L’Odissea dei migranti vissuta da una volontaria della Croce Rossa Italiana
di Simona Maria Frigerio
Laura Sestini, cofondatrice di The Black Coffee e collega di Persinsala, che ho intervistato al suo rientro in Toscana, non è una ragazzina alla prima esperienza di volontariato o di reportage dall’estero. Giornalista e fotoreporter, oltre che donna impegnata in diverse attività e missioni umanitarie, nel 2019 è stata presente in Turchia, durante le elezioni amministrative, come osservatrice internazionale. Nel 2017, al seguito di una delegazione dell’Associazione Un Ponte Per, ha percorso il Kurdistan iracheno per visitare i campi profughi e per raccontare la situazione in quella regione non ancora pacificata – a trent’anni dalla Prima Guerra del Golfo (egida Onu e guida statunitense) – e sotto l’‘effetto’ dell’Isis (Mosul sarà liberata definitivamente solo alcuni mesi dopo). Ma ancora prima, nel 2011, firmava un fotoreportage dal Campo profughi Unhcr di Choucha, al confine libico-tunisino – dove erano ospitati i rifugiati della guerra libica (innescata da un’insurrezione popolare, ma che aveva poi visto il massiccio intervento di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) – e tornava in Tunisia, come membro della stampa internazionale, durante il periodo delle prime elezioni politiche, dopo 23 anni di dittatura di Ben Alì, proprio nei giorni in cui oltre il confine libico veniva trucidato, dalle forze della coalizione, Muhammar Gheddafi (nell’ottobre 2011).
A inizio ottobre di quest’anno, Laura è partita come volontaria della Croce Rossa Italiana per prestare la propria attività a bordo della nave quarantena Rhapsody – un universo del quale si sa poco e che, spesso, i mass media citano a sproposito, per fini meramente politici o, visto che era la nave dalla quale è sbarcato il presunto attentatore di Nizza, per incitare all’odio nei confronti dei migranti. Appena è rientrata in Toscana, quindi, le ho chiesto di rispondere a una serie di domande, per conoscere finalmente la verità su cosa accade a bordo di questi ‘limbi nei limbi’ (come li ha definiti Mauro Palma, che presiede il Collegio del Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private di libertà) e per restituire la testimonianza di chi, dopo aver prestato servizio come volontaria, è finita nella baracca di un Centro di accoglienza CRI, dove ha trascorso una quarantena di quasi tre settimane, in quanto divenuta, nel frattempo, positiva al Covid-19.
La prima domanda è d’obbligo, visto che ha prestato servizio sulla nave dov’era in quarantena anche Brahim Aouissaoui. Per quale motivo, in generale, i tunisini vengono in Europa, visto che teoricamente il loro Paese è in pace e democratico? E cosa si potrebbe fare – e non si è fatto – per intercettare eventuali jihadisti mischiati a migranti per motivi economici e richiedenti asilo?
Laura Sestini: «La Tunisia, per quanto se ne parli come di un Paese democratico e in pace, in realtà, dopo la rivoluzione del 2011, ha avuto molti problemi a livello politico e, soprattutto, ha patito una costante crisi economica che, con l’arrivo del Covid-19, si è aggravata a causa del venir meno del flusso turistico – che è il maggior introito nel bilancio dello Stato. A sostegno della fragile economia tunisina, sono stati erogati finanziamenti da parte italiana, europea e internazionale. Sul sito del Parlamento Europeo (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-8-2016-000627_IT.html) si può leggere un’interrogazione sui finanziamenti che provengono dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e dallo Strumento europeo di vicinato (ENI), che includevano anche la Tunisia. Anche se tale documento è datato 2016, rimane sempre attuale: “[….] Contestualmente, però, in Tunisia sta crescendo la rivolta per fame. L’epicentro delle manifestazioni è la provincia di Kasserine, nella zona centro-occidentale, la più povera, la più esposta alla crisi dell’agricoltura e soprattutto la più vicina alle montagne su cui da un decennio hanno messo piede – con largo supporto popolare – i gruppi jihadisti, Isis in testa. È risaputo che l’Isis fa proseliti fra la gente delle zone più povere”. Negli anni passati, se si esclude il periodo rivoluzionario, nelle statistiche degli sbarchi di migranti in Italia, i tunisini erano scesi agli ultimi posti. Adesso sono nuovamente i primi in classifica, con il 40% circa degli arrivi, seguiti da persone provenienti dal Bangladesh. È chiaro che i flussi migratori sono strettamente correlati alle situazioni