giovedì, Novembre 21, 2024

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Camminare rasente al muro

Ali Al-Baroodi – residente di Mosul – racconta la vita sotto Saddam, gli statunitensi e l’ISIS

Traduzione di Laura Sestini

Nota della traduttrice. Ali Al-Baroodi, l’autore del racconto che riportiamo per intero, si definisce prima di tutto fotografo, a cui fa seguire la carica di docente universitario. Seguo il suo profilo Twitter da quando si è unito al social, imbattutami casualmente su un suo post a proposito del Califfato Islamico in Iraq, nel 2017. Trovo che sia una persona molto onesta nei contenuti dei suoi post, oltre che impegnata socialmente. Sebbene abbia letto casualmente di questa sua esperienza, ho subito capito che valeva la pena tradurla per diffonderla a più persone possibile.

C’è un detto iracheno che si traduce come: camminare rasente al muro. Significa stare fuori dai radar. Stare lontano dai guai. Ma quando cresci in Iraq, come me, i guai hanno sempre un modo per trovarti.

Queste sono le circostanze all’inizio di giugno 2014. Era il periodo degli esami all’Università di Mosul, dove ancora insegno. Ricordo quel giorno come un giovedì, perché era il mio giorno feriale concordato per un lungo pranzo, completo di tè e narghilè, a casa di un caro amico (lo chiamerò Ahmad). Ma quel giovedì non c’era niente di normale nell’abituale incontro settimanale. Difatti Ahmad mi ha chiamato al telefono e mi ha messo in guardia: <<Non è sicuro nel mio quartiere>>, in riferimento a Mosul ovest. Era stato annunciato, infatti, il coprifuoco e migliaia di persone stavano correndo a casa.

Mosul cadde sotto l’ISIS pochi giorni dopo, il 10 giugno. Ricordo quel giorno, di come la tivù di Stato trasmise cartoni animati e altri programmi insignificanti, proprio come aveva fatto anni prima durante l’invasione statunitense del 2003. Tranne che, questa volta, ovviamente, gli invasori stavano combattendo un nuovo tipo di guerra.

Abbiamo appreso le notizie a frammenti. In primo luogo, c’è stata la ‘ritirata strategica’ delle forze irachene dalla nostra città. Poi, migliaia di persone sono sfollate dalle loro case. Erano principalmente i centri di Tamooz, Rifeaee e Najar. Le moschee hanno iniziato a trasmettere appelli urgenti per ospitare gli sfollati. Quando ho aperto la porta di casa, ho visto enormi pennacchi di fumo che si profilavano all’orizzonte. Le campane della chiesa sono rimaste in silenzio e gli altari rapidamente trasformati in tribunali dove le persone sarebbero state frustate per violazioni alle leggi dell’ISIS – come, per esempio, fumare sigarette.

Immagine dell’area dove si trovava la residenza dell’autore nel giorno che Mosul fu conquistata dall’ISIS, il 10 giugno 2014
Foto di Ali Al-Baroodi (tutti i diritti riservati)

È una storia triste. L’identità della città fu strappata, insieme alla diversità dei miei vicini. Professori e amici furono prontamente espulsi dall’ISIS e le loro proprietà confiscate. Il nostro crogiuolo di etnie fu svuotato del suo contenuto storico.

Sono nato e cresciuto a Mosul e sono diventato maggiorenne negli anni 90. Mio padre era stato costretto al pensionamento anticipato dall’insegnamento perché si rifiutava di aderire al partito Baath di Saddam Hussein. La mia defunta madre insegnava alla scuola elementare. Economicamente abbiamo dovuto lottare. All’epoca, gli iracheni misuravano scherzosamente i loro stipendi con il numero di uova che potevano acquistare. Lo stipendio di mia madre era di un pacchetto – 30 uova al mese.

Ricordo che una volta le chiesi perché i suoi colleghi erano pagati meglio, mentre lei aveva più esperienza e qualifiche più elevate. Non ha dato risposta e mi ha lasciato a pormi domande. In seguito, ho capito che aveva subito le conseguenze della mancata adesione al partito Baath di Saddam. L’appartenenza al partito, però, non migliorava automaticamente la vita, e in effetti molti baathisti hanno sofferto come tutti noi; ma il rifiuto di aderirvi valeva come una dichiarazione politica.

