Il virus politico
di Francesco Chiaro
La sezione Esteri bilingue si arricchisce della penna e dell’acume di Francesco Chiaro. Qui di seguito una sua breve bio e, poi, un articolo in due parti sulla situazione ellenica – ieri, oggi e domani.
Laureato in Traduzione e Interpretariato, dopo aver tradotto diverse antologie e opere teatrali contemporanee, ha intrapreso la sua collaborazione con Persinsala prima su territorio nazionale e poi in Grecia e in altri Paesi. Attualmente risiede a Salonicco, dove segue la scena locale. Forte sostenitore del curriculum Szymbroskiano. A prescindere da quanto si è vissuto il curriculum dovrebbe essere breve. È d’obbligo concisione e selezione dei fatti. Cambiare paesaggi in indirizzi e ricordi incerti in date fisse. Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. I viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. Onorificenze senza motivazione. Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi. Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni. Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano. Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.
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Prestandoci al gioco dei facili stereotipi e delle generalizzazioni, la Grecia è al contempo nemico storico dell’Est (saio ortodosso vs. neo-sultanato) e pericoloso parente dell’Ovest (NATO vs. neo-zarismo), tomba dell’Unione Europea se sei del Nord e gloriosa culla della civiltà occidentale se ci stai dentro. Grattando via la superficie, però, e addentrandosi nei meandri scalcinati delle sue (megalo)poli sovraffollate e asfissiate dall’ipercementificazione, o nei fatiscenti villaggi sparpagliati qua e là lungo quell’entroterra dai fasti epici, ecco che ci si ritrova davanti a una società ben radicata con i piedi nel fango e la testa tesa con foga verso le stelle, dove la rettitudine e la corruzione danzano un passo a due fratricida dal quale nessuno sembra in grado di sfuggire, nemmeno un virus.
Εχθές
I denti bianchi e affilati, la crisi, ha cominciato a mostrarli nel 2009. Da allora, secondo le stime dell’OCSE, almeno 400mila persone hanno lasciato il paese, dirette non solo in quell’Europa che tanto detestano (paradossalmente, ma come si capirà poi in seguito, in linea con la ”grecità” moderna, la maggior parte dei giovani emigranti greci andrà a finire proprio nella culla della troika galeotta, in Germania), ma anche in altri paesi già in passato meta di immigrazioni economiche quali Australia, Stati Uniti e Canada, dove già esistono, come per gli italiani, comunità di emigrati pronte ad accogliere (e spesso sfruttare con candido amor di patria) quei cervelli che più di una fuga intraprendono una lenta catabasi nella prigione lavorativa del realismo capitalista
Non tutti, però, si sposteranno oltre confine. A riprova della poliedricità e della contraddittorietà tipica di questo popolo, molti greci (non quei giovani che si sono dati alla fuga e nemmeno quelli che non hanno potuto o voluto farlo, ma lavoratori e lavoratrici di mezza età stanchi della vita di città) si ritroveranno nella curiosa condizione di mettere in pratica, più per necessità che per convinzione politica, le teorie di decrescita felice introdotte da Serge Latouche e poi sviluppatesi in varie forme di associazionismo e movimenti in più zone del mondo, migrando internamente verso altri lidi: le isole greche. Questi flussi migratori, però, poiché appunto slegati da una qualsivoglia struttura socio-politica e dettati perlopiù da un bisogno quantomai umano di sopravvivenza individuale, non riusciranno a introdurre nella società greca quel cambio di paradigma tanto agognato e ben poco perseguito nei fatti.
