Ma non si allude all’inferno
di Ettore Vittorini
Tanti anni fa, quando recarsi in Sicilia con l’aereo era una rarità, si percorreva la Penisola continentale in treno o in auto sino alla punta della Calabria e dai porti di Reggio o di Villa San Giovanni si attraversava lo Stretto col traghetto che in un’ora scarsa arrivava a Messina.
In un giorno di quel periodo mentre anch’io attraversavo lo Stretto su una nave delle Ferrovie dello Stato piena di vagoni, notai un altro traghetto che ci superava e che riportava sulla fiancata il nome della compagnia di navigazione cui apparteneva: “Caronte” era la denominazione della società.
Lo notò anche un altro passeggero, un ragazzino il quale chiese al padre: “Ma Caronte non era quel diavolo che trasportava le anime cattive nell’Inferno?” Il padre gli rispose affermativamente sottolineando che ne parlava Dante Alighieri nel terzo Canto dell’inferno”. E aggiunse: “Oggi vi porta anche i vivi buoni che spesso vengono perseguitati dai cattivi”.
Quando in Sicilia accadono gravi episodi legati alla mafia, mi capita di pensare se i fondatori della “Caronte” – la famiglia calabrese dei Matacena – si fossero resi conto del significato di quel nome. Forse qualche anno dopo quando lo cambiarono in “Caronte & Tourist”. E i siciliani si sono mai risentiti per l’indiretto accostamento della loro isola all’inferno? Tra Sicilia e Calabria non esiste campanilismo; tutte e due pensano alle loro rispettive mafie che per altro non si fanno la guerra anzi qualche volta cooperano.
È troppo equiparare la Sicilia a un inferno figurativo, ma certamente la mafia e una buona parte della popolazione ce la mettono tutta per darle quell’immagine. Mio padre era siciliano ma abbandonò l’isola nel 1930 andando a studiare all’Università di Firenze, ospitato da uno zio – siciliano – che insegnava all’Accademia di Belle Arti. Rimasero entrambi per sempre in continente tranne qualche capatina per trovare i parenti. La famiglia viveva a Siracusa, che a quei tempi veniva definita dai palermitani una località di “babbi” – che in siciliano significa deboli, stupidi – perché non erano “uomini d’onore”, cioè mafiosi.
Mio nonno, capostazione socialista, venne licenziato perché rifiutò la tessera del fascio. Poi nel dopoguerra venne reintegrato e oggi la stazione di Siracusa porta il suo nome. Anche i fratelli di mio padre lasciarono la Sicilia, ma nei loro cuori rimase l’amore e la nostalgia per quell’isola bellissima e matrigna per i “babbi” che vivevano non solo a Siracusa ma in ogni angolo della regione. Il fratello maggiore, Elio, scrisse “Conversazione in Sicilia”, un romanzo sulla vita di quella gente, sulla loro miseria e lo sfruttamento dei potenti. C’era ancora il fascismo e quel libro subì la censura del regime. Oggi il lungomare dell’isola di Ortigia porta il suo nome. I siciliani sono generosi nel commemorare i Verga, i Pirandello e altri suoi figli meno illustri. Lo fanno anche per le vittime della mafia, ma tutto finisce lì, in monumenti, targhe e varie manifestazioni.
La mafia in Sicilia esiste da quasi due secoli e già nel 1838 se ne occupò la Giustizia borbonica. Con l’Unità d’Italia nel ’61 l’ ”onorata società” si interessò subito ai nuovi interessi economici: la distribuzione delle terre feudali, di quelle appartenenti alla Chiesa, la costruzione delle strade, delle prime ferrovie. E da allora incominciò la “mattanza” contro coloro che ostacolavano la corsa alla ricchezza dei mafiosi e della nascente borghesia che li appoggiava.
Dal 1861 al 1960 le vittime accertate furono più di 5000 delle quali 530 uccise dal 1945 sino ai 15 anni successivi. Ecco l’elenco dei morti più illustri del 1861: Giuseppe Montalbano, un medico ex garibaldino che capeggiò le manifestazioni dei contadini di Santa Margherita Belice che rivendicavano le terre tolte dal governo ai latifondisti, fu ucciso con una scarica di lupara; Pietro Sampolo, giurista e magistrato, eliminato in un agguato; Giambattista Guccione, giudice della Corte d’Appello di Palermo fu assassinato sotto casa; Giovanni Corrao, ex ufficiale dei garibaldini, fu ammazzato perché difendeva i contadini.
Tra questo breve elenco e quello molto più lungo dei nostri giorni, nulla è cambiato nei metodi della mafia. Anche allora si eliminavano magistrati e altri personaggi scomodi. Lo Stato unitario che cosa faceva? Nei primi tempi dell’Unità i governi e i burocrati piemontesi non avevano ancora capito niente della Sicilia e in seguito i presidenti del Consiglio siciliani, Di Rudinì e Crispi, che ben conoscevano l’esistenza della mafia, la usarono per ottenere voti in cambio di favori. Lo fece anche il piemontese Giolitti, mentre il fascismo la combatté in modo superficiale con il prefetto Mori che se la prese con la povera gente, mentre i caporioni entravano nel partito.
Nel dopoguerra, la Democrazia Cristiana e lo Stato, ignorarono per anni l’esistenza della Mafia, mettendo a capo delle amministrazioni locali politici legati a quella criminalità. I più potenti erano il deputato Salvo Lima, Giovanni Gioia e Vito Ciancimino, sindaco di Palermo che tra gli Anni ‘50 e ‘60 permise il sacco edilizio della città. Contemporaneamente la magistratura – tranne eccezioni – appariva distaccata dai problemi causati della mafia.
Lo Stato ha deciso di intervenire dopo la metà degli Anni ‘80 quando la mattanza mafiosa si era estesa anche alle forze dell’ordine a politici e magistrati. Il resto è storia dei nostri giorni con gli arresti – in ritardo – dei boss più pericolosi e tante lapidi per commemorare le loro vittime. E purtroppo nell’isola c’è sempre gente che pronuncia la stessa frase: “La mafia non esiste, io non ho visto niente, quel tizio non lo conoscevo”.
Sabato, 28 gennaio 2023 – n° 4/2023
In copertina: la linea marittima bidirezionale nello Stretto di Messina – Foto: Ad Meskens – CC BY-SA 4.0