martedì, Dicembre 03, 2024

Ambiente, Società

Terra delle mie brame: il caso Valpolicella

Discorrendo con Gabriele Fedrigo

di Laura Sestini

Gabriele Fedrigo è originario di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, ed oltre ad aver pubblicato altri interessanti volumi sui protagonisti della filosofia, e sui quesiti umani dell’età contemporanea, da qualche anno ha intrapreso un percorso di denuncia etico-filosofica, una resistenza percettiva – come lui stesso la descrive – sullo stravolgimento del territorio della sua amata Valpolicella.

Da poco in libreria, la sua ultima pubblicazione Terra delle mie brame: il caso Valpolicella – con la prefazione di Tomaso Montanari, storico dell’arte, nonché Rettore della Università per Stranieri di Siena – descrive, attraverso un registro di scrittura e lessico elevati ma allo stesso tempo chiari e non raramente ironicamente amari e diretti, cosa si compie da decenni nell’area geografica della Valpolicella attraverso il processo di mercificazione del territorio operato da attori capitalisti neoliberisti che, con la complicità (spesso ignorante o indifferente) delle amministrazioni comunali, invadono e si appropriano di parti di storia locale, ambienti naturali, paesaggio.

Montanari, nella sua breve ma intensa prefazione scrive: “Libri così potrebbero e dovrebbero essere scritti per il Chianti o per Firenze, per Venezia o per la costa del Salento. Cosa abbiamo fatto in una o due generazioni, al giardino del mondo?” Una frase che perfettamente sintetizza le puntuali argomentazioni che Fedrigo riporta sul suo saggio, che anche contiene prove documentarie o riferimenti ad esse, fotografie, e molte note a fondo pagina a completamento dei dettagli sul discorso principale.

Il fenomeno della mercificazione dei territori, da cui neanche i Parchi naturali sono esenti, come riportano le righe di Fedrigo, é un processo legato piuttosto alle economie ed alle politiche locali, ma anche nazionali, spesso cieche (o fingendosi tali) di fronte alle loro delibere di piani di ristrutturazione urbana e territoriale. Nel caso della Valpolicella il valore economico del territorio afferisce al mercato del vino, delle colture intensive a vigna, e di tutto l’indotto ludico-turistico.

In questi giorni alla Fiera di Verona si svolge la 56° edizione di Vinitaly, il quale slogan è “World wine bussiness since 1967” a cui non c’è da aggiungere altra spiegazione o traduzione, tanto esprime da sé il vero hard core del comparto. Molti grandi produttori blandiscono retoriche di sostenibilità e rispetto dell’ambiente per attirare nuovi acquirenti, ma spesso a conti fatti, ciò non è altro che fumo negli occhi per chi non vuol vedere o sapere. I vigneti industriali non potrebbero mantenere le quantità da produrre, da smerciare all over the world, se non usassero pesticidi in abbondanza, benché a norma di legge.

Terra delle mie brame: il caso Valpolicella è senz’altro una lunga riflessione sul destino, non solo di qualche territorio italiano specifico, ma del futuro di tutti noi; un volume che non può lasciare il lettore indifferente su quanto accade ai nostri ambienti naturali, paesaggi e borghi, sempre più stretti dentro logiche di falsa apparenza estetica, di sfruttamento dei territori e di profitto economico per pochi imprenditori, a discapito dei cittadini che in quei luoghi vivono e che pochi strumenti hanno per contrastare “l’autodistruzione avvertita come benessere“- come riporta Fedrigo dalla videoricerca Apocalypse Wine.

Un libro-saggio (sia inteso come tipologia, che come attributo) che ci è parso subito valevole di lettura, che offre spunti potenziali anche per riflettere sul proprio stile di vita.

Lei ha scritto più di un volume sul territorio della Valpolicella, sulle sue trasformazioni paesaggistiche, la sottrazione dell’ambiente naturale alle persone, la cementificazione, lo sfruttamento industriale. Quando ha percepito che qualcosa non andava? C’è stato un episodio preciso che le ha dato modo di “aprire gli occhi”?