socio-economiche dei Paesi di provenienza. Inoltre, il breve tratto di Mar Mediterraneo che separa la Tunisia da Lampedusa è senz’altro un incentivo a tentare la traversata, con l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni di vita. Venendo alla questione dei radicalizzati all’Isis, va detto che la stessa è molto complessa e, in parte, si trovano le risposte nelle poche righe che ho appena riportato. I jihadisti portano con sé cibo e qualcosa in cui credere. Penso che uno dei migliori strumenti per mitigare la possibilità di infiltrazioni jihadiste tra i migranti, sia l’istituzione di corridoi umanitari per casi di particolare indigenza, oppure l’aprire le porte a un maggior numero di lavoratori agricoli stagionali dai Paesi magrebini, cercando parallelamente di eliminare il fenomeno del caporalato dalle nostre regioni meridionali. Per quanto riguarda, in particolare, l’arrivo di Brahim Aouissaoui – l’attentatore di Nizza – sono convinta che non sia partito da Sfax con l’intenzione di uccidere. Quando si organizza un attentato, non si può correre il rischio che ‘l’uomo destinato all’azione’ affoghi in mezzo al Mar Mediterraneo. Mi pare più probabile che Aouissaoui avesse già dei contatti con la rete dei fondamentalisti e sia stato ‘adescato’ solo dopo l’arrivo in territorio europeo. Verosimilmente a seguito dell’esacerbarsi delle relazioni tra la Francia/Charlie Hebdo e il mondo musulmano, che hanno innescato rivendicazioni sia a Nizza, sia a Vienna – dove, si ricorda, l’attentatore era nato e cresciuto. Un dettaglio al quale gli inquirenti dovrebbero fare attenzione è l’età degli attentatori. Più si è giovani e meno visioni della vita si posseggono – e, di conseguenza, si è più facilmente circuibili».
Veniamo alla sua recente esperienza. Da quanti anni è volontaria della Croce Rossa Italiana e perché ha deciso di partecipare alla missione sulla nave quarantena per migranti Rhapsody, ancorata al largo del porto di Palermo?
L.S.: «Sono divenuta volontaria di Croce Rossa nel 2004, dopo essermi trasferita da Firenze a un piccolo borgo in provincia di Pisa, dove ho trovato anche la sede di un comitato, al quale in breve mi sono avvicinata. Dal 2010, seguo i fenomeni migratori sul Mediterraneo, sia in senso sociale e umanitario che storico, e mi è sembrata una grande occasione per fare un’esperienza umana e a livello personale. Del resto, con la Croce Rossa regionale della Toscana, nel 2011, avevo già visitato diversi centri di accoglienza sul territorio per un progetto fotografico e di divulgazione sociale, insieme a un volontario marchigiano, che studiava all’Università di Firenze, al quale interessavano le medesime tematiche».
Qual era la situazione a bordo, intendo quanti operatori e volontari erano presenti e quanti migranti, tra positivi e negativi in quarantena?
L.S.: «I numeri esatti non posso fornirli, non sono informazioni accessibili ai volontari, ma per certo i migranti erano tra 800 e 850, di cui almeno 40 positivi (alcuni li abbiamo caricati a Palermo provenienti dai centri Sprar sul territorio). A questi ultimi si sono sommati quelli degli ultimi giorni che sono stata a bordo – circa un’ulteriore trentina – testati dopo che due persone provenienti dal Bangladesh, non sentendosi bene, sono state scoperte positive. A quel punto i migranti stessi hanno chiesto un ulteriore giro di test, che ha portato al numero di cui sopra. Tra operatori e volontari – ma sarebbe più corretto definirli dipendenti Cri, contratti a chiamata e volontari – eravamo lo stretto necessario per coprire i turni, circa 30 persone (numero sicuramente in eccesso), di cui i volontari potevano essere il 25% del totale».
Come si svolgeva la sua giornata; copriva più turni e con quali mansioni?
L.S.: «A bordo, a parte la parte sanitaria, che aveva compiti specifici, coprivamo tutti le stesse mansioni – equivalenti a turni di otto ore, anche notturni, per controllare che gli ospiti non trasgredissero le regole e si spostassero dal ponte dove erano ospitati ad altri ponti della nave. Quindi, mi occupavo del controllo delle scale e dei passaggi tra le varie aree. In pratica, avevamo il compito di fare i ‘cani da guardia’. Durante i turni, a seconda degli orari da noi coperti, eravamo addetti altresì alla distribuzione dei pasti. Quando facevamo un turno di notte, staccavamo alle 7 del mattino ma alle 15 eravamo nuovamente di turno nella medesima giornata. Credo comunque che non sia uno standard unico e che ogni nave abbia logistica e organizzazione differenti».
