Gli inquinanti chimici che contaminano le falde acquifere e la catena alimentare
di Laura Sestini
Il processo contro l’azienda Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza – avviato ad aprile scorso – ha messo in luce una delle tante cattive pratiche di smaltimento dei rifiuti industriali pericolosi per la salute, che purtroppo avvengono anche in altre aree italiane (https://www.theblackcoffee.eu/il-cuore-di-tenebra-di-solvay-in-italia/ ), e del mondo.
Di fatto le imputazioni di disastro ambientale e inquinamento delle falde acquifere di un terzo del Veneto – compreso entro le province di Padova, Vicenza e Verona – sono a carico della società chimica italiana, che produceva prodotti a base di fluoro per l’agricoltura e il comparto farmaceutico, sversando le acque reflue di produzione senza le dovute cautele previste per legge. I primi imputati sono stati i dirigenti della società giapponese Mitsubishi che hanno gestito in passato il polo chimico Miteni per circa 20 anni.
Cosa sono i PFAS?
Finora sono state identificate 4.700 sostanze che appartengono alla famiglia dei PFAS, appartenenti alle categorie perfluoroalchiliche o acidi perfluoroacrilici; sono una famiglia di composti chimici usati prevalentemente dall’industria nella concia delle pelli, nel trattamento dei tappeti, nella produzione di carta e cartone per uso alimentare, per rivestire le padelle antiaderenti (Teflon) e nella produzione di abbigliamento tecnico, in particolare per le loro caratteristiche idrorepellenti (GoreTex), nel comparto automobilistico e nell’elettronica, nella produzione alimentare ed edilizia.
Queste sostanze, che vengono utilizzate anche in altri settori produttivi, hanno la caratteristica peculiare di essere molto resistenti alla degradazione ambientale – in virtù delle loro proprietà oleose – e tendono ad accumularsi negli organismi viventi della catena alimentare umana, trasferendone le proprietà dannose per la salute.
“Infatti PFOA, PFOS e altri composti simili hanno mostrato di poter interferire con la comunicazione intercellulare, fondamentale per la crescita della cellula, aumentando così la probabilità di crescite cellulari anomale con conseguente formazione di tumori, specie in caso di esposizione cronica (fonte -Legambiente Veneto).”
Un recente studio condotto da alcune università statunitensi – il primo dopo 15 anni – sul latte materno di 50 madri in fase di allattamento, ha evidenziato le quantità in eccesso di sostanze PFAS in quello che dovrebbe essere l’elemento perfetto per la vita e la prima fase di crescita di un neonato. Le ricerche conducono all’evidenza che i neonati vengono esposti a dosi troppo alte di PFAS presenti nel latte materno, di cui ne sono stati analizzati 39 (9 a catena corta e 30 – i più pericolosi – a catena lunga).
Attraverso la ricerca sono stati comparati i dati sui PSAF presenti sul latte materno disponibili al mondo – nel periodo 1996-2019. Questi hanno mostrato che mentre i livelli di PFOS e PFOA, gradualmente eliminati nei processi industriali, sono diminuiti con tempi di dimezzamento rispettivamente tra 8 e 17 anni, gli attuali e rinnovati PFAS permessi – a catena corta – sono aumentati nelle quantità, con un tempo di raddoppio in circa 4 anni. Lo studio dimostra anche che il latte materno è contaminato da PSAS universalmente.
Come già accennato, queste sostanze chimiche vengono utilizzate in una varietà di prodotti di consumo quotidiano, perché hanno una forte capacità di resistenza alle macchie, al grasso e all’acqua, quindi utilizzati negli imballaggi degli alimenti, negli indumenti e per le tappezzerie. In pratica ci accompagnano nella vita di tutti i giorni, influendo su differenti problemi legati alla salute, anche di malattie gravi come il cancro a reni e testicoli, danni al fegato, problemi di fertilità, malattie della tiroide e deformazioni fetali.
Oltre al latte materno, un altro dei gravi rischi da PFAS è la loro presenza nell’acqua potabile, come nel caso scoperto nel 2013 per le falde acquifere in Veneto.
Come si muove l’Unione Europea al riguardo delle migliaia di sostanze chimiche PFAS?
Dopo che negli anni passati erano stati bannati alcuni PFAS a catena lunga, a livello mondiale, a settembre 2020 l’EFSA – European Food Safety Authority – ne valuta i rischi sulla salute e stabilisce i limiti massimi di accumulo nell’organismo tollerabili, prevedendone l’assunzione involontaria, attraverso il cibo, a una media di 4,4 nanogrammi a settimana per i soggetti adulti. Queste sostanze – oltre all’acqua potabile – possono essere rilevate più frequentemente nel pesce, nella frutta, nelle uova.
Precedentemente – nel 2019 – l’EFSA aveva pubblicato delle linee guida sulla pericolosità di sostanze chimiche differenti combinate negli alimenti e nei mangimi animali, adducendo un rischio potenzialmente infinito: – “Le persone, gli animali e l’ambiente possono essere esposti a più sostanze chimiche da una varietà di fonti. Capire come si comportano le sostanze chimiche combinate è complesso e il numero di combinazioni è potenzialmente infinito, quindi il comitato scientifico dell’EFSA ha sviluppato uno strumento scientifico pratico per i valutatori del rischio che supporta e informa anche i gestori del rischio.”
Ancora non esiste una direttiva comunitaria UE uniforme, quindi ogni Paese membro prende precauzioni differenti in base al quadro normativo europeo generale sulle sostanze chimiche, da eliminare gradualmente entro il 2030.
Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Danimarca stanno lavorando a una proposta di restrizione – ‘REACH’ – da presentare all’Europa per limitare i rischi per l’ambiente e la salute umana derivanti dalla produzione e dall’uso di tutte le sostanze polifluoroalchiliche (PFAS). Mentre Germania, Svezia e Paesi Bassi vanno in questa direzione, in Danimarca sono già state vietate tutte le sostanze chimiche PFAS dagli imballaggi per gli alimenti.
Sabato, 15 maggio 2021 – n°16/2021
In copertina: foto di Arturs Budkevics