Tutto ciò non era argomento di cui discutere liberamente a casa. C’erano molte domande tabù che non potevo porre, tipo: “Se siamo stati davvero i vincitori della guerra del 1991, come afferma Saddam, come mai gli aerei da guerra stranieri continuano a volare sopra le nostre teste” – fino all’invasione del 2003?

Non potevamo porre certe domande, né vi erano risposte, ma ciò che era chiaro era un notevole aumento del militarismo. Alla fine degli anni 90, quando ero ancora al liceo, il governo impose per breve tempo a tutti gli studenti una specie di uniforme militare. Il nostro cortile si trasformò in un terreno di indottrinamento del partito Baath, che in quei giorni non offriva altro che la glorificazione di Saddam Hussein. Persino la direttrice di quella che era stata la mia scuola elementare pubblicizzava il militarismo. Portava un kalashnikov e sparò tre colpi di saluto il Giorno del martire.

Eppure l’Iraq era in punto di morte. La scarsità di cibo stava colpendo duramente le persone. La malnutrizione era diffusa. Era come se il mondo stesse stringendo un cappio intorno a noi mentre tentava di strangolare Saddam, e il suo regime, attraverso le sanzioni. Il risultato fu l’opposto. Saddam diventò più arrogante e brutale nei confronti del popolo. Organizzava grandi feste di compleanno per se stesso ogni 28 aprile e guidava carrozze dorate, ostentando ricchezze nei luoghi pubblici, circondandosi di centinaia di bambini scelti con cura in tutto l’Iraq per salutare ‘il nostro leader immortale‘. Tutto questo, mentre i comuni iracheni lottavano per mettere il cibo sulla loro tavola. Per umiliarci ulteriormente, Saddam distribuiva alle persone le briciole attraverso le tessere alimentari governative. Una volta, mia zia aprì un sacco di farina e trovò un’etichetta con sopra il disegno di una testa di pecora. La nostra razione cibo era, infatti, mangime per il bestiame.

Durante il mio secondo anno al college, la situazione si fece più tesa. Gli Stati Uniti avevano intrapreso una campagna per privare l’Iraq delle sue armi di distruzione di massa mentre l’Iraq continuava a negare di averle. La tensione raggiunse le nostre aule e l’università iniziò a portarci in autobus in centro città per protestare contro ‘le cattive intenzioni anglo-americane’. I professori baathisti richiedevano che indossassimo abiti militari e ricevessimo un addestramento militare, e ripetevano vecchie storie di vittorie che suonavano reali quanto quella presunta nel 1991. Una volta, non potendo resistere, dissi: << Se fossimo così vincenti, cosa ci fanno quei 150 mila soldati stranieri nel Golfo? Non credo che siano in vacanza>>. Mi rilassai, ma la furia dell’insegnante era palpabile.

Fuori dalle nostre aule si stavano scavando delle trincee, apparentemente in preparazione di una guerra lunga ed estenuante. La gente comune era terrorizzata e iniziò a riempire le dispense con cibo non deperibile. Il centro di Mosul divenne un deserto. Saddam accentuò il tono religioso del suo regime e finì per creare un ambiente favorevole ai radicali. Nel mio quartiere, alcuni giovani erano entusiasti di arruolarsi nell’esercito e combattere gli ‘invasori’, anche se l’esercito era pieno di soldati senza il cibo sufficiente. Uomini giovani e robusti erano ridotti a mendicare nelle moschee perché non potevano permettersi il biglietto del bus per tornare a casa. Tale era lo stato dell’esercito di Saddam, quello che aveva usato per opprimere il nostro popolo.

Ci fu un breve attacco statunitense il 16 dicembre 1998, soprannominato dall’amministrazione Clinton ‘Operazione Desert Fox’, con l’obiettivo di avvisare Saddam e costringerlo a cooperare con gli ispettori delle Nazioni Unite. Ma questa operazione rese Saddam solo più bellicoso nei confronti del popolo iracheno. Iniziò a usare ‘motivazioni sacre‘ come scusa per la sua tirannia. Stava per ‘liberare Gerusalemme’ – disse – e ‘scacciare i sionisti‘. Ho sempre pensato che fosse un’ironia della sorte che Baghdad potesse cadere, mentre Saddam era ossessionato dalla liberazione di Gerusalemme.

