Giornaliste faccia a faccia contro i Talebani
di Laura Sestini
L’ Afghanistan è considerato tra i Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti – congiuntamente a Messico, Somalia e Siria.
Se l’Afghanistan, bellissimo dal punto di vista paesaggistico, risulta molto pericoloso per la stampa – compresa quella staniera, che infatti lo diserta da tempo – lo è soprattutto per i giornalisti locali che criticano l’operato politico e la corruzione, mentre la professione va tramutandosi in una vera e propria missione, talvolta fino alla morte, per le giornaliste donne.
Difatti, queste ultime – parallelamente alla ‘impavida’ professione e soprattutto attraverso di essa – lottano per l’emancipazione di genere a tutto campo, dimostrando grande coraggio e fermezza negli intenti, nonostante la loro vita valga, agli occhi dei Talebani, meno della metà di quella dei loro colleghi maschi.
Ma nonostante la violenza perpetrata contro gli operatori locali dell’informazione, il corso universitario di Giornalismo nella capitale Kabul è molto apprezzato e seguìto anche dalle ragazze.
L’Afghanistan ha una storia recente molto travagliata, con 40 anni di guerra alle spalle.
Tutto inizia con l’occupazione dell’Unione Sovietica alla fine degli anni ’70 e il conflitto contro i Mujaheddin durato circa 10 anni, che vede infine questi ultimi insediarsi al governo ma con scarsa incisività, tantoché vengono sopraffatti dai Talebani nel 1996, i quali salendo al potere applicano la Sharia – la legge coranica – in maniera estrema. In quel periodo per le donne la vita si fa difficilissima. I Talebani saranno poi rovesciati a loro volta dagli occupanti statunitensi nel 2001 – subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Attualmente, la Repubblica Islamica dell’Afghanistan è guidata dal Presidente Ashraf Ghani (insediatosi nel 2014), ma i Talebani non hanno mai lasciato veramente il potere, tantoché a oggi controllano ancora 24 province su 34, ed il braccio di ferro tra le due fazioni politiche scandisce la vita quotidiana con moltissimi attentati alle istituzioni statali, senza esclusioni di colpi anche per le università e gli enti civili.
Gli atti terroristici quotidiani, perpetrati da musulmani fondamentalisti di corrente sunnita verso una popolazione a maggioranza musulmana, anch’essa della stessa corrente ma più moderata – dettaglio da sottolineare per chi ha scarsa memoria o strumentalizza politicamente gli attacchi in Europa – sono anche due o tra al giorno, sebbene passino sotto silenzio o la cui notizia sia un semplice trafiletto sulla maggioranza dei quotidiani italiani.
In questo contesto precario ed incontrollato, le donne – sin da giovanissime, attraverso i matrimoni forzati – sono la parte sociale che subisce maggiori violenze, dirette e indirette, e sono frequentemente oggetto di ricatto.
Del coraggio delle giornaliste in Afghanistan e delle modalità di libertà di parola – e di autoprotezione – in cui si muovono in loco, nonché delle associazioni femminili afghane che operano quasi esclusivamente in clandestinità, per timore di ritorsioni e uccisioni, se ne è discusso al recente Forum delle Donne Giornaliste Mediterranee – 5° edizione rigorosamente online – che si è tenuto dal 22 novembre al 1° dicembre, con la partecipazione di alcune giornaliste italiane, insieme alla rappresentante del Cisda – Coordinamento Italiano Sostegno alle Donne Afghane Onlus – e di altri professionisti dell’informazione radiofonica italiana. Gli interventi si sono concentrati sulle esperienze radiofoniche e il linguaggio di genere.
In effetti, è proprio attraverso le web-radio che svolgono il loro lavoro le impavide giornaliste afghane; medium – la radio – che protegge da occhi indiscreti e che, attraverso un modesto computer, può trasmettere i propri programmi da ogni luogo – corrente elettrica permettendo. Infatti, tra i tanti ostacoli al giornalismo – ma anche a tutte le altre attività quotidiane – in Afghanistan vi è il fatto che il collegamento elettrico è mediamente disponibile. Nella capitale, Kabul solo per quattro ore al giorno, il che obbliga a trasmissioni preregistrate, messe in onda quando sono disponibili le reti, sia elettrica che di Internet.
Alcune giornaliste si sono organizzate in gruppi per avviare proprie emittenti radiofoniche, quali Radio Sharzat oppure Naz Radio o Merman Radio – la prima stazione da Kandahar – così come una rete tv digitale tutta al femminile – Zan Tv.
La radio, in Afghanistan, oltre a un mezzo di informazione di genere ‘rivoluzionario’, contribuisce alla promozione sociale delle donne e – indirettamente – il potenziale pubblico maschile in ascolto poichè entrambi i generi, in presenza, hanno moltissimi limiti culturali e fisici.