Con le parole dello scrittore ateniese Christos Ikonomou, “Ho l’impressione che l’attuale crisi politica, economica e sociale, nonostante le conseguenze di vasta portata che ha prodotto, non sia stata accompagnata da un ripensamento morale, da un riesame delle coscienze. Non vedo intorno a me molta gente disposta, o almeno incline, a chiedersi se siamo davvero, a livello individuale come sociale, quello che vorremmo essere, che crediamo e pretendiamo di essere. Non vedo molti chiedersi in tutta sincerità se non ci sia in realtà un enorme divario tra i valori e le idee che in teoria professiamo e promuoviamo e il nostro modo di vivere. Né mettere in discussione – nei fatti, non a parole – almeno alcune delle menzogne autoassolutorie, delle convinzioni inveterate e degli stereotipi che abbiamo coltivato a proposito di noi stessi e delle nostre relazioni con gli altri. Né ammettere che, in ultima analisi, i valori, i principi e le idee, per quanto nobili, assumono un senso concreto solo quando ci si sforza di interiorizzarli e assimilarli nella nostra coscienza, di renderli vincolanti rispetto alla nostra esistenza. Altrimenti non sono che slogan. Accattivanti, impeccabili, attuali, ma solo slogan”.
Slogan che, una volta “finita” la crisi, si sono rapidamente persi nella rinvigorita spirale di crescita e ripresa economica al ribasso che, ancora una volta, ha fatto prima emergere e poi vincere quei valori, principi e idee non tanto tipici di un socialismo democratico à la SYRIZA quanto del nepotistico neoliberismo del partito tutt’ora al governo, la Nea Dimokratia (ND) di Kyriakos Mitsotakis. Facendo leva sulle (non troppo celate) fibre fasciste del tessuto sociale greco ed elevando senza alcun pudore i deboli e i vessati a capro espiatorio di tutti i mali portati da, paradossalmente ma non troppo, la mala gestione e la manipolazione del debito pubblico della ND di Kostas Karamanlis (che porterà al governo di Yiorgos Papandreou [PASOK] il quale, resosi conto della voragine economica sulla quale si ritrovò, aprirà la porta del paese alle politiche di austerità europee), Mitsotakis intraprenderà una politica di chiaro stampo conservatrice e, come si è detto, neoliberale, dichiarando guerra alle politiche di accoglienza sui migranti e di fatto smantellando gran parte delle strutture e delle reti assistenziali istituite a riguardo dal precedente governo Tsipras.
È in questo contesto sociale e politico, agli inizi di marzo, che cominciano ad aleggiare in Grecia, come nel resto del mondo, i primi, timidi riferimenti a un concetto che, fino ad allora, aveva avuto ben poca presa sul dibattito pubblico del paese: la pandemia. Timidi, perché fino allo scoppiare del primo focolaio in terra greca, i mass media del paese avevano ben altro di cui parlare.
Prima del monopolio mediatico del virus (fenomeno globale decisamente interessante), difatti, la stampa greca era indaffarata a seguire gli ultimi sviluppi della crisi migratoria su due fronti: il confine ellino-turco via terra e quello via mare. Se da un lato, dopo aver dato il via libera ai migranti presenti sul territorio turco di avviarsi verso la frontiera di terra, Erdogan era (ed è tutt’ora, checché NON se ne dica) stato accusato di aver anche costretto gli stessi migranti a lasciare il paese per aumentare così le tensioni al confine (come testimoniato da svariate fonti), dall’altro, il governo ND aveva deciso di infrangere l’obbligo dei paesi europei (come già fatto all’inizio della crisi da altri stati membri) di mantenere aperte le frontiere ai richiedenti asilo, chiudendo di fatto queste ultime e mandando forze armate a presidiarle (mossa avallata poi di fatto dalla Presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale ha stanziato 700 milioni di euro per la difesa dello “scuso” d’Europa, fornendo inoltre ulteriori forze armate di terra, di mare e d’aria per la “gestione della migrazione”). Al tempo stesso, gli abitanti di Chios e Lesbos, isole da sempre al centro del ciclone migratorio, avevano iniziato a organizzarsi e a reagire alle pretese del governo di aumentare la presenza della polizia sulle isole in vista della creazione di nuovi centri di reclusione, respingendo in certi casi anche con violenza lo sbarco delle forze armate. Con l’arrivo del virus, però, qualsiasi forma di notizia che non facesse diretto riferimento al numero dei contagi, delle morti e delle guarigioni è sparita dal dibattito pubblico, e di quelle persone al confine non se ne è saputo più nulla.
