venerdì, Novembre 22, 2024

Economia, Italia, Politica

Abbigliamento a costi stracciati?

Il prezzo non include il sudore dei lavoratori del settore tessile

di Laura Sestini

Va avanti da oltre 40 giorni lo sciopero e la vertenza dei lavoratori della Texprint S.r.l. di Prato, una stamperia tessile che lavora anche in appalto di altre aziende.

Le rivendicazioni dei dipendenti – italiani e stranieri – nei confronti dell’azienda, a conduzione cinese, sono di non rispettare il contratto nazionale di lavoro e di obbligarli a turni di 12 ore per sette giorni alla settimana. Inoltre, un presidio permanente – sostenuto dal sindacato SiCobas Prato e Firenze – va avanti da oltre 20 giorni davanti alla fabbrica, mentre la società ha chiuso ogni trattativa. Il 1° marzo la diatriba si è acuita: l’azienda ha chiamato le forze dell’ordine e due dipendenti, tra gli scioperanti, sono stati portati in questura a causa di un tentativo di ostruzione a un furgone che usciva dall’impianto, effettuato sdraiandosi per terra.

Da Prato a Scampia il passo è breve. Una cospicua comunità cinese si è insediata da tre decadi nella provincia napoletana. Qui, sartorie di ogni sorta sono state allestite in scantinati o capannoni sgangherati di periferie degradate, con lavoratori a cottimo, senza nessuna tutela, né in fatto di salute né di retribuzione e contributi previdenziali. L’ondata cinese, arrivata in Italia ormai trent’anni fa, in breve tempo ha messo in luce il fenomeno, soprattutto a livello di numeri, ma non occorre puntare il dito tentando di marchiare i piccoli imprenditori tessili arrivati dalla Cina, poiché – come vedremo – il fenomeno è trasversale a nazioni e nazionalità e riguarda pure le confezioni dei brand più famosi.

Con la crisi economica del 2008 e il crollo dei prezzi e della concorrenza, gli imprenditori cinesi hanno acquistato molte aziende tessili italiane, mettendo a busta paga alcuni degli stessi operai che – come nel caso attuale della Texprint di Prato – erano già dipendenti di imprenditori locali. Paese che vai modalità che trovi. I cinesi non cercano di discriminare gli italiani – nel rapporto di lavoro – poiché ben prima mettono ‘al giogo’ i propri connazionali. Prato risulta, difatti, la città con la maggiore percentuale di stranieri in rapporto al totale della popolazione su tutto il territorio nazionale. Dei 36.400 stranieri presenti sul territorio, circa il 50% è di nazionalità cinese. Oltre a questi, si stima che siano circa 10 mila quelli in clandestinità, cioè privi di permesso di soggiorno oppure entrati regolarmente e, a documenti scaduti, rimasti in Italia – i cosiddetti overstayer.

A sostegno di quanto appena descritto, possiamo ricordare il rogo sviluppatosi nel capannone tessile Teresa Moda, al Macrolotto di Prato – a dicembre 2013 – dove morirono ben sette persone, tutte di nazionalità cinese; quei poveretti, ben lungi dalla condizione di altri lavoratori italiani, entro quegli stessi locali trascorrevano la loro intera vita, schiavi dei propri datori di lavoro e connazionali. Il carabiniere che fortuitamente passava di lì, e diede l’allarme, si trovò di fronte a una persona in pigiama che urlava terrorizzata.

Per parlare di tessile in Italia, non si può fare a meno di citare gli imprenditori cinesi, sia per quanto riguarda la mancata osservanza dei criteri minimi di sicurezza sul lavoro e di rispetto dei contratti nazionali, sia perché in Italia, in percentuale, sono la maggioranza degli imprenditori stranieri che hanno attività in questo comparto. Settore trainante anche in Cina. A Prato, a settembre 2015, risultavano 8.797 imprese straniere registrate – la più alta incidenza percentuale (circa il 26%) in rapporto alla popolazione, rispetto alle altre province italiane. Il 67,3% di queste era gestito da cittadini di nazionalità cinese e oltre il 70% era impiegato nel tessile, prevalentemente nel settore delle confezioni.