Qui, la povertà di genere – dato che ci sono moltissime vedove di guerra con figli a carico – è elevatissima, così come l’accattonaggio e la prostituzione – mestieri antichi quanto il mondo – in un Paese perennemente alla deriva, con qualche milione di eroinomani e altrettanti mutilati a causa dei reiterati conflitti. Tutto ciò, nonostante le ricchezze del Paese, quali i grandi giacimenti di gas naturale e la maggiore riserva di rame al mondo. Oltre ai mercati illegali dell’eroina e al traffico d’armi che trasversalmente sono gestiti da molte mani – anche innominabili. La corruzione tra i funzionari statali e il potere non ufficiale è elevatissima; al contrario, l’alfabetizzazione della popolazione raggiunge solo il 28%, e, tra coloro che hanno ricevuto un minimo di educazione, le donne sono il 13%.
Il lavoro delle radio al femminile, in questo ambiente, è una boccata d’ossigeno anche se con molti limiti, legati – come abbiamo visto – al livello di istruzione dei cittadini afghani, di tutti i gap tecnologici, nonché dei mezzi economici per acquistare anche un semplice device dove ascoltare i programmi. E se tutto il circuito di informazione e di rivendicazione dei diritti civili delle donne è tanto necessario nei centri maggiori, ancora di più lo sarebbe nei contesti rurali o più lontani dalle città.
Le attiviste per l’emancipazione di genere, in gruppi, come l’associazione Rawa – la Revolutionary Association of the Women of Afghanistan costituitasi negli anni ’70 contro l’invasione russa, per i diritti delle donne e la democrazia (e da allora attiva sempre in clandestinità) – nonostante operino in un Paese senza una vera giustizia e leggi realmente applicate, non si perdono d’animo e, a piccoli passi, si aprono la strada. D’altronde non hanno molta scelta se l’alternativa è soccombere ai soprusi quotidiani e alla mancanza di diritti; per miracolo, recentemente circa 250 donne sono riuscite a ottenere la patente di guida, similmente alle loro consorelle in Arabia Saudita, mentre altre – sempre in anonimato – hanno legato la loro indipendenza fisica ed economica alla coltivazione comunitaria di zafferano, che di fatto le rende maggiormente degne di rispetto anche agli occhi dei mariti, spesso disoccupati o con stipendi miserrimi.
Insieme al percorso di indipendenza economica, attraverso l’aiuto di alcune studentesse che frequentano l’università, le coltivatrici di crocus da zafferano, stanno orgogliosamente seguendo un corso di alfabetizzazione.
La vita quotidiana è mediamente molto dura in Afghanistan: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per la società fortemente patriarcale e le regole arcaiche di convivenza tra i sessi. Le donne che decidono di prendere in mano la loro vita, e agire controcorrente, sono quotidianamente nel mirino dei Talebani. Ciò succede perché le donne stanno cominciando ad acquisire consapevolezza di se stesse, e questo si contrappone agli obiettivi di chi continua a sostenere la Sharia. Un esempio è Mena Mangal, uccisa nel 2019, in pieno giorno e in mezzo alla strada, da colpi di pistola in pieno volto. La stessa modalità riservata recentemente all’avvocatessa libica Hanan al Barassi, a Bengasi, dopo ripetute minacce sui social.
Mena Mangal era molto orgogliosa del suo lavoro di attivista e giornalista e sapeva bene di essere sotto gli occhi vigili dei Talebani. Come molte altre giovanissime era stata forzata al matrimonio, riuscendo a divorziare dopo 10 anni e subendo, a causa di questo, vessazioni e violenze dalla famiglia dell’ex marito. Difatti, al momento della morte, costui fu tra i primi sospettati. Anche lei aveva ricevuto numerose minacce tramite i social, che utilizzava per le sue campagne femministe, e nonostante le richieste di protezione non ricevette nessuna tutela dalle istituzioni. Nel 2019, insieme a Mena Mangal, in Afghanistan sono state uccise altre quattro giornaliste, mentre nel 2018 furono tredici.
Sebbene in Afghanistan ci siano stati dei cambiamenti dopo l’uscita dei Talebani dal governo, e alcuni passi siano stati fatti anche per il miglioramento della vita e per i diritti delle donne, quali la possibilità di studiare e ricoprire incarichi politici oltreché l’istituzione di un Dipartimento per gli Affari Femminili, le stesse continuano a essere accusate per crimini contro la morale ed i matrimoni continuano a essere combinati dalle famiglie. Quindi, in sintesi, nella vita reale non è cambiato quasi nulla.
Foto. Mena Mangal – giornalista afghana uccisa nel 2019 a Kabul