Σήμερα
I greci nello spazio pubblico sono contraddittori. Per uno straniero è difficile sospettarlo, d’altronde nell’immaginario collettivo degli europei occidentali, il greco tipico è tutto un susseguirsi di sorrisi, cordialità, premure e abbuffate luculliane. Tra loro, invece, sono sgarbati, litigiosi o anche apertamente ostili. Soprattutto nelle grandi città, soprattutto in quei luoghi che, a causa delle attuali politiche di lockdown, sono diventati i pochi, se non gli unici, punti di ritrovo e sbranamento pubblico. Questa ostilità, questa diffidenza ha radici profonde e si rifà a quell’espressione tutta greca del ωχαδερφισμός (ochaderfismos), un je m’en fous inoculato dalla nascita e svezzato da anni di corruzione tout court, burocrazia uroborica e lassismo autoritario, traducendosi in scene quasi tragicomiche di pura giungla urbana, dove, appunto, lo sbranarsi è la norma, e al contempo il fare gruppo è d’obbligo quando la carne da sventrare è quella dello Stato.
Non occorre però lasciarsi andare a facili critiche moraliste, perché (parafrasando un vecchio detto) è la situazione, qui come in altri luoghi e in altri quando, a fare l’uomo ladro. E la situazione, in Grecia, è tragica. “Se sei un lavoratore autonomo (come quasi il 35% dei greci), i contributi per la previdenza sociale crescono ogni anno senza tenere conto del tuo reddito effettivo – nel 2018 questa legge è stata sostituita da una norma che prevede l’istituzione di un sistema basato sul reddito effettivo. In Grecia, dove il salario minimo è di 684 euro, pagavo circa 400 euro al mese solo di contributi previdenziali. Poi bisogna anche versare anticipatamente l’Iva, indipendentemente dal fatto che i tuoi clienti ti abbiano pagato o meno. Quando il sistema è irrazionale e ingiusto, inevitabilmente la gente cerca di aggirarlo”, scrive Rachel Howard, londinese cresciuta in Grecia e giornalista per diverse testate inglesi come The Guardian e The Telegraph.
Come se non bastasse, per fornire un altro esempio funzionale di cortocircuito sistemico, là dove in altri paesi corruzione è sinonimo di politica, qui, nella patria di Ippocrate, il termine prende il nome autoctono di φακελάκι (fakelaki) e va posizionato, solitamente con gesti non necessariamente dissimulati, nelle tasche profonde dei camici ospedalieri. A causa della crisi, ma anche per via di decenni di politiche neoliberali fatte di tagli, privatizzazione e mancanza di meccanismi di controllo nel settore sanitario, che ha perso ben 2,5 milioni di utenti dal 2009 in poi (dati OMS) perché oramai disoccupati dai (ben) più di due anni – padroni e dipendenti in egual misura – l’eccezione della bustarella (il fakelaki di cui sopra) per avere un accesso rapido (o, in alcuni casi, l’accesso e basta) alla sala operatoria o perlomeno all’ufficio del dottore di turno, è diventata la norma. Criticata, additata, guardata con sdegno e riprovazione, ma poi sempre seguita (2,009,602€ in mazzette denunciate tramite il sito web www.edosafakelaki.org, che riporta solamente le segnalazioni anonime e, dunque, porta alla luce solo una minima parte di questo sottomondo) da chi, per mancanza di risorse, non può permettersi un ricovero in una delle tante cliniche private del paese.