Quanti medici, infermieri e mediatori culturali erano presenti sulla Rhapsody?
L.S.: «Il medico era solamente uno, coadiuvato da quattro infermieri. Di mediatori culturali, in due settimane, ne ho conosciuto uno – che faceva un lavoro straordinario. Non intendo togliere niente ai meriti degli operatori sanitari, ma senza di lui saremmo stati persi. La maggioranza degli ospiti non parlava una seconda lingua e se non ci fosse stato qualcuno di lingua araba non avremmo potuto fare niente – soprattutto a livello medico. Giorno dopo giorno, quando mi capitava di incrociarlo, notavo che i suoi occhi esprimevano quanto fosse esausto».
I positivi al Covid-19 presentavano sintomi? Erano monitorati quotidianamente da medici o infermieri? Lo chiedo vista l’inchiesta sulla morte di Dakite Abdou (il minorenne deceduto a Palermo e ospitato sulla nave quarantena Allegra, che sarebbe stato visitato solo dopo 10 giorni di permanenza a bordo: www.theblackcoffee.eu/venivamo-tutte-per-mare/).
L.S.: «L’area Covid sulla nave era isolata, e potevano accedervi solo gli addetti che, prima di varcare la soglia, si vestivano da astronauti. Non sono sicura che ci fossero persone con sintomi, ma per logica direi di no, almeno non gravi, poiché a bordo non eravamo attrezzati per chi avesse avuto bisogno di terapie particolari. Durante la quarantena sono state aperte altre due aree per persone risultate positive, quasi totalmente asintomatiche, dove alcuni di noi volontari hanno svolto dei turni senza particolari precauzioni rispetto ai DPI che usavamo nelle altre aree (ossia i Dispositivi di Protezione Personale – le mascherine, i guanti e gli occhiali di plastica stondati che, indossati, provocano giramenti di testa)».
Editorialedomani.it ha denunciato la mancanza di protezioni (mascherine) per i migranti su Rhapsody. Era vero? Situazione diversa per il personale sanitario e i volontari?
L.S.: «Per gli ospiti, senz’altro, la mascherina non veniva cambiata tutti i giorni come prassi; ma ai diversi ponti, sui tavoli di servizio, oltre al termometro digitale e al gel per le mani, ogni tanto spuntavano alcune mascherine a disposizione dei migranti. Per i volontari, al contrario, i DPI fondamentali erano lasciati – su un ponte di esclusivo accesso al personale della Croce Rossa Italiana – per l’utilizzo a discrezione del singolo».
Vi erano attività ricreative di qualche genere a bordo? Televisioni, giornali in lingua araba, accesso ai computer, eccetera?
L.S.: «A bordo della nave non esistevano attività ricreative né per gli ospiti adulti, né per i bambini, se si esclude un paio di scatole di matite che ho trovato io stessa in giro. E ogni potenziale iniziativa era del singolo operatore, il quale poteva rendersi disponibile per giocare un po’ con qualche bambino. Nessun collegamento internet per i migranti, tantoché spesso eravamo noi operatori, a discrezione personale, che davamo disponibilità di connessione attraverso l’hotspot dei nostri cellulari».
Nel tempo della quarantena, vi era personale addetto a informare i migranti sulle procedure di richiesta asilo che li avrebbero attesi allo sbarco?
L.S.: «Nessuna informazione. Infatti, erano in molti a non avere le idee chiare, o convinzioni fallaci formulate in base a informazioni errate sulle procedure alle quali sarebbero andati incontro. In diversi hanno tentato la fuga, gettandosi in acqua, o eludendo i controlli, proprio perché, non volendo rimanere in Italia, erano convinti che, rilasciando alle autorità del nostro Paese le generalità con fotosegnalazione e impronte digitali, ciò li vincolasse automaticamente a rimanere in loco».
Mi sembra di capire che avevate anche minori non accompagnati a bordo. Dov’erano ospitati? Qualcuno si occupava di attività specifiche per loro?