Gabriele Fedrigo: – Con Terra delle mie brame: il caso Valpolicella (2024) sono al mio terzo lavoro su quanto è accaduto e sta tutt’ora accadendo in Valpolicella. Scrivere sul territorio in cui si è nati non è mai semplice, almeno non lo è per me. E non lo è appunto perché in quel territorio ci siamo nati. Nel bene e nel male, che lo voglia o no, da esso mi sono fatto nutrire e plasmare, non solo materialmente, ma anche culturalmente e spiritualmente. E se lo spirito è infetto dall’ideologia corrente, se i valori che esso propina sono malati (di una malattia che qui conoscono tutti e che in pochi riescono a riconoscere come tale), allora più che piangermi addosso per sentirmi parte di questo tutto malato che mi circonda, ho preferito cercare un modo per non morire anzitempo di questo morbo. La mia terapia è stata ed è la scrittura. Scrivere per dare testimonianza, per rompere la cortina di silenzio che circonda la sempre lodata operosità veneta, che qui, in Valpolicella, si è ingoiata e si sta ingoiando il paesaggio e i cervelli di quella gente incapace di uscire dall’ossessione del lavoro, del profitto, della produttività. Un territorio veicola sempre e in continuazione i valori che lo hanno fatto essere quello che esso è. Noi siamo imbevuti di quei valori. Mettere in discussione questi valori, giudicarli, disfarsene, non è una questione di giorni, ma di anni. E non sempre ci si riesce. Eppure sono proprio questi valori, materialmente veicolati dal territorio, che condizionano il nostro agire, il nostro stesso sentire, il nostro pensare. Quando ho “aperto gli occhi”?… Le voglio raccontare questo: i miei genitori erano contadini. Lo erano tutti in Valpolicella prima che arrivasse l’industria. Ma quando sono venuto al mondo, nel 1967, il loro esser contadini era già entrato profondamente in crisi per via dell’imporsi di valori legati al rampantismo del turbo capitalismo italiano in salsa veneta che anche qui in Valpolicella stava facendo piazza pulita del mondo valoriale contadino, e con quel mondo il territorio che ne era l’incarnazione. L’imperativo categorico era (ed è) il tristissimo far schèi, in barba a tutto e a tutti. Far schèi a tutti i costi! Anche a costo della propria salute fisica e mentale; anche a costo di arrivare allo scasso ambientale e paesaggistico e al baratro umano di un vivere insieme retto da meri scambi basati sul calcolo d’interesse in cui è piombato il Veneto dei capannoni, dell’agro-industria, dei PFAS, delle pedemontane, delle grandi navi in Laguna, di una pista da bob inutile per le prossime Olimpiadi probabilmente senza neve, che non sia quella sparata dai cannoni… Di questo Veneto del far schèi lo scrittore Vitaliano Trevisan è stato il più implacabile demistificatore. Non la prenda come una provocazione, per capire a cosa siamo arrivati dalle mie parti, Trevisan lo si dovrebbe far leggere a scuola come si fa con Dante e Manzoni. Allora per tornare al mio ricordo, quando frequentavo le scuole del mio paese (Negrar) e mi si chiedeva la professione dei miei genitori, mi vergognavo di dire che mio padre era contadino e mia madre casalinga. Da dove veniva quella vergogna? Da qualche parte sarà pur venuta… Eppure era quella vergogna di appartenenza al mondo contadino che proiettava in me il proprio film. E di questo film intitolato Far Schèi faceva parte anche la mia vergogna… Nessuno avvertiva nella propria testa l’incessante funzionamento dell’imperativo del far schèi tanto era assordante… Ha presente il film Matrix di Wachowksi? C’è una scena in cui Morpheus dice a Neo: E’ tutta la tua vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti, è un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. Quando uno è in Matrix non sa neppure di esserci dentro… Far schèi in Valpolicella e in Veneto, questo Veneto alla deriva di se stesso e della sua storia, è il film che va per la maggiore nella testa della gente, anche in quella che dice di no, quella che pensa di essere fuori dal giro. Far affari… non importa di che cosa… Altro che rispetto per ambiente, paesaggio, bellezza. Basta guardarsi intorno per rendersene conto. Da ragazzino non avevo ancora la forza di capire la mia vergogna. La vivevo come l’aria che respiravo. Nel frattempo però vedevo sparire sotto una coltre di cemento i campi del paese (Negrar); vedevo l’assalto alle colline, un assalto violento e ingordo da parte di un’edilizia scriteriata; vedevo spuntare i capannoni industriali dove c’erano campi; vedevo nascere i nuovissimi campi di vigne su colline stravolte dalle ruspe… Questo vedere non mi lasciava inerte. Mi lavorava dentro. Mi faceva male. Dalla mia parte sentivo però di avere due fortissimi alleati: amore e sete di e per la bellezza. E’ stato questo amore che mi ha aperto gli occhi e che ancora oggi mi spinge a scrivere e a denunciare quanto di più mortifero per la salute e per la bellezza produce sul territorio e sul paesaggio l’attuale economia del vino, del cemento, del marmo, ecc… Perché, come per la malattia del far schèi, che qui però scambiano per salute, allo stesso modo, non riesco a vedere in ciò che si costruisce altro che distruzione, naturalmente a norma di legge. L’alleato più forte di questa distruzione si chiama appunto legge. In Terra delle mie brame mi ostino a vedere scasso dove altri vedono il contrario. Nel mio lavoro cito una frase che riassume benissimo quanto detto finora: “l’autodistruzione avvertita come benessere”. La battuta è tratta da Apocalypse Wine, un’importantissima video ricerca di denuncia realizzata nel 2022 dagli studenti dell’Istituto superiore Luciano Dal Cero di San Bonifacio (Verona), guidati dal professor Simone Gianesini, sul massacro dei boschi dovuto all’attività vitivinicola nella Valle d’Alpone. Lo ha visto?