Tutto questo, prima dell’avvento del famigerato COVID-19. In un paese che per non collassare si trasforma (più nolente che volente) nel resort d’Europa, dove il debito pubblico non accenna a diminuire, anzi, si aggrava giorno dopo giorno, di certo non aiutato dalla svendita (forzata) dei beni patrimoniali di stato e le priorità del governo in carica non sono nemmeno lontanamente vicine alle necessità del popolo che rappresenta, a partire dal 23 marzo 2020, viene imposto l’isolamento forzato dei cittadini per motivi di sicurezza nazionale. Seguendo quasi alla lettera i nefasti DPCM contiani, il governo di Mitsotakis implementa le stesse misure preventive draconiane dell’Italia (autocertificazione inclusa), risparmiando però ai suoi concittadini il divieto quantomai dannoso (a detta della stessa OMS) di attività fisica all’aperto.
Tenendo a mente tutte le contraddittorietà di cui sopra, il lettore forse riuscirà già a immaginare il genere teatrale che prenderà il sopravvento nei mesi a seguire a tutti i livelli della società greca: la commedia tragica in più atti. Se è vero che il popolo greco, diviso per diffidenza, di fronte al grande avversario comune, che è sempre lo Stato, fa magicamente sparire le divergenze private, cosa succede quando, in tempi pandemici, è il Leviatano stesso a esortare la popolazione a essere unita, ognuno a casa propria? Dall’inizio della quarantena forzata fino al 4 maggio (data in cui avrà inizio la fase 2 del piano governativo contro il coronavirus), i cittadini greci si sono ritrovati, giorno dopo giorno, a dover affrontare tutta una serie di problemi che, prima, si risolvevano più o meno rapidamente tramite il confronto vis-à-vis con le persone della propria cerchia di conoscenze. Infatti, sempre a riprova della stessa contraddittorietà latente, la società ellenica è una società conviviale nella quale la maggior parte dei suoi membri ha una vita sociale effervescente: dallo studente universitario alla vedova ultraottantenne, in media il tempo passato fuori casa è di gran lunga superiore a quello trascorso nella “sicurezza” delle quattro pareti. Va da sé che, con l’arrivo delle misure restrittive di isolamento totale, chi prima si riversava per le strade in cerca di confronto, conforto e coinvolgimento, adesso si ritrova costretto a dover affrontare i propri fantasmi (e, per estensione mediatica, anche quelli del mondo intero) in una stanza che ben poco ha a che vedere con l’idea di casa che ci eravamo fatti prima dell’avvento dell’epidemia.
Ma la situazione non è durata molto e già dopo poche settimane, i greci, rinsavendo da questo torpore indotto, hanno cominciato (o in certi casi semplicemente continuato) a impadronirsi nuovamente degli spazi pubblici a loro negati e a crearne di nuovi. Nella piccola strada di Salonicco nella quale vivo, gli edifici si ammassano uno accanto all’altro, spalla a spalla, come a darsi conforto (o a spintonarsi, a seconda del momento storico), prestandosi a un nuovo (antichissimo) tipo di socialità a distanza di cui gli anziani si sono fatti rapidamente massimi esperti. Se da un lato i giovani (quelli rimasti in città, visto che è sempre stato possibile per i residenti in altri comuni di tornare nel domicilio dichiarato all’anagrafe), assecondati da chi può fisicamente permetterselo, si sono dati all’attività fisica sfrenata pur di uscire di casa, percuotendo le arterie principali della città ormai deserte con le loro scarpe da ginnastica, gli anziani hanno riscoperto la gioia delle chiacchiere alla finestra, al balcone, negli spazi comuni dei condomini o – in quegli edifici dove il tetto spiovente lascia lo spazio a una terrazza dimenticata nel suo grigiore – a vere e proprie piazze pensili con tanto di sedie in plastica per non stancarsi troppo.