L.S.: «Sì, a bordo c’erano anche MSNA (ossia, Minori Stranieri Non Accompagnati). Dai giornali ho appreso che erano circa 80 – il che, per esperienza, mi pare un numero verosimile. Per la maggior parte erano ospitati in aree che condividevano con persone adulte. Minori – intesi come in età infantile – ce n’erano pochissimi, insieme alle loro famiglie; la maggior parte erano adolescenti, dai 13 anni in su. Come ho già detto, nessuna attività era stata prevista. Però, un gruppetto di minori era stato più fortunato degli altri in quanto l’ubicazione delle loro cabine, in prossimità del ponte dov’era posizionata la reception della nave – presidiata giorno e notte dal personale di bordo – permetteva loro l’unica attività ricreativa possibile. In quella hall, infatti, era rimasta appesa al muro una sparuta tivù, dove ho visto spesso capannelli di ragazzi che cercavano di seguire i notiziari italiani».
Nelle due settimane sulla Rhapsody, ha ricevuto cambi di biancheria per letto e bagno? E i migranti ne ricevevano?
L.S.: «Per noi, personale CRI, la biancheria era sempre a disposizione in appositi ripostigli. Al contrario, per i migranti la consegna della biancheria pulita era a carico del personale delle pulizie di bordo e, sinceramente, non mi sono mai accorta di grandi cambi. Ciò non toglie che i cambi possano essere avvenuti mentre ero a dormire dopo un turno di notte. Secondo un collega – al quale avevo chiesto a suo tempo – doveva svolgersi ogni 15 giorni. Se ciò fosse vero, visto che la quarantena durava allora 14 giorni, positivi esclusi, la biancheria pulita spettava solamente al momento dell’imbarco».
Cosa è successo a Bari? Si è scritto che c’è stato un ‘ammutinamento’ (termine, questo, improprio in quanto non si trattava dei marinai, bensì dei migranti a bordo). Perché protestavano i migranti?
L.S.: «Una bella domanda. Da un paio di giorni erano iniziati gli sbarchi, a mio avviso con una lentezza delle procedure degna della pazienza di un santone indiano! Al contrario, i migranti a bordo non vedevano l’ora di essere a terra e, quindi, c’era molta aspettativa. Il 10 ottobre mattina, ero di turno al nuovo ponte Covid – due ponti al di sotto della reception – a controllare cinque minori e due adulti. Improvvisamente, ho sentito delle urla provenire dal ponte di sopra, dalla tromba delle scale, e ho subito capito che stava accadendo qualcosa di strano. D’un tratto si è messa a suonare la sirena della nave e tutte le vie di uscita verso il ponte di sbarco sono state bloccate, ascensori compresi. In quel momento io ero tagliata un po’ fuori, rispetto a ciò che stava succedendo nei ponti superiori, ma non avevo paura. L’esatta verità di cosa sia successo non la saprò mai, ma tra qualche dettaglio che mi hanno riferito i colleghi durante quella lunga giornata, e un paio di articoli letti sulla Gazzetta del Mezzogiorno nei giorni precedenti, ho potuto ricostruire in parte i fatti. L’8 ottobre la Rhapsody arrivava al porto di Bari: era il primo sbarco, al di fuori della Sicilia, delle navi quarantena. Naturalmente la politica – Lega barese in testa – ha subito strumentalizzato l’arrivo degli oltre 800 migranti. Però ciò è poco rilevante, dato che, in realtà, sarà proprio il governatore pugliese, Michele Emiliano, del centro-sinistra, ad alzare un polverone circa lo sbarco. Al secondo giorno, infatti, mentre la nave era ovviamente ancora in porto, il governatore inizia a protestare (come scritto sulla Gazzetta del Mezzogiorno), affermando che le persone già sbarcate sono abbastanza. Del resto, in un articolo datato 8 ottobre si sosteneva che solamente 451 persone sarebbero dovute sbarcare a Bari. La scintilla della protesta dei migranti pare sia scaturita dal fatto che il portellone di imbarco/sbarco sia stato improvvisamente chiuso con l’ordine di ripartire per Lampedusa – ma tengo a precisare che, con i miei occhi, non ho visto niente di tutto ciò, in quanto di turno altrove. In ogni caso, quando ha cominciato a circolare la parola ‘Lampedusa’ tra gli ospiti, repentinamente si sono agitate le acque, perché in molti hanno pensato che sarebbero stati riportati indietro, verso la Tunisia».
Ci descrive le procedure di sbarco e richiesta asilo? Erano molti i migranti espulsi e, nel caso, erano caricati su aerei o altri mezzi e riportati nei loro Paesi?