Bombardamenti della coalizione.
Foto di Ali Al-Baroodi, dicembre 2015 (tutti i diritti riservati)

Nel 2014, dopo che Mosul cadde sotto l’ISIS, la mia ansia crebbe – non sapevo cosa fare. A un certo punto, decisi di immergermi nell’unica cosa che mi aveva sempre dato conforto: la fotografia. Avevo sempre scattato le mie fotografie più intime mentre attraversavo la città in bicicletta, esplorando nuovi luoghi e le storie che custodivano. Tour in bicicletta, li ho chiamati. Questi ultimi sono diventati ancora più urgenti durante il periodo vissuto sotto l’ISIS: mi hanno mantenuto sano di mente e connesso a Mosul.

Ma fare i tour non era facile. Per prima cosa, l’ISIS proibiva le macchine fotografiche tranne che per i propri fotografi, quindi non osavo portarle in pubblico, e preferivo usare il cellulare per scattare foto con discrezione. Inoltre, andare in bicicletta attraverso la città comportava una serie di ostacoli. Il famigerato ISIS Hisba – la polizia del Califfato – imponeva la preghiera obbligatoria nella moschea cinque volte al giorno, quindi non potevo stare in giro durante quei momenti. L’ISIS aveva anche installato enormi schermi televisivi in ​​tutta Mosul per mostrare le sue imprese militari, le abilità nel combattimento e le conquiste, mentre io cercavo di evitare quelle immagini. L’ISIS teneva anche esecuzioni in spazi pubblici incoraggiando i giovani a parteciparvi. Quando passavo, pedalavo più velocemente per evitare di vedere il sangue.

Una volta, dopo aver superato un’orrenda esecuzione pubblica, sono arrivato a casa di Ahmad, molto scosso: «Sono sopravvissuto a una festa per un’esecuzione, amico mio. Sono sopravvissuto a una brutale decapitazione pubblica>> gli dissi, cercando di riprendere fiato. Lui tentò di calmarmi e mi offrì la sua speciale miscela di caffè. Quel giorno fumammo una sigaretta dopo l’altra e lamentammo la brutalità dell’autoproclamato ‘Califfo’. Per alleggerire il nostro umore, facemmo qualcosa di ‘illegale’ sotto il governo dell’ISIS: guardammo un film! Era un film di Sean Connery e ciò ci risollevò il morale. Ahmad cercò anche di consolarmi: <<Finirà, amico mio, ma solo Dio sa quanto ci costerà>> disse.

Mi chiedevo davvero quale sarebbe stato il costo. Come tutti a Mosul, sotto l’ISIS, ero preoccupato per la mia sicurezza. La mia casa era piena di cose considerate di contrabbando, punibili con la morte. I miei scaffali contenevano una copia del Sacro Corano accanto alla Bibbia. Nell’intimità delle mie mura ascoltavo la musica e, alle pareti, erano appesi quadri ricamati. Avevo anche innumerevoli foto memorizzate sul mio laptop, comprese quelle del mio quartiere durante i bombardamenti della coalizione, e di Mosul sotto l’ISIS. Tutto questo sarebbe stato sufficiente per farmi condannare a un destino brutale in una prigione dell’ISIS.

Nel luglio 2016 la situazione peggiorò. La grande prigione che era diventata Mosul divenne ancora più fortificata. I contrabbandieri non erano più in grado di far uscire le persone dal territorio del Califfato e facevano pagare prezzi esorbitanti per coloro che erano disposti a correre il rischio. Per la prima volta l’accesso a Internet fu totalmente vietato e i trasgressori subirono conseguenze disastrose.

Ho iniziato a sentirmi sempre più un prigioniero. Aspettavo il buio per salire sul tetto del mio edificio e rannicchiarmi in un angolo in cerca del segnale del cellulare. Chiamavo gli amici che erano scappati dal Califfato, i quali mi consolavano con la promessa di reincontrarci: <<Presto – dicevano – terremo una felice riunione nel nostro amato campus>>.

La stazione ferroviaria di Mosul ha subito ingenti danni durante il governo dell’ISIS e i successivi attacchi aerei della coalizione anti-ISIS
Foto di Ali Al-Baroodi (tutti i diritti riservati)

Quand’ero uno studente all’Università di Mosul, nei primi anni 2000, ricordo di essere stato orgoglioso del fatto di vivere in una città piena di colori: un vero mosaico. C’erano ragazze vestite con abiti dorati e persone con costumi folcloristici. Festeggiavamo con musica e libri, gallerie d’arte e simposi. Non ho quasi mai visto donne indossare il velo, prima dell’ipocrita campagna di islamizzazione di Saddam. Andavamo a casa a piedi portando libri e caramelle.