A poco a poco, il distanziamento sociale ha così perso mordente, trasformandosi in mero distanziamento fisico. Tramite i social network e le occupazioni ancora presenti sul territorio, i greci hanno potuto ritrovare quello spirito di popolo unito (nella diffidenza) contro lo Stato, aizzandosi inviperiti contro le misure suicida del governo Mitsotakis, che ha lasciato alla mercé degli elementi la stragrande maggioranza della popolazione, già in condizioni precarie da prima dell’avvento del COVID-19. I più colpiti, come sempre, sono stati i disoccupati, i meno abbienti, gli artisti e tutte quelle categorie professionali che non rientrano nell’ottica di profitto neoliberale, che sono rimaste scoperte per troppe settimane e che avranno sicuramente difficoltà enormi, anche per problemi basilari come vitto e alloggio, a riprendersi quando (quando?) la situazione tornerà alla “normalità”.
A mercoledì 6 maggio per la seconda parte
The Political Virus
Were we to play the game of easy stereotypes and generalisations, Greece would be at the same time historical enemy of the East (orthodox tunic vs. neo-sultanate) and dangerous relative of the West (NATO vs. neo-czarism) but also tomb of the European Union if you come from the North and glorious cradle of civilization if you live in it. However, were we to scratch the surface and explore the worn-out labyrinth of its overcrowded (megalo)polis asphyxiated by an uncontrolled urban development, or the decrepit villages scattered here and there along the backcountry once laden with epic splendour, we would found ourselves looking at a society deeply rooted in mud, but the head stretched towards the stars, where integrity and corruption dance a fratricidal pas de deux from which no one can escape, not even the virus.
Εχθές
The crisis bared its white and sharp teeth starting from 2009. Ever since then, according to OECD figures, at least 400thousand people left the country, heading not only towards that much-hated Europe (paradoxically, but perfectly in line with the modern “Greekness” that will be outlined later on, most of the Greek youth), but also in other lands that already had a history of economic migrations such as Australia, the USA and Canada, where Greeks, just as much as Italians, could find communities ready to welcome (and more oft than not exploit with candid patriotism) that brain drain and those men and women slowly fleeing towards a katabasis into the ruthless world of the capitalist realism
Some, however, did not leave the country. As further confirmation of the polyhedral contradictory nature that so much characterises the Greek people, many of them (not the young ones who fled the country and neither those who could not or would not do it, but those middle-aged workers who grew tired of the life in the city) found themselves in the peculiar situation of putting into practice – more out of necessity than out of belief – Serge Latouche’s theories of happy degrowth, which were later developed by many people into various forms of associationism and movements, thus internally migrating towards other destinations: the Greek islands. Unrelated as they were to any socio-political structure and dictated mainly by the most humane need to survive, though, these migratory flows were not able to introduce that paradigm shift that the society was coveting verbally and avoiding practically.
As Athens-based writer Christos Ikonomou says, “It seems to me that the current political, economic and social crisis, despite the far-reaching consequences that it produced, was not accompanied by a moral rethinking, by the re-examination of our consciousness. I do not see many people around me who are willing, or are at least prone to ask themselves whether we truly are, on an individual and social level, what we would like to be, what we believe and demand to be, or not. I do not see many people asking themselves, in full honesty, if there maybe is a huge divide between the values and the ideas that we theoretically profess and promote and our current way of living. Nor did I see anyone question – practically, not verbally – at least some of the self-absolving lies, the incorruptible certainties and the stereotypes that we cultivated about ourselves and our relationships with others. Ultimately, I did not see anyone admitting, either, that the values, the principles and the ideas, as noble as they may be, acquire a practical meaning only when we strive to interiorise and assimilate them in our consciousness, when we try to bound our own existence to them. Because otherwise, they are just slogans. Catchy, flawless, topical, but still just slogans”.