Casa Prunea (Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella), di proprietà privata ora in stato di grave abbandono
Foto: Archivio G. F. (tutti i diritti riservati)

Può spiegare cosa accade esattamente in Valpolicella, esteticamente e naturalisticamente?

G.F.:- In Terra delle mie brame ho cercato di analizzare lo stato in cui versa il paesaggio della Valpolicella focalizzando l’attenzione non sono solo sui danni provocati dal virus edilizio della negrarizzazione, ma sui danni sempre più gravi dovuti alla brama delle aziende vitivinicole, soprattutto le più potenti, che hanno stravolto con impattanti vigneti industriali il paesaggio rurale della Valpolicella. Tanto che i lembi di campi che si sottraggono a questa logica produttivistica ormai non si trovano quasi più. Brama che si è e si sta attualmente incarnando nella costruzione di alieni e alienanti fabbricati del vino, spacciati per cantine, che per dimensioni e per qualità dei progetti non hanno nulla da spartire con la storia della Valpolicella. La scintilla che ha acceso la mia scrittura è stata infatti la costruzione del nuovo impattante fabbricato del vino del gruppo vitivinicolo Masi Spa nel Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella, battezzato dalla committenza Monteleone21. Questo ennesimo fabbricato, ma altri ne verranno, è la punta dell’iceberg di un modo di considerare il territorio della Valpolicella come mero supporto a una attività economica, qual è appunto quella del vino, basata fondamentalmente sul petrolio e sulla chimica (dai fitosanitari ai nitrati di azoto…), alla faccia di chi si vanta di essere sostenibile. Ma di quale sostenibilità stiamo parlando? E così man mano che la speculazione edilizia intaccava violentemente la trama storico-estetica della Valpolicella, di pari passo avanzava un’aggressiva industria del vino. Industria che, per come la vedo io, ha fatto morire la cultura contadina a tutto vantaggio di un modo di considerare la terra come mero strumento di massimizzazione del proprio profitto e di guadagno anziché come bene comune da rispettare, conservare e da destinare al futuro. E così, per non darla vinta alle forze che si sono incarnate nel territorio e che lo stanno conducendo verso il nulla, appoggiando la mia argomentazione sulle spalle del filosofo francese Michel Foucault, ho deciso di esplorare una possibilità di contro-canto e di contro-condotta: la resistenza percettiva. Che è tanto esercizio con cui dis-imparare a vedere ciò che vediamo come un va-da-sé che le cose stiano proprio così come sono, quanto atto di impegno civile perché questo modello di conduzione strumentale e tecnologica della terra trovi un ostacolo alla propria continuazione. Ciò che ho cercato di esplorare è la possibilità di percorrere una via altra, che faccia del nostro stesso corpo un corpo di resistenza agli scempi paesaggistici causati dalla speculazione edilizia, dall’industria del vino e dallo story-telling del marketing, che fa del vino un dio, dei produttori i suoi nuovi sacerdoti e dei fabbricati del vino le nuove chiese. La mia resistenza percettiva è soprattutto resistenza a ciò che noi stessi siamo diventati, cioè al nostro essere strumento di consumo per il profitto altrui e di autoalienazione di noi stessi…