Poi un giorno ci siamo svegliati con lo shock e lo stupore della Seconda Guerra del Golfo. La tivù nazionale irachena trasmetteva canti entusiastici che glorificavano Saddam e l’esercito sempre vittorioso. I media ufficiali, in Iraq, sono sempre stati inaffidabili. Quando il regime è caduto, quello stesso canale televisivo ha iniziato a trasmettere cartoni animati e contenuti non correlati, mentre Al Jazeera Live – a cui abbiamo avuto accesso tramite la tivù siriana – mostrava eventi reali, molto tristi e difficili da guardare. E poi ci siamo rannicchiati intorno alle nostre radio e abbiamo ascoltato BBC Arabic e Monte Carlo, divenuti i nostri media di fiducia.

Mio padre ascoltava le notizie, sperando silenziosamente che i 35 anni di oppressione di Saddam sarebbero presto finiti. Ma ci ponevamo una domanda, davvero complicata per molti iracheni: volevamo l’invasione degli Stati Uniti? Non eravamo loro grati per esserci sbarazzati di Saddam? Sinceramente direi che ciò che il popolo iracheno ha sempre voluto è questo: avere una vita dignitosa, un’opportunità per mettere il cibo in tavola e vivere decorosamente, con o senza Saddam.

Dopo l’invasione, io e la mia famiglia abbiamo visto le riprese della statua di Saddam nel cuore di Baghdad mentre veniva demolita. “Può essere vero?“, abbiamo pensato. Come poteva essere possibile che i 7 milioni di soldati di Saddam – il presunto invincibile esercito Quds ( forze speciali del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica iraniana, n.d.t.) – fossero scomparsi dall’oggi al domani? E la guardia repubblicana d’élite (la parte scelta dell’Esercito iracheno, n.d.t.) dov’era finita? L’Iraq era sempre stato così mal difeso? In effetti, il mio Paese era come un leone affamato che aveva perso ogni capacità durante i 13 anni di sanzioni e blocco economico.

Pochi giorni dopo, nelle strade di Mosul, ci siamo svegliati alla vista delle truppe statunitensi e degli Humvees (famiglia di veicoli leggeri, a quattro ruote motrici, militari e utilitarie, n.d.t.). Ma se qualcuno pensava che questo fatto avrebbe inaugurato una nuova era, in buona parte si sbagliava. All’inizio, i militari della 101° Airborne Division (nota anche come Screaming Eagle – aquila urlante – è un’unità di fanteria elitrasportata dell’esercito statunitense, n.d.t.) erano cordiali e disponibili e la gente di Mosul offriva loro tè e biscotti. I beni di consumo iniziavano a invadere i nostri mercati e la gente si precipitava ad acquistare elettronica e ricevitori satellitari per guardare più canali in tivù. Ci furono pagamenti di emergenza ai dipendenti del governo iracheno e furono immessi rapidamente in circolazione dollari statunitensi – vietati per tutti gli anni 90 – che alleviavano le difficoltà della popolazione. I giornali internazionali iniziarono a comparire nelle edicole. Le librerie presero a vendere apertamente letteratura bandita da Saddam. Le persone potevano esprimersi liberamente. Saremmo rifioriti – abbiamo pensato. C’era anche da mangiare in abbondanza e, per un po’, fummo sopraffatti da un senso di sconfinato ottimismo. Ahimè, non è durato.

Mentre le truppe statunitensi prendevano il controllo della nostra città, i saccheggiatori occuparono ogni struttura governativa, senza lasciare nulla di intatto. A poche ore dall’arrivo degli statunitensi, ho visto persone portare via sedie e scrivanie, caricando piccole auto con frigoriferi e condizionatori d’aria. All’università, la mia classe fu vandalizzata. Gli uffici furono bruciati; le porte divelte dai cardini e rubate. Tali atti non furono pubblicizzati, mentre le società americane rivendicavano con entusiasmo le loro pretese sulla nostra economia. Dopo una breve luna di miele con le forze statunitensi e una tregua da Saddam, ci trasformammo in un Paese occupato, esposto a sfruttamento e umiliazione.

Da parte mia, sono rimasto fedele al vecchio adagio iracheno: camminare rasente al muro. Tutto quello che volevo fare era concentrarmi sulla mia educazione e sul sogno della nuova era che speravo fosse per noi all’orizzonte. Ciò che si profilava all’orizzonte, tuttavia, erano loschi gruppi terroristici e bombe sul ciglio della strada. La vita in Iraq sarebbe divenuta ancora una volta difficile e molto più spaventosa con l’ascesa dell’ISIS.

