando l’esercito con l’ordine di sparare sulla folla. Infine l’eco della Rivoluzione d’ottobre in Russia si era sparsa in Italia e nel resto dell’Europa.
Le classi dirigenti temevano l’avanzata del bolscevismo. Alle elezioni del 1919 i Socialisti erano già diventati il primo partito ottenendo il 35 per cento di voti che però non gli permettevano di governare. Si affermarono anche i cattolici col Partito popolare, ma una coalizione era impossibile, tanto più che la maggioranza dei dirigenti socialisti non accettava compromessi. Minacciavano la rivoluzione – senza averne i mezzi per attuarla – spaventando con le parole gran parte della popolazione moderata e l’alta borghesia corsa ai ripari finanziando le squadracce fasciste che, appoggiate dalle autorità, soffocarono con gli assalti armati le istituzioni controllate dai socialisti, i sindacati, i giornali, compiendo molti assassinii sotto gli occhi delle forze dell’ordine.
Le elezioni del ’21 confermarono il primato socialista, anche se il partito si era frantumato con la scissione dei Comunisti al congresso di Livorno. Inoltre i massimalisti avevano espulso i riformisti che avevano creato dei partitini.
Il suffragio universale – solo per gli uomini con più di 21 anni – voluto da Giolitti permetteva di votare a 11 milioni e 477 mila italiani, ma gli astenuti furono più del 44%, a molti dei quali – elettori di sinistra – fu impedito di recarsi ai seggi dalle minacce e dalle bastonate dei fascisti, mentre le forze dell’ordine si voltavano dall’altra parte.
Il Partito socialista ufficiale confermò il primo posto con 1.631.000 voti e 123 seggi in Parlamento su un totale di 553. Seguì il cattolico Partito popolare con 1.347.000 e 108 seggi. Terzo il Blocco nazionale – formato da fascisti e nazionalisti – con 1.260.000 e 98 seggi. Seguirono i Liberali democratici – di Giolitti – con 668.000 e 68 seggi, i Liberali con 46, il Partito comunista con 15 seggi, i Combattenti con 10, e la coda frammentata dei Socialisti riformisti, Repubblicani, la Democrazia sociale e la Democrazia riformista.
Vittorio Emanuele III convocò il liberale Giovanni Giolitti e il leader socialista Filippo Turati per trovare un accordo di governo che però venne respinto dai socialisti i quali, oltretutto, rimproverarono Turati per essersi recato a Corte. Il Re assegnò l’incarico a Luigi Facta che formò un debole governo centrista.
La marcia su Roma fu annunciata da Mussolini al Congresso fascista di Napoli nei primi di ottobre del ’22. Quindi il Re e il governo erano stati avvertiti. Il Capo di Stato Maggiore, generale Puglisi, disse che bastavano 30 mila militari per fermare le squadracce fasciste male armate e sconclusionate. Il generale Diaz – duca della vittoria – invece disse ambiguamente che “l’esercito avrebbe fatto il proprio dovere, ma sarebbe stato meglio non metterlo alla prova”. Il 27 ottobre Facta decretò lo stato d’assedio che il Re firmò subito e poi la sera ritirò firma.
Mussolini che a Milano era in attesa, fu convocato a Roma da “Sua Maestà” per ricevere l’incarico di presidente del Consiglio e vi si recò comodamente in vagone letto mentre le sue bande marciavano sparpagliate sulla capitale facendo tappa nelle osterie e nei bordelli.
Il nuovo Primo ministro nel discorso alla Camera dei deputati disse tra l’altro: “Potevo trasformare quest’ aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli”. L’aula, tranne i socialisti, non insorse ma anzi gli regalò la fiducia con 316 sì e 116 no. Votarono in favore anche personaggi importanti che incontreremo nell’Italia del dopoguerra: Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi – diventato nel 1956 Presidente della Repubblica – i socialisti riformisti Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati, Vittorio Emanuele Orlando e lo stesso Giolitti, scomparso durante la dittatura. Nove giorni dopo la Camera conferì a Mussolini i pieni poteri in materia economica e amministrativa, un atto senza precedenti nella storia della Nazione.
Fare un raffronto tra i parlamentari di ieri e quelli e di oggi non è facile. A quei tempi non esistevano radio, televisione, per non parlare dei social, e l’informazione era affidata esclusivamente alla stampa. Inoltre le comunicazioni transitavano attraverso il telegrafo e il telefono ancora ai primordi.
I cittadini sapevano poco di quanto accadeva nella politica romana e la maggior parte della stampa era conservatrice e stava dalla parte del potere. Per esempio le notizie degli assalti fascisti all’Avanti – organo socialista – e le uccisioni di politici di sinistra e sindacalisti, venivano ignorate o ridotte a poco spazio. Il Corriere della Sera che a quei tempi vendeva 800mila copie, così titolava normalmente un assalto fascista: “Scontro tra socialisti e un gruppo di facinorosi, alcune vittime”.
Il Parlamento di Roma era comunque composto in parte da uomini di prestigio, da nobili, giuristi, professori universitari e lacchè di grandi industriali, lontani dai problemi delle masse. C’erano eccezioni tra i socialisti e i popolari come Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti, Gaetano Salvemini, De Gasperi, Luigi Sturzo. Anche Giolitti tra i liberali fu una figura di politico intelligente e lungimirante.
I colleghi di oggi, al contrario, sono molto visibili al pubblico – e tengono molto ad apparire – attraverso i talk show televisivi, i social e la stampa. La ex ministra Elsa Fornero li ha paragonati a imbonitori che vendono balsami e creme miracolose trattando i cittadini come sprovveduti acquirenti. Sarà estremamente difficile trovare tra di loro un Giolitti, un Gramsci, un De Gasperi, un Togliatti, un Berlinguer o un Moro.
Oggi è già iniziata la campagna elettorale per le elezioni del 25 settembre con i partiti che seguono il solito rituale della banalità: tante parole, promesse di riforme che non verranno mantenute e annunci da parte della destra di interventi sulla Costituzione. Berlusconi – quasi 86 anni – si ripresenterà per il Senato del quale, in caso di vittoria, dovrebbe diventarne il presidente. Proprio di quel Senato da cui nel 2013 venne espulso a causa delle sue vicende giudiziarie. L’ex Cavaliere intende già trasformare l’Italia in Repubblica presidenziale dando per scontate le dimissioni di Mattarella.
Non è un incubo: ci stiamo avvicinando alla realtà.
Sabato, 13 agosto 2021 – n° 33/2022
In copertina: la marcia su Roma – immagine di dominio pubblico