Il caso Valpolicella si ripresenta similmente in altri luoghi d’Italia: tutti quelli dove si può mercificare il territorio?

G.F.: – La mercificazione del territorio è lo specchio della mercificazione della nostra esistenza. C’è qualcuno che se ne possa chiamare fuori? Ci sono forse territori in Italia che si siano salvati? Pensiamo, per fare l’esempio più eclatante, a quanto è avvenuto e sta avvenendo in Val D’Orcia e la sua trasformazione in villaggio turistico, così come denunciato nel giugno del 2023 da Alessandro Calvi. Il ristoro sorto in prossimità della cappellina di Vitaleta che cosa ci dice? Nel mio lavoro sostengo che il paesaggio che giudichiamo a sua volta ci giudica. E giudica proprio ciò che esso manifesta e mostra di noi: atomizzazione, parcellizzazione e zonizzazione di una esistenza succube di un sistema che considera la stessa esistenza merce di scambio: lavoro alienato in cambio di consumo, non importa di che cosa, anche di paesaggio. Non si tratta di un gioco di proiezione che parte da me, esce da me e si cristallizza in ciò che è fuori di me. Ma è ciò che è fuori di me, per come esso è, per come lo abbiamo miseramente ridotto, per le ferite che esso porta, che parla di me/di noi. Neppure i Parchi Nazionali si sottraggono a questo processo. E non per le ferite che essi portano materialmente (benché ce ne siano), ma per le ferite che essi sono chiamati a curare, cioè per il desiderio di fuga da contesti urbani e ibridi (come quello in cui si è ridotta la Valpolicella) che essi sono chiamati a soddisfare. Insomma, tanto più ci sentiamo fuori posto nel paesaggio in cui non ci riconosciamo più, quanto più forte è il desiderio di fuga da quello stesso posto anche se una fuga del tutto immaginaria. Un desiderio che però muore nelle camere della nevrosi se non si trasforma in presa di coscienza di voler rompere le catene che ci costringono a sentirci fuori posto, in perenne fuga da noi stessi, in perenne ricerca di un posto dove sentirsi in armonia con tutto ciò che ci circonda, uomini inclusi. Imparare a resistere percettivamente è appunto un rimettersi in cammino per fare di tutto ciò che il paesaggio rimanda di negativo in termine di attentato alla sua bellezza, un campo di esercizio dove forgiare uno sguardo altro: uno sguardo dissidente, che non fa più sconti al percepire gregario in cui siamo piombati, che non si concilia con ciò che lo circonda, uno sguardo da dis-adattati

Mercificazione del territorio significa anche “venderlo” al turismo mordi e fuggi. Ha mai riflettuto sul fregio de I Borghi più belli d’Italia? Se è vero che da un lato il turismo può migliorare l’economia di un piccolo Comune (in verità solo di chi ha attività commerciali, salvo tassa di soggiorno), altrettanto è reale che la vita dei residenti del borgo, per alcuni mesi all’anno e talvolta l’anno intero, viene stravolta nei suoi abituali ritmi, nei rumori diurni e notturni, nelle attività pratiche quotidiane, banalmente stare più a lungo in fila al panificio