Slogans that, once the crisis “ended”, got rapidly lost in the reinvigorated downward spiral of economic growth and recovery that, yet again, led to the emergence and later on the victory of those values, principles and ideas that little have to share with the democratic socialism of SYRIZA, but that are very in line with the nepotistic neoliberalism of the party currently ruling the country, Kyriakos Mitsotakis’ Nea Dimokratia (ND in short). By leaning on the (not too concealed) fascist fibres of the Greek social fabric and by unashamedly turning the weak and the oppressed into the scapegoat for all the evils brought about, paradoxically but not that much, by the (criminal) mishandling and manipulation of the government debt operated by Kostas Karamanlis’ ND (which led to Yiorgos Papandreou [PASOK] government who, realising the depth of the economic hole left behind by the previous government, opened the doors of the country to Europe’s austerity policies), Mitsotakis engaged in a clearly conservative and neoliberal political system, thus declaring war to current migration policies and de facto demolishing most of the assistance structures and networks established by the previous government led by Alexis Tsipras.
It is in this social and political context that, at the beginning of March, the first, hesitant references to a concept that, up until then, was far from the public debate’s spotlights, begin to develop in Greece: it was the beginning of the pandemic. We say hesitant, because up until the occurrence of the first outbreak on Greek soil, the country’s mass media were busy recounting the tales of other, more violent, outbreaks.
Before the media monopoly of COVID-19 (an interesting global phenomenon indeed), the Greek press was merrily following the latest developments of the migratory crisis on two fronts: the Greek-Turkish border by land and the one by sea. If, on the one hand, after giving the green light to the refuges held in his territory and allowing them to head toward the border, Erdogan had been (and still is, despite the lack of press coverage) accused of forcing those very same refugees to push ahead no matter what in order to increase the tensions with the bordering country (as witnessed by many sources), on the other hand, the ND government had decided to breach the European law on migration (as done by other Member States in the past) by closing down its doors to any asylum-seeker coming from Turkey and sending most of its police forces to the border (a measure endorsed, de facto, by the President of the European Commission, Ursula von der Leyen, who approved a €700 million funding for the defence of the European “shield”, sending as well armed forces to help in this newly legal and humane “migration management”). At the same time, the inhabitants of Chios and Lesbos, in the eye of the migratory storm from the get-go, had begun a process of self-organisation and resistance against the government’s plans to increase police presence on the islands with a view to create new migrant camps, pushing back also violently the disembarkation of armed forces. Once the virus struck the country, however, any news outlet that refrained from relentlessly publishing numbers over numbers of infections, deaths and recoveries disappeared from the scene, and suddenly, no one knew anything about those human beings at the borders.
Σήμερα
In public spaces, Greek people are contradictory. It is hard for foreigners to suspect this, also because in the collective imagination of western Europeans, Greek citizens are all smiles, friendliness, attentiveness and feasts. Amongst themselves, however, Greeks can be rather rude, belligerent or straight out hostile. Especially in the big cities, especially in those places that became, due to the current lockdown policies, the few, if not the only, spots where to meet and, eventually, tear each other to pieces. This hostility, this mistrust, is deeply rooted and harks back to that exquisitely Greek expression of ωχαδερφισμός (ochaderfismos), a couldn’t-give-a-damn attitude inoculated from birth and weaned with years of all-round corruption, uroboric bureaucracy and legal laxity, that translates into tragicomic scenes of utter urban jungle where mangling each other is the norm and, at the same time, grouping up is mandatory when the meat they want to chew up on is that of the State.
Nevertheless, we should not abandon ourselves to simple moralistic critiques, because it is situation, here as in other places and other times, that makes the thief. And the situation, in Greece, is tragic. “If you are a self-employed worker (as 35% of Greek people are), social security contributions grow every year regardless of your real income – in 2018 this law was replaced by a regulation providing for the institution of a system based on the real income. In Greece, where the minimum wage is €684, I used to pay about €400 per month only for social security contributions. Then, you had to pay in advance for the VAT, regardless of whether your clients had paid you or not. When the system is wrong and irrational, people will always try to work its way around it”, says Rachel Howard, a British journalist bred in Greece.
