Pillole di coronavirus
di Simona Maria Frigerio
Abbiamo cercato disperatamente di non ritornare sull’argomento Covid-19 e di non analizzare le ultime misure di questo Governo, viste le prossime elezioni. Ma, confortati dalle dichiarazioni dei politici della maggioranza che hanno affermato non essere, queste, elezioni politiche e che non avranno conseguenze sul Parlamento nemmeno se la coalizione perdesse tutte le Regioni al voto, ci sentiamo liberi di analizzare l’ultimo Dpcm, emanato (come i fu editti bulgari) il 6 settembre e valido fino a fine mese.
Come apprendiamo da Repubblica.it: “il ministro della Salute ha vietato il ballo nei locali pubblici e imposto l’obbligo di mascherina anche all’aperto, nei luoghi della movida dove è più facile che si creino assembramenti, dalle 18 alle 6 del mattino. Confermate le nuove regole sui mezzi pubblici, la cui capienza limite è fissata all’80% dei posti (anche per chi viaggia in piedi) mentre gli scuolabus potranno viaggiare pieni purché i ragazzi non restino a bordo più di un quarto d’ora”.
Ora, aldilà che queste erano misure in gran parte in vigore fin da agosto, analizziamo un attimo il contenuto senza farci prendere dall’euforia (come è capitato ad alcuni miei colleghi) perché – nonostante l’aumento dei casi positivi giornalieri, in gran parte asintomatici o, con un nuovo termine in gran voga, pauci sintomatici – non sono state imposte norme troppo restrittive o nuovi lockdown generalizzati (che il Premier nega anche per il futuro, ma sappiamo per esperienza che Giuseppe Conte può cambiare idea anche nel giro di 48 ore).
Partiamo dal divieto del ballo nei locali pubblici – e, quindi, non solamente le vituperate discoteche ma anche, immaginiamo, le sale del liscio frequentate da coppie spesso anziane e monogamiche – che conferma la chiusura di ritrovi ludici i quali, aldilà che piacciano o meno, hanno un giro d’affari di circa 4 miliardi di euro, 50 mila persone che vi lavorano delle quali oltre il 36% al di sotto dei trent’anni. Chiudere le discoteche ha significato togliere i mezzi di sussistenza ad altrettanti lavoratori e alle loro famiglie, soprattutto in un Paese come l’Italia dove la disoccupazione giovanile raggiunge il 22% tra i 15 e i 29 anni e oltrepassa il 30% nella fascia 15/24 anni. Ma non solo: ha ancora una volta portato in primo piano l’interesse di questo Governo per scelte di stampo moralistico più che per il contenimento di un’epidemia.
Basta confrontare tale scelta con quella di aumentare fino all’80% la capienza sui mezzi pubblici, anche per chi viaggia in piedi, per capire che la dicotomia è stridente. In primis, chi conterà quante persone salgono e scendono, a ogni fermata, tra quelle in piedi e se è mantenuta o meno la percentuale rispetto alla capienza? Secondo, contagiarsi respirandosi addosso su un pullman affollato è più accettabile che contagiarsi ballando con il proprio partner in una discoteca perché, nel primo caso, si sta andando al lavoro e, quindi, a produrre mentre, nel secondo, ci si sta divertendo?
Il limite dei 15 minuti per gli scuolabus pare quasi fantozziano. Ci chiediamo come agirà l’autista se lo scuolabus è in ritardo per il traffico: si fermerà in mezzo alla strada e scaricherà i bambini dato che è scoccato il quarto d’ora fatidico, dopo il quale il contagio inizia ad ammorbare l’aria? Ma si sa che il nostro Covid-19 è un virus pazzerello, e infatti sembra quasi che potremo assembrarci dalle 6.00 alle 18.00 ma non dalle 18.00 alle 6.00. Che senso avrebbe, se no, imporre la mascherina nei luoghi della movida o dello struscio solamente in alcuni orari? Se mi ritrovo in via Monte Napoleone, a Milano, alle 15.30 in punto del primo giorno di saldi, tra orde di shopping addicted, non mi contagio ma devo stare attenta se sono in fila (mantenendo il metro di distanza) di fronte alla mia gelateria preferita alle 20.30?
E non aggiungiamo nulla sulla scuola, con quegli insegnanti così fragili da non poter entrare in classe, mentre migliaia di commesse altrettanto fragili si sono dovute letteralmente sciroppare i clienti durante i mesi più gravi della pandemia. O il fatto che nessuno al Governo (e soprattutto la Ministra Azzolina che, pure, ci pare sia andata giustamente al mare a godersi delle meritate ferie) si sia accorto che da tre mesi i bambini corrono, giocano e si rotolano insieme nei prati e sulle spiagge senza mascherine – e non per questo si sono contagiati o hanno contagiato centinaia di migliaia di nonnini (che, si vede, hanno imparato a fare anche altro a parte cercare di sostituirsi ai genitori e ammorbare l’anima dei nipotini che, magari, preferiscono stare con i loro coetanei).
Passiamo all’università. In attesa di capire bene quali e quante università riapriranno effettivamente i battenti a quel 50% in presenza, ci permettiamo di far notare che, nel frattempo, migliaia di proprietari di alloggi per studenti, o di bar e piadinerie, direttori di teatri e cinema – per i quali non sono ancora stati aumentati i limiti di capienza e, anche in questo caso, ci si chiede perché si possa stare pigiati su un autobus ma non in un teatro o un cinema, dove almeno ci si siede e si guarda tutti nella stessa direzione – e tanti altri imprenditori e lavoratori sperano che – da L’Aquila a Pisa, passando per Bologna e Milano – le università ricomincino a pulsare dato che, altrimenti, il dissanguamento per molti sarà l’esito finale di una crisi che ormai si protrae da oltre sei mesi.
Del resto, qualsiasi provvedimento legislativo, soprattutto nel settore economico, dovrebbe sempre tenere conto delle conseguenze sull’indotto. Così come quando si promette un 110% si dovrebbe inserire in bilancio e fissare un limite massimo di spesa.
E chiudiamo con la speranza che finalmente i ministri degli esteri di questa Europa sempre più allo sbaraglio si mettano d’accordo per approntare sistemi di monitoraggio veloce così da permettere gli spostamenti – senza tema di essere bloccati in un Paese o di doversi rinchiudere dieci o quindici giorni, non si sa nemmeno dove, nel caso si sia all’estero. Procedure uniformi, che comportino tamponi veloci nei porti e negli aeroporti o il tampone prima della partenza (fino a 72 ore), valide ovunque e contrattate come Unione Europea anche verso i Paesi terzi, rimetterebbero in moto il settore dei viaggi sia dei turisti sia del mondo del lavoro, e ridarebbero fiato a molte economie che sono ormai alle corde.
Ma non solo. Perché se il Pil in Occidente va a picco, anche gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo (per quanto limitati e spesso indirizzati a progetti che interessano più gli Stati donatori che non i riceventi) non godranno di buona salute. Confermano, purtroppo, questa preoccupazione i dati sull’aumento della mortalità per malaria (672.934 al 7 settembre a fronte di 405.000 nell’intero 2018, di cui il 67% erano bambini al di sotto dei 5 anni) e per HIV/Aids (1.153.290 in pari data, a fronte dei 770.000 del 2018).
In copertina: Danze balinesi, particolare tratto da una stampa di una foto d’epoca (vietata la riproduzione).