Secondo il centro SATIS (Sistema antitratta toscano interventi sociali): “Prato è un territorio a rischio di diffusi fenomeni di sfruttamento lavorativo per la compresenza dei fattori che agevolano il fenomeno, ovvero il radicamento di un settore d’impresa che non richiede un elevato livello di specializzazione, come le confezioni, e la rilevanza numerica della comunità straniera in condizioni di illegalità o disagio”.

Naturalmente molti cinesi si sono messi in regola, altri lo saranno stati fin da subito, ma appena ricompare la crisi economica (che non si era mai risolta del tutto dal fatidico 2008) – questa volta a causa della pandemia – tornano allo scoperto le stesse dinamiche. L’unica differenza attuale – con l’aumentare delle differenti nazionalità presenti in Italia – è data dalla multietnicità dei lavoratori tessili, tutti sfruttati alla stessa maniera, con particolare incidenza su africani e pakistani, che risultano gruppi particolarmente vulnerabili. Tra i generi, poi, le donne sono sempre coloro che subiscono i trattamenti peggiori – fenomeno trasversale a tutti i Paesi – con salari inferiori ai colleghi uomini e maltrattamenti fisici – anche sessuali.

“Le donne in Bangladesh non parlano di violenza e molestie, questi sono argomenti tabù. Questo è il motivo per cui ci sono così tanti casi non documentati di attacchi violenti, anche sul posto di lavoro. Gli insulti e le aggressioni sessuali sono così comuni nelle fabbriche che spesso né i lavoratori né la direzione lo vedono come un problema”, racconta Kalpona Akter, attivista del lavoro BCWS – Bangladesh Center for Workers Solidarity – nel Paese asiatico.

Se la pandemia ha generato un fenomeno di ritorno dei cinesi-pratesi verso la Cina, la questione dello sfruttamento e del lavoro in nero permane, e anzi si amplia nelle stesse modalità su nazionalità diverse. Nel 2018 il Tribunale di Napoli ha condannato per la prima volta in Italia degli imputati bengalesi per sfruttamento lavorativo a carico di alcuni loro connazionali attirati in Italia – dopo essere stati reclutati in Bangladesh – da un cittadino bengalese che approfittava della sua fama di ‘imprenditore’. I malcapitati erano soggetti a spese fino a 12 mila euro per ottenere i documenti di viaggio e i relativi permessi di soggiorno che, al contrario, non ricevevano mai quale forma ricattatoria. Una volta in territorio nazionale erano sottoposti a turni di lavoro lunghi 16 ore – vitto e alloggio compresi – per una retribuzione variabile fino a 300 Euro.

Tutti questi fatti, dai quali non sono esenti gli imprenditori italiani, evidenziano che i prodotti che hanno prezzi super-economici sono – nella maggioranza dei casi – frutto di lavoro nero che preclude la dignità umana dei lavoratori. Questo parametro non vale, però, per brand famosi, che nonostante remunerino con bassi salari, praticano politiche di marketing multimiliardarie e prezzi medio-alti per i loro prodotti di lusso.

Scheda di trasparenza del marchio italiano Gucci, tratta da Fashion Checker.

Da questi processi di sfruttamento del lavoro non sono, quindi, esclusi neanche i grandi brand, compresi i marchi italiani, che su specifiche richieste – a proposito delle loro filiere produttive – non rispondono con trasparenza.  A contrasto della speculazione sulla forza lavoro del settore tessile, esiste un’iniziativa internazionale, Clean Clothes Campaign – della quale Campagna Abiti Puliti è l’ala italiana – che permette la consultazione online dei dati di molte aziende conosciute e brand planetari, relativi a come producono le loro merci, la sostenibilità del lavoro dei dipendenti e l’intera filiera.

