37 morti e oltre 100 desaparecidos
di Laura Sestini
La protesta colombiana, giunta al decimo giorno, ha preso avvio fin da subito molto più selvaggia e violenta anche di quella cilena del 2019/20, che in cento giorni contò 27 morti e 20 mila arresti.
Trasversalmente al Cile di allora, e persino alla Bolivia, anche la discesa in piazza dei cittadini colombiani ha di base gli stessi argomenti di malessere generalizzato, contestando in massa la riforma tributaria appena approvata dal governo di Ivàn Duque Marquez che prevederebbe tra l’altro una maggiore privatizzazione della Sanità, proprio nel momento in cui la Colombia sta passando attraverso il suo picco maggiore di contagi da Covid-19, alla sua terza ondata.
Dopo giorni di guerriglia urbana – di cui i video online mostrano violenze arbitrarie e indicibili da parte della polizia e l’Esmad – le Forze speciali antidisturbo – il presidente Duque ha dovuto ritirare la sua riforma e il Ministro delle Finanze – Alberto Carrasquilla – è stato costretto alle dimissioni.
La riforma fiscale ha provocato il caos – di cui il governo sembra aver perso il controllo – innesco inaspettato dei moti di rabbia dei cittadini, la cui condizione sociale ha radici ben più profonde, aggravatesi con la perdita economica del 2020, e andando a pesare proprio sui ceti medio-bassi che hanno subito i danni maggiori. Centinaia di migliaia le piccole imprese hanno serrato definitivamente i battenti nel 2020, mentre il 42,5% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
A fine 2019 una precedente serie di scioperi generali – che videro in piazza allora come oggi migliaia di giovani e studenti – erano stati repressi allo stesso modo con la violenza, a causa delle proteste contro la politica economica di Duque.
L’attuale austerity fiscale prevista dal governo colombiano – a parziale risanamento delle perdite del 6,7% sul Pil dovute alla pandemia, è sopraggiunta – mai peggior momento – ad appesantire la già grave crisi di disoccupazione e l’emergenza sociale ampliata anche dalla mala gestione per il contenimento dei contagi e dei decessi.
Dal 28 aprile – giorno per cui era stato indetto lo sciopero generale – le contestazioni non si sono fermate alla sola città di Cali, bensì si sono ingrandite alla capitale Bogotà, a Medellin, Pereira, ed altri centri maggiori, facendo salire a 37 il numero dei morti (alla data del 5 maggio), numerosi per le percosse ricevute dalla polizia, mentre un video amatoriale riporta di un ragazzo con una felpa rossa, che pedala velocemente in bicicletta, al quale, a sangue freddo e senza motivo, è stato sparato in faccia. Inoltre, diverse centinaia sono i feriti da proiettile, circa un migliaio gli arresti e 22 persone sono state accecate con i pallini di gomma sparate volontariamente ad altezza occhi dei manifestanti.
Nonostante ciò le proteste vanno avanti e si concentrano al centro delle città maggiori durante le ore diurne, mentre la notte si spostano nei sobborghi periferici, dove abitano i ceti più poveri e dove anche avvengono le violenze maggiori. Ed è lo stesso governo che incita le forze dell’ordine ad usare la forza.
I manifestanti hanno individuato anche infiltrati in borghese delle forze dell’ordine nei gruppi dei giovani contestatori e dei comitati di disoccupazione che coordinano i cortei e le proteste.
A peggiorare la situazione anche il sindaco di Pereira che ha chiesto – via social – il sostegno dei privati alle forze dell’ordine per la protezione della città; le risposte all’appello non si sono fatte attendere e da una grossa auto grigia sono partiti colpi di pistola contro un gruppo di studenti rimasti in strada dopo le battaglie diurne di Pereira, uccidendone uno e lasciandone un altro in fin di vita. Lo stesso invito anche dall’ex-Presidente Alvaro Uribe che ‘assolve’ la violenza, includendo pure le armi da fuoco; quindi è verosimilmente prevedibile un’escalation delle violenze, anche esterne ai reparti speciali.
Appena sei anni fa la Colombia era riuscita in un accordo di pace con le Farc, le Forze armate rivoluzionarie e l’Eln – Esercito di liberazione nazionale – movimenti politici di ispirazione marxista-leninista – dopo una sanguinosa guerra civile durata decadi; ma la pace è ancora ben lontana, confermata da azioni violente perpetrate dalle numerose nuove organizzazioni malavitose nate all’ombra del narcotraffico.
Nei territori di riconversione agricola, al posto dei contadini coltivatori di piante di coca, scorrazzano attualmente differenti bande armate – di cui ancora non si conoscono bene le provenienze politiche – mentre oltre un migliaio di ex-combattenti reinseriti nei processi di pace, sono stati assassinati, insieme ad attivisti per i diritti umani e operatori umanitari – come Mario Paciolla – cooperante UNHCR ucciso nel 2020. La situazione quindi è ribollente di movimenti sotterranei, che non prevedono a breve termine un futuro stabile e pacificato.
I moniti per la fine delle violenze arbitrarie arrivano dalle Nazioni Unite, come dall’Europa, mentre una seduta del Congresso della Repubblica – il Parlamento colombiano – è stata sospesa per un tentativo dei manifestanti di entrare nella sala della Camera. A seguito dell’episodio l’esecutivo sta decidendo se attivare lo ‘estado de sitio’, oppure lo ‘estado de conmoción’ ovvero lo stato di assedio – concetto equivalente allo stato di guerra, ove alle forze armate vengono attribuiti poteri preponderanti per gli atti di repressione, unitamente alla temporanea sospensione delle leggi di garanzia o della Costituzione di uno Stato, fino a giungere all’assunzione dei poteri civili da parte dell’autorità militare.
Gli hashtag che vanno per la maggiore – mentre si tenta si censurare i social – è: #nos estan matando – ci stanno ammazzando e #sosColombia
Sabato, 15 maggio 2021 – n°15/2021
In copertina: Plaza de Bolívar a Bogotà durante le manifestazioni – Fermo immagine da video privato