L.S.: «Quando una persona arriva a Lampedusa come migrante illegale, la stessa è subito registrata dalle autorità competenti sia a livello di identità che di provenienza. I tunisini, per esempio, hanno poche chance di ottenere l’attivazione delle pratiche per la richiesta d’asilo, perché il loro Paese non è in guerra e non sussistono situazioni politiche particolari che comportino violazioni dei diritti umani. In altre parole, l’Onu non garantisce ancora il diritto di migrare per motivi economici e l’Unhcr protegge solo i richiedenti asilo a causa di conflitti armati, o della sistematica violazione dei diritti umani ufficialmente riconosciuta. Per quanto riguarda l’Italia (secondo la Convenzione di Dublino, ovvero il Regolamento di Dublino III, che l’Unione Europea ha partorito e ‘responsabilizzerebbe’ i Paesi firmatari), in estrema sintesi, chi è espulso in automatico è già stato segnalato dalle forze dell’ordine italiane, o da altri, ed è portato in centri appositi e da lì imbarcato su un aereo e riportato al Paese di origine con apparati delle stesse forze dell’ordine. Al contrario, chi ha il permesso di 7 giorni per lasciare il territorio, non avendo segnalazioni a carico (com’è accaduto a Aouissaoui), è lasciato presso una stazione ferroviaria. Trascorsi i 7 giorni, se rimane in Italia o in Europa passa allo stato di clandestinità».
Perché, a un certo punto, hanno sigillato la nave, rinchiudendo operatori, volontari e migranti ‘rivoltosi’ insieme?
L.S.: «Questo è esatto. Solamente dopo 24 ore la situazione a bordo si è calmata, grazie alla mediazione, spesso via altoparlante, dell’unica persona a bordo che aveva tale compito – ossia, il mediatore egiziano di cui ho già detto (naturalmente su direttive del Capo missione). A mio avviso, il Governatore Michele Emiliano ha realmente contattato il Viminale per far valere le proprie rimostranze, e quest’ultimo, in risposta, deve aver dato ordine di far ripartire la Rhapsody alla volta di Lampedusa, dove in quei giorni di bel tempo stavano arrivando molti piccoli natanti dalla Tunisia. Non a caso, si contavano sull’isola circa 700 nuovi migranti. A conferma di ciò, i colleghi del ponte di sbarco mi hanno riferito che, in soli dieci minuti, tutto il personale addetto agli iter burocratici – dalla polizia scientifica alla Questura, dall’Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera, n.d.g.) agli agenti di controllo (per contrastare le potenziali fughe) – era sceso a terra improvvisamente. È ovvio, quindi, che ci sia stato un comando dall’alto – con probabilità dalla Prefetta di Bari – ricevuto dai vertici. Sono stati i migranti stessi, già sul ponte di sbarco per le procedure, ad avvertire gli altri, rimasti sui ponti di riferimento in attesa di essere chiamati a loro volta. Appena il portellone è stato chiuso, è partito il tam-tam. I migranti, infatti, in quel momento stavano scendendo compostamente, un gruppo alla volta, come indicato dalle liste di nomi fornite dai referenti della Questura. Improvvisamente, migranti, operatori della Cri e staff di bordo siamo diventati tutti ostaggi – per ben 24 ore – non della protesta a bordo, bensì della politica sulla terraferma».
Cosa è successo in quelle ore? C’è stato chi ha temuto per sé tra i volontari o gli operatori? E come si è risolta la situazione?
L.S.: «In quelle 24 ore, noi di Croce Rossa abbiamo mantenuto una linea neutra e attive tutte le nostre mansioni abituali, continuando ad assistere a livello sanitario chi poteva averne bisogno e distribuendo i pasti principali. Come già detto, la mediazione è stata indispensabile per la risoluzione del momento difficile, ma nessuno dei migranti ci ha dato modo di pensare che fossimo in pericolo. Ovviamente, il Capo missione aveva dei precisi compiti riguardo alla nostra protezione e sapevamo di doverci rinchiudere in cabina, in caso di disordini. Ma l’unico evento insolito è stato il tentativo di furto, con scasso, di merce conservata nel bar situato all’ultimo piano della nave; mentre alcuni ospiti si sono gettati in mare, ma sono stati intercettati quasi subito dalla motovedetta della Guardia Costiera che si teneva a breve distanza. Anche il responsabile del furto è stato individuato dalla security. Per calmare gli animi, sono state distribuite delle sigarette. Quando sono ripresi gli sbarchi, poi, è tornato tutto alla normalità».
(Per la seconda parte dell’intervista: https://www.theblackcoffee.eu/la-quarantena-in-uno-sprar-seconda-parte/).
In copertina: la nave quarantena Rhapsody in arrivo al porto di Bari
Foto ©Laura Sestini (tutti i diritti riservati)