Molti grandi marchi producono in Estremo Oriente o nei Paesi dell’Europa dell’Est: la dislocazione del lavoro, rispetto ai Paesi dove si trova la sede originaria, permette di risparmiare sui salari, sulle tasse, e soprattutto sulla salute dei lavoratori e sul rispetto dei diritti umani, grazie a leggi meno aggiornate o perfino inesistenti, e comunque sempre agendo sulla vulnerabilità di classi sociali al limite della soglia di povertà, e spesso al di sotto (e, quindi, attraverso una forma socialmente ricattatoria) – come può accadere tanto in Romania quanto in Bangladesh.

Scheda di trasparenza del marchio statunitense Levi’s, tratta da Fashion Checker.

Non abbiamo mai visto i dati sui pagamenti dei marchi, sui prezzi che pagano davvero – racconta una lavoratrice croata – il nostro titolare dice sempre che siamo in perdita e dovremmo lavorare di più”.

Le aziende spesso non pubblicano informazioni sulla loro filiera perché ciò significherebbe associare il marchio ai salari di povertà che ricevono gli operai”, afferma Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti. “Per questo motivo la necessità di avere dati precisi e aggiornati su tutto il ciclo di produzione e sui salari effettivamente pagati è ormai diventata urgente”.

Nel 2020, il report di Fashion Transparency Index riporta che solo il 35% dei marchi è trasparente sulla filiera di primo livello – su un campione di 250 tra i brand più grandi al mondo – mentre il sito è costantemente aggiornato da attivisti e lavoratori del settore, per dar modo ai consumatori di fare acquisti consapevoli.

Scheda di trasparenza del marchio spagnolo Zara, tratta da Fashion Checker.

When Rana Plaza collapsed seven years ago in Bangladesh, killing and injuring thousands of garment workers, people had to dig through the rubble looking for clothing labels in order to figure out which brands were producing clothes in one of the five garment factories operating in the building. Lack of transparency costs lives”. (“Quando il Rana Plaza crollò sette anni fa in Bangladesh, uccidendo e ferendo migliaia di operai tessili, i soccorritori hanno dovuto scavare tra le macerie alla ricerca delle etichette dei capi di abbigliamento, per capire quali marchi stavano producendo indumenti in una delle cinque differenti aziende operanti nell’edificio. La mancanza di trasparenza costa vite umane”, t.d.g. dal report di Fashion Transparency Index). Il crollo del Rana Plaza, un edificio di otto piani in un sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh, avvenne per cedimento strutturale il 24 aprile 2013. Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero quasi un mese dopo, contando 1.129 vittime, per la maggioranza donne.

Il mondo del tessile è molto vasto e trasversalmente ‘corrotto’, nei Paesi in via di sviluppo per mancanza di leggi adeguate e naturalmente per mano di imprenditori avidi e insensibili ma – purtroppo – tali deficienze etiche e sociali sono presenti, in alta percentuale, anche tra i marchi internazionali che avrebbero risorse a sufficienza per la tutela a tutto campo dei loro lavoratori. Quindi, fondamentalmente, lo sfruttamento dei lavoratori rientra in un problema di mentalità, di liberismo economico che non guarda in faccia nessuno, e di consumismo.

Anche i consumatori hanno infatti le loro responsabilità, spesso ignoranti in materia o, più facilmente, indifferenti. E questo sarà un altro nodo da sciogliere in futuro, indispensabile anche per la strategia ecologica tutta da rivedere in contrasto al climate change, di cui scriveremo in un prossimo articolo.

“Il settore della moda è a un bivio, dove una direzione conduce a un rapido aumento di responsabilità e consapevolezza che lo cambierà in vero leader del clima. L’altra direzione conduce, invece, su più promesse e committenze, ma senza reale impegno” (Liz Mac Dowell, direttore di Stand.earth, organizzazione ambientale che lavora sulle leggi, in Canada e negli Stati Uniti, a protezione dei boschi).

L’attacco delle forze dell’ordine ai lavoratori in sciopero della Texprint di Prato https://www.facebook.com/colpolfirenze/videos/260511642298935

Sabato, 6 marzo 2021 – n° 6/2021

In copertina: allestimento scenografico di un’edizione passata di Pitti Immagine Uomo – Foto ©Laura Sestini (tutti i diritti riservati).

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