As if all this was not enough, here is another functional example of this systemic short-circuit: where in other countries corruption is a synonym of politics, here, in the homeland of Hippocrates, the term is indigenously called φακελάκι (fakelaki) and should be positioned in the deep pockets of a hospital gown, no need to be shy about it. Due to the crisis, but also because of decades of neoliberal policies made of budgetary cuts, privatisations and lack of control mechanisms in the health sector, which lost the astounding number of 2.5 million users from 2009 onwards (WHO data), the exceptional bribe (the aforementioned fakelaki) given to gain quick access (or, in some cases, just access) to the operating room or at least to the doctor’s office, has become the norm. Criticised, pointed at, scorned and demonized, but then always handed out (€2.009.602 in bribes, as stated by the website www.edosafakelaki.org, which collects anonymous reports and, thus, brings to light only a small part of this underworld) by those who, lacking resources or basic medical coverage, cannot pay for one of the many private clinics of the country.
All of this, before the advent of the well-known coronavirus. In a country that turned itself in Europe’s holiday resort in order not to crumble, where the government debt keeps increasing after the (forced) sale of the State’s assets to the “best” buyer and the ruling party’s priorities are not even close to the people’s needs, starting from March 23, 2020, the mandatory isolation of Greek citizens for national security reasons took place. Following almost verbatim the ill-fated Italian Prime Minister’s Decrees, Mitsotakis’ government implemented the same draconian measures of its “cousin” state (self-certification included), sparing its citizens from the detrimental prohibition to perform outdoor activities that has plagued Italy’s and Spain’s societies.
Keeping in mind all of the aforementioned contradictions, the reader may already imagine the theatrical genre that will take over Greek society at all levels in the following months: the tragicomedy. If it is true that Greek people, divided by mistrust, thin out their differences when they have to face the common enemy (aka the State), what happens when the Leviathan itself forces citizens to stay together, each in his/her own house? From the beginning of the quarantine and until May 4th (when Phase 2 of the government’s plan against COVID-19 shall begin), Plato’s descendants were forced to face the plethora of personal and social problems they had before the virus on their own, losing that face-to-face quality that so much differentiates them from other people. As a matter of fact, and as yet another proof of this dormant contradictory nature of theirs, Greek society is extremely convivial and its members have a bubbly social life: from the University student to the octogenarian, Greek people spend on average more time outside the “safety” of the domestic walls than inside. Needless to say, after the introduction of the total isolation measures, those who would roam the streets looking for confrontation, comfort and participation are now forced to face their own ghosts (and, by media extension, the ghosts of the whole world) within the limits of a room that turns out to be very different from the idea of home we had before the virus.
But this situation did not last long and after but a few weeks, Greek people shook off the numbness and began (or simply continued) to take possession of the public spaces denied to them and to create new ones. In the small street I live in, in Thessaloniki, the buildings are clumped up together, shoulder to shoulder as if comforting each other (or pushing each other away, depending on the time in history), becoming the best breeding ground for a new (ancient) type of remote sociality that was quickly mastered by my old neighbours. Where the young ones focused on physical activity in order to get of the house, the elders discovered yet again the joys of chitchatting from the windows, the balconies and the shared spaces within the buildings, transforming at times those dull and grey terraces that catch the eye of the first-timers in Greece into hanging squares filled with plastic chairs for a more relaxed gossiping session.
Little by little, social distancing lost its edge, becoming a mere physical distance. Social networks and occupations that are still present all over the territory worked as tools to those who used them for re-discovering a sense of unity (in mistrust) against the State, whipping themselves up against the economically and socially suicidal measures of Mitsotakis’ government, who was quick to abandon the weakest elements of the population that were living in insecurity long before the advent of COVID-19. The brunt was bore, as always, by the unemployed, the less wealthy, the artists and all those professional categories that do not translate directly into profit in the eyes of neoliberalism, which remained naked in front of the manmade storm for too many weeks and which are bound to surely face hard times in the coming (are they?) times of “normality”.
In copertina: Atene, Festa del 1° Maggio.
To be continued… on May 6, 2020: https://www.theblackcoffee.eu/report-dalla-grecia-seconda-parte/