Nel 2016, quando la guerra di liberazione della città contro l’ISIS era imminente, la gente di Mosul fece quello che già sapeva fare: correre al mercato e comprare tutte le provviste che poteva permettersi. Alcune persone vendevano i gioielli per acquistare il cibo. Altre iniziarono a scavare pozzi d’acqua artesiani in vista della scarsità d’acqua.

Quell’anno, ottobre arrivò con la notizia di un attacco imminente, l‘Ora Zero. Ho continuato a visitare Ahmad a Mosul ovest, e insieme abbiamo seguito le notizie molto da vicino, bevendo la sua speciale miscela di caffè e fumando-a-catena per calmare i nervi. I resoconti dei media locali e iracheni – sempre così ottimisti – promettevano che l’ISIS sarebbe caduto entro pochi giorni, che avremmo ripreso Mosul in una settimana. Ma la minaccia della battaglia è continuata per mesi e l’Ora Zero ha continuato a eluderci.

A novembre le foglie hanno cominciato a cadere con le bombe anti-Isis. Volevo che Ahmad si trasferisse nella mia parte della città per sicurezza, ma lui preferiva rimanere vicino alla sua famiglia. Ci siamo preparati per una lunga e sanguinosa battaglia. Mi diceva che si aspettava il peggior tipo di distruzione: aveva già attraversato la nostra città e le aveva detto addio. Al contrario, io cercavo di rimanere fiducioso.

Il 17 novembre sono andato a fare un giro in bicicletta per visitare Ahmad a Mosul ovest. A quel punto eravamo stati parzialmente liberati dall’ISIS dopo una feroce battaglia guidata dalle forze della coalizione. Poche auto erano in strada a causa della mancanza di carburante e le truppe dell’ISIS rimanenti erano nel panico. Avevano istituito più posti di blocco e iniziato a tenere più esecuzioni pubbliche, forse per aumentare il livello di terrore tra la popolazione e dissuaderci dall’aiutare le forze irachene. Pesanti pennacchi di fumo si alzavano da un lato, mentre pedalavo più veloce su uno dei ponti della città. Il mio amico mi aveva avvertito che le forze della coalizione stavano per bombardare tutti e cinque i ponti nel tentativo di paralizzare le forze dell’ISIS.

All’improvviso i miei occhi scorsero un’auto bruciata. C’era qualcosa di simile a un bagliore arancione in mezzo al metallo nero. <<Oh, no!>>, pensai, non volendo credere ai miei occhi. Era un uomo giustiziato e incatenato a un veicolo dell’ISIS, che era andato in fiamme durante un attacco aereo. Ho fissato il suo volto ferito e l’uniforme arancione della detenzione insanguinata e mi è venuto in mente un corpo che avevo visto nel 2005, quando Mosul era sotto il governo non ufficiale di un gruppo armato affiliato ad al-Qaeda (sia l’ISIS che il precedente occupante erano soliti mostrare i cadaveri delle loro vittime in pubblico). A quel tempo, una simile vista mi turbò talmente, che abbandonai la scuola per un certo periodo.

Una strada di Mosul torna lentamente alla vita dopo la caduta dell’ ISIS
Foto di Ali Al-Baroodi (tutti i diritti riservati)

L’8 gennaio 2017, il nostro incubo targato ISIS, durato tre anni, era quasi finito. Le bandiere nere furono strappate dalle loro aste e bruciate. Potevo finalmente radermi e usare la macchina fotografica in pubblico. Con trepidazione, entrai di soppiatto nel soggiorno per guardare fuori dalla finestra. All’orizzonte vidi sventolare la bandiera irachena su un pinnacolo. “Vittoria!”, avrei voluto gridare a squarciagola. Ero ansioso di raccontare la buona notizia alla mia famiglia. Ma ancora incerto se fossero in arrivo altri guai, ho preferito tornare dai miei familiari in silenzio, con le lacrime agli occhi, per dire loro, con una certa difficoltà: <<È finita! Se ne sono andati!>>.

Fuori dalla porta di casa abbiamo trovato l’Iraq che aspettava il nostro abbraccio. I membri delle forze speciali antiterrorismo irachene erano lì, ci guardavano e sorridevano, gioiosi e vittoriosi. Uno di loro mi ha chiesto il ‘famoso tè Mosuli’ e mi sono affrettato ad accontentare la sua richiesta. Sono tornato con due tazze di tè e abbiamo chiacchierato e riso, poi mi ha detto di nasconderci altrove perché si aspettavano un attacco di mortaio di rappresaglia da parte dell’ISIS. La battaglia non era ancora finita.

