Fu amato in Occidente e odiato nel suo Paese
di Ettore Vittorini
Vi immaginate se una quarantina di anni fa uno dei grandi leader della gerontocrazia dell’Unione Sovietica – un Brežnev, un Andropov, un Cernienko – fosse comparso come ospite a un festival di Sanremo per rispondere con molto spirito alle domande del conduttore? Soltanto una barzelletta avrebbe osato presentare un simile scenario.
Eppure Mikhail Sergeyevich Gorbačëv, ultimo segretario generale e presidente dell’URSS lo ha fatto – invitato da Fabio Fazio nel 1999 – ma da semplice cittadino, quando ormai la bandiera rossa non sventolava più sul Cremlino, lo Stato bolscevico era scomparso e l’anno dopo Putin sarebbe stato eletto presidente della Federazione Russa.
Gorbačëv amava molto l’Italia dove era venuto per la prima volta in veste ufficiale nel 1984 ai funerali di Enrico Berlinguer in rappresentanza del Governo sovietico.
Allora era il numero due della nomenklatura, ma l’anno dopo divenne segretario generale del PCUS e poi presidente.
Tornò a Roma in visita ufficiale con la moglie Raissa a fine novembre del 1989, pochi giorni dopo l’apertura del Muro di Berlino – merito suo – e venne accolto con grandi onori e con una enorme partecipazione della popolazione molto superiore a quella riservata nel 1962 al presidente USA Kennedy. Nei suoi spostamenti nella capitale la folla circondava la sua auto e lui – tra i timori della scorta – ne usciva per stringere le mani della gente che esultava. Addirittura i negozi di lusso di via Condotti avevano esposto nelle vetrine le bandiere rosse con la falce e martello. Fu anche organizzata una sfilata di moda in onore di Raissa.
A Roma, oltre alle autorità italiane incontrò Papa Wojtyla – fu il primo leader sovietico a entrare in Vaticano – col quale si intrattenne per oltre due ore faccia a faccia senza la presenza di interpreti, parlando entrambi in russo. Ebbe la stessa accoglienza anche a Milano, dove oltre all’“assedio” della popolazione, si intrattenne con i maggiori big dell’industria tra i quali Gianni Agnelli.
Il primo dicembre si recò a Malta dove incontrò il Presidente americano George H. Bush – il padre, quello serio – col quale firmò gli accordi sul disarmo, già avviati con Ronald Reagan, che portarono alla fine della Guerra fredda.
Era ormai diventato una star, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale che visitava molto spesso sempre accompagnato dalla gentile Raissa. Tra i tanti riconoscimenti ottenne nel 1990 il Premio Nobel per la pace.
Il popolo e i media russi hanno quasi ignorato la sua morte, a parte Putin che ha reso un gelido omaggio alla salma. Non ci saranno funerali di Stato. I giovani non sanno quasi niente di lui, mentre le generazioni precedenti lo detestano e odiano ritenendolo colpevole del crollo dell’”impero” sovietico. Ne ebbe la prova alle elezioni presidenziali del 1996, dove ottenne soltanto l’1% di voti.
In Occidente invece la sua scomparsa ha avuto una grande ripercussione: tutti ricordano le due parole sino ad allora sconosciute, pronunciate appena eletto nel 1985 dal Politburo come segretario generale del PCUS: glasnost e perestrojka (riforme e trasparenza), che furono seguite da un capovolgimento della politica interna ed estera sovietica. Aveva 53 anni e allontanò dal potere tutti i membri della gerontocrazia che aveva avuto in mano le sorti del Paese. Per prima cosa licenziò il ministro degli Esteri Andrej Gromyko – che occupava quel posto da 28 anni – chiamato dai colleghi occidentali Mister Nyet (Signor No) o la mummia, sostituendolo col “giovane” Eduard Shevardnadze.
Quest’ultimo racconta che in un colloquio con Gorbačëv appena eletto, avuto nei giardini del Cremlino – all’interno abbondavano le microspie – il nuovo segretario gli disse: “Se non interveniamo in maniera pesante la nostra economia rischia la bancarotta“. Infatti le enormi spese militari per contrastare le “guerre stellari” di Ronald Reagan, l’avventura in Afghanistan “per contenere l’avanzata del capitalismo”, non permettevano un vero sviluppo del Paese che aveva la necessità di produrre più beni di consumo. La popolazione era costretta da anni a fare lunghe file per comprare il pane, il latte e altri generi, alcuni dei quali, come i tabacchi, erano stati razionati come ai tempi dell’invasione tedesca.
Mentre nel Paese si incominciava a respirare aria di libertà, la Cortina di ferro crollava giorno dopo giorno: i regimi comunisti della Germania Est, della Polonia, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia scomparivano, le tre Repubbliche baltiche – annesse nel dopoguerra – riconquistavano pacificamente l’indipendenza per dar posto a regimi democratici. Gorbačëv aveva previsto e accettato la demolizione dell’impero comunista dando ordine all’Armata rossa di non intervenire.
Il vecchio apparato stava collassando mentre il suo nuovo capo cercava di salvare col vento della democrazia il gigante russo dai piedi di argilla con riforme troppo repentine in un sistema atrofizzato da decenni. Era riuscito a impedire una disgregazione violenta come è avvenuto in Jugoslavia, ma nello stesso tempo si è trovato imprigionato tra riformisti e conservatori, privo di una vera maggioranza che lo potesse sostenere.
Venne fermato dal tentativo di colpo di stato dell’agosto del 1991 che Boris Yeltsin, presidente del Soviet Supremo, riuscì a soffocare. Ufficialmente si disse che i golpisti appartenevano alla “vecchia guardia” del Partito comunista, ma la scrittrice Masha Gessen afferma nel suo libro-documento su Putin che dietro quel tentativo si nascondeva lo zampino del KGB.
Chi ne uscì vincitore fu Yeltsin che, appoggiato dai riformisti e da coloro che in seguito sarebbero diventati gli oligarchi, aveva conquistato il favore dell’opinione pubblica a scapito di Gorbačëv. Dopo mesi di caos politico, questi si dimise da Capo dello Stato il 25 dicembre del 1991. Il giorno dopo veniva ammainata dal Cremlino la bandiera rossa e l’URSS cessava di esistere. Eletto alle prime elezioni democratiche della storia del Paese, Boris Yeltsin diventava presidente della Federazione Russa. Intanto Vladimir Putin dava inizio alla sua scalata al potere.
I Paesi dell’Occidente – NATO compresa – non portarono alcun aiuto ai tentativi di Gorbaciov di rinnovare il Paese, anzi approfittarono della debolezza della Russia per isolarla e circondarla militarmente, alimentando così quel nazionalismo che ha contribuito a riaccendere la nuova guerra – calda e fredda – dei nostri giorni.
Sabato, 3 settembre 2022 – n° 36/2022
In copertina: il Muro di Berlino – Foto: RIA Novosti archive, image #428452 / Boris Babanov / CC-BY-SA 3.0