G.F.: – Lo sa che anche qui in Valpolicella c’è uno dei Borghi più belli d’Italia? E’ San Giorgio di Valpolicella. E’ nella lista dei ‘salvati’ (la chiamo così) dal 2016. Si trova nel Comune di Sant’Ambrogio di Valpolicella. Lo stesso Comune dove è in costruzione Monteleone21 della Masi Spa….E vuole saperne un’altra? Nell’ultimo Consiglio Comunale del 29 marzo 2024 l’amministrazione uscente di Roberto Albino Zorzi (centro-destra in carica dal 2019) ha adottato un P.A.T. (Piano di Assetto del Territorio) che prevede, fra gli altri, un ulteriore consumo di suolo per 120.000 metri quadrati (ma non è detto che, a partita chiusa, non siano molti di più, come sa l’urbanistica è l’urbanistica…) e, a dimostrazione dell’amore di questa amministrazione per l’ambiente, una nuova pista ciclabile nella bellissima oasi di protezione faunistica di Ponton, lungo la riva dell’Adige. Vede a che cosa può servire l’etichetta “I Borghi più belli d’Italia”? L’amministrazione Zorzi vanta di avere in casa uno dei borghi più belli d’Italia. Ma nella realtà delle cose, a P.A.T. adottato, il borgo lungi dall’essere la carta d’identità di una politica locale del territorio volta a una reale tutela del suolo, del territorio, del paesaggio, da cui il borgo nasce storicamente e da cui è nutrito, ma diventa la bella foglia di fico da far mangiare a turisti (e non solo) che di quel contesto in cui il borgo è radicato forse nemmeno sanno l’esistenza, abituati come sono a una percezione che ha perso la capacità di relazionare il particolare al tutto e all’orizzonte… Con “I Borghi più belli d’Italia” funziona come per le belle etichette incollate sulle bottiglie di vino… Che cosa nascondono quelle etichette? Eppure sono così belle a vedersi… Ma che valore ha quella bellezza confezionata se dietro a essa si celano sbancamenti collinari, vigneti industriali, fitosanitari e via di questo passo? Siamo sicuri che l’etichetta “I Borghi più belli d’Italia” non faccia subire alla bellezza di cui i borghi si fanno messaggeri una distorsione semantica tanto da renderla una finzione e una menzogna a cielo aperto? Sì, perché se andiamo a indagare ciò che quella bellezza nasconde e produce come effetti collaterali o di come essa può essere strumentalizzata e sfruttata, scopriamo che essa non può essere altro che ipocrita. E così mi mette tristezza leggere lo storytelling riportato nel sito internet dell’Associazione “I Borghi più belli d’Italia”. Come triste è essere arrivati al punto di dover redigere una “Carta di Qualità” per far sì che un borgo possa essere ammesso alla lista dei ‘salvati’. Ma mi chiedo, serve un DOCG anche per il nostro patrimonio di arte, di storia, di cultura? Ed è ancora più triste farmi prendere dal bavero della retorica dell’eccellenza, della lentezza, di un tempo fuori dal tempo, dell’avvicendarsi delle stagioni, della genuinità e amenità varie, propinata dal sito dell’Associazione. Così come non sopporto farmi passare da turista che sono mio malgrado come un “azionista della Bellezza”. Ma stiamo scherzando? Come se i borghi più belli d’Italia fossero titoli da quotare in borsa o fossero per davvero delle oasi paradisiache esenti dalla profonda alienazione in cui continuamente viviamo. Un’alienazione che per chi ha la fortuna/sfortuna di abitare in uno di questi borghi più belli d’Italia non fa che esacerbare, messo/a/* com’è nella condizione di dover sopportare un turismo di massa sempre più volgare e onnivoro… Mi permetta di chiudere tornando al caso di San Giorgio di Valpolicella. Ci torno per amore di verità di una bellezza altra, non di quella frutto di aggressioni al territorio. Prima che il nostro borgo fosse iscritto alla lista dei ‘salvati’, la precedente amministrazione retta da Nereo Destri, di cui Roberto Albino Zorzi era assessore all’urbanistica, fece pavimentare la piazza di San Giorgio. E quella bella pavimentazione chi la pagò mai? Una società immobiliare! Siamo in Veneto o no? Nulla di illegale, ci mancherebbe! E un P.I.R.U.E.A. (Programma Integrato di Riqualificazione Urbanistica, Edilizia e Ambientale) è sempre un P.I.R.U.E.A… E fu così che un campo di vigne passò a area edificabile… Ora quel campo non esiste più. La variante, naturalmente, mica poteva essere gratuita! Ci ha pensato la pavimentazione a regolare tutto. E i turisti? Loro che ne sanno di varianti, di P.I.R.U.E.A. e di cementificazione del campo? Passeggiano sulla piazza ignari di tutto, godono della sua bellezza, bevono lo storytelling immersivo di trovarsi in uno dei borghi più belli d’Italia… C’è un bel libro che le consiglio per capire dove siamo arrivati con questa storia dei borghi più belli d’Italia. E’ un volume collettaneo pubblicato da Donzelli nel 2022. Il titolo dice già tutto: Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi.