Passarono altri due giorni prima che terminasse anche l’ultimo combattimento e potessi tornare a casa senza rischi. Ho attraversato cadaveri di combattenti dell’ISIS e ho ripercorso i terribili ricordi che ci avevano inflitto. La mia casa non era più abitabile: le schegge avevano lasciato enormi buchi nei muri. Era fredda e vuota. I gatti avevano mangiato i piccioni di mio fratello, lasciando solo piume. Non c’era acqua. Le strade avevano crateri di razzi profondi cinque metri. Ma quando ho visto i miei vicini, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto – grati di essere vivi e felici di rivederci.

I colori di Ninewa al Festival della Pace di Mosul nel 2018 per celebrare la diversità etnica
Foto di Ali Al-Baroodi (tutti i diritti riservati)

Abbiamo iniziato a ricostruire. Abbiamo scavato un pozzo e abbiamo trovato l’acqua per le nostre necessità quotidiane, poiché le infrastrutture della città erano andate distrutte. Ho ricostruito la mia casa. A marzo, all’università, i miei studenti ed io abbiamo ripreso i corsi da dove li avevamo interrotti, ossia dagli esami. Alcuni degli studenti provenivano da aree appena liberate di Mosul ovest, dove i combattimenti erano continuati un po’ più a lungo. Gli studenti erano stanchi e inorriditi. Alcuni mi hanno detto che dovevano scavare e recuperare ancora decine di morti nei loro quartieri. Non potevamo tornare al nostro amato campus; quindi, abbiamo tenuto le lezioni in un sito fuori Mosul.

Alla fine di maggio 2017, siamo finalmente tornati al campus. Il corpo militare iracheno dei genieri lo aveva ripulito dagli ordigni, ma abbiamo comunque trovato la nostra amata università devastata. L’odore e la fuliggine degli edifici bruciati erano appena tollerabili. Quasi il 70% delle infrastrutture era stato demolito o danneggiato. La biblioteca centrale dell’università, che un tempo ospitava oltre un milione di libri, era stata trasformata in un mucchio di macerie e cenere dagli attacchi aerei. L’ISIS si era assicurato di versare benzina su ogni edificio e di bruciarlo. Ho ricevuto chiamate dai miei studenti che si sono offerti volontari per aiutare a ripristinare gli edifici che erano recuperabili. Studenti e professori si sono rimboccati le maniche e hanno lavorato in squadra per rendere nuovamente possibile la vita. Mosul stava rimuovendo la polvere della guerra, mentre la guerra infuriava ancora.

Finalmente, dopo tre anni, la mia facoltà all’università – il Dipartimento di Traduzione – era pronta a riprendere le lezioni. Il mio primo giorno è stato un incontro emozionante, soprattutto quando ho visto le scrivanie nuovamente occupate e gli edifici ristrutturati dove vagavano studenti entusiasti.

Abbiamo iniziato con una lezione di conversazione guidata dai miei studenti. Hanno condiviso storie dei tempi bui a cui erano sopravvissuti e hanno espresso la speranza per un futuro migliore. A un certo punto qualcuno ha bussato alla porta. Erano nuovi studenti. Anche loro erano sopravvissuti. Abbiamo applaudito e gioito nel vederli in mezzo a noi. Alcuni di loro si sarebbero poi lamentati con me per un certo numero di loro coetanei che si era unito al gruppo terroristico. Era una notizia frustrante, ma non dovevamo più sussurrare le notizie per la paura. Potevamo affrontare l’argomento della conversione all’ISIS, per ciò che era.

Sono passati oltre tre anni da allora e oggi mi trovo a chiedermi ancora una volta cosa potrebbe riservare il futuro all’Iraq. Stiamo ancora lottando contro vecchi problemi: corruzione, nepotismo e governance inefficace. Molti dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio da mesi (compresi me e i miei colleghi insegnanti). Non voglio cedere alla disperazione, ma continuo a camminare rasente al muro.

Articolo tradotto dall’originale: https://newlinesmag.com/photo-essays/walk-by-the-wall/

In copertina: la Porta Assira di Adad a Ninewa e il suo muro storico prima che subissero ingenti danni dall’ISIS. Foto di Ali Al-Baroodi, Aprile 2015 (tutti i diritti riservati).

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