Le amministrazioni comunali non sono sensibili alla protezione, con più accezioni del termine, dei propri territori?

La copertina del volume – Libreria Editrice Fiorentina (2024)

G.F.: – Troviamo in Italia un’amministrazione che non sia sensibile alla protezione del proprio territorio? Lo sono tutte! Lo sono a parole e anche sulla carta. Infatti le narrazioni raccontate dai PAT sono sempre quelle, da Nord a Sud Italia. Sempre la stessa nenia: sostenibilità, tutela, valorizzazione, ecc. Sembra quasi che i PAT e i Piani territoriali paesistici regionali siano uno il copia-incolla dell’altro. Dopo, non si sa perché, oppure lo sappiamo, lo sappiamo così bene che non ci facciamo più caso, tanto che sintomo di questo non farci più caso è smettere di andare a votare, ci troviamo a vivere in un paesaggio offeso e umiliato; un paesaggio la cui storia materiale parla il linguaggio del far schèi, dell’affarismo e di “un’urbanistica contrattata” che ha soggiogato l’agire politico a scapito degli interessi delle comunità.

E a livello regionale/statale? Quale modello di salvaguardia del paesaggio, della natura e del benessere dei cittadini, si dovrebbe attuare per invertire la tendenza?

G.F.: – L’unico modello di salvaguardia del paesaggio, della natura e del benessere dei cittadini si chiama decrescita dei consumi, decrescita energetica, uscita dal sistema neoliberista attuale, smantellamento della logica di sfruttamento delle risorse a tutti i livelli, riduzione della nostra impronta ecologica. Il che vuol dire cambiare radicalmente il nostro stile di vita e di consumi. Non ci sono alternative. Impossibile pensare che ciò sia appannaggio di chi ci governa. Impossibile! Chi ci governa è piegato a una economia della crescita che ci sta portando dritti all’auto-distruzione. Per la cura del nostro paesaggio penso che in questo momento il passo più importante da compiere a livello nazionale sia l’approvazione urgente della legge di contrasto al consumo di suolo e l’approvazione altrettanto urgente di piani regionali di localizzazione per una transizione energetica sganciata però dall’attuale logica della crescita, pena la copertura dell’Italia di impianti fotovoltaici e di impianti eolici (e ancora non basterebbe). Dobbiamo scongiurare in nome di un’altraeconomia lo “sterminio dei campi” di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto; sterminio che l’attuale PNRR sta ‘regalando’ agli italiani.

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https://www.youtube.com/watch?v=A0yq8OJ2Qp8 (dal minuto 30.44 si può visionare il rendering di Monteleone21).

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Sabato, 13 aprile 2024 – Anno IV – n°15/2024

In copertina: Comune di Negrar di Valpolicella – colline di San Peretto – Foto: Archivio G.F. (tutti i diritti riservati)

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