Istantanea del CPR di Milano
di Laura Sestini
Abbiamo ripreso il titolo dal report, molto ben strutturato ed eloquente, redatto a seguito di una visita al CPR milanese di Via Corelli, di una delegazione composta dai Senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino e dai loro accompagnatori facenti parte della rete Mai più Lager – No ai CPR. La visita si è svolta nei giorni 5 e 6 giugno 2021 per un’iniziativa del Senatore De Falco.
Cosa è un CPR? L’acronimo cela i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Qui la descrizione sul sito della Camera dei Deputati, dove nella lista manca proprio quello di Milano, posto in una zona molto periferica della città, aperto a settembre 2020, ma poi presente nel sito del Ministero dell’Interno, come ‘aperto’.
In sintesi i CPR sono delle strutture dove vengono ‘trattenuti’ cittadini stranieri trovati senza permesso di soggiorno, o entrati in clandestinità dopo averne perso i diritti, che attendono di essere rimpatriati nei Paesi di origine, qualora con detti Stati ci siano degli accordi bilaterali precisi sulla pratica. Talora non ce ne siano i requisiti, le persone entrano in un limbo burocratico infinito, e rimangono in questi luoghi fino a che non succeda qualcosa di eccezionale, come per esempio nella storia di L.A. che ritroviamo sul report, ripreso dalla sezione “Gravi carenze nella tenuta dei registri e nella procedimentalizzazione dell’operatività.”
“Emblematico della superficialità della gestione e della scarsa cura della documentazione, e quindi della trasparenza, di quanto accade nel centro (oltre che della scarsa cura delle sorti dei trattenuti, pur nella posizione di garanzia evidentemente assunta), è il caso di L.A.
Caso di gravissima fragilità psichica (disturbo della personalità, grave agitazione psicomotoria, ripetuto autolesionismo con numerose ferite da taglio e plurima frattura d’arti, tentativi di suicidio tramite ingestione di stoffa, lamette e oggetti metallici, auto-suturazione delle labbra), si insisteva particolarmente per l’approfondimento della sua posizione fin dal primo giorno di accesso, ma in infermeria non si recuperava nessuna informazione, non riuscendo gli infermieri di turno (assunti pochi giorni prima) a reperire il relativo incartamento.
Il 6 giugno si insisteva per avere notizie dall’operatore messo a disposizione del gestore, alla presenza dell’incaricato della Prefettura, e si apprendeva che L.A. era stato in realtà già rilasciato il 2 giugno (evento del quale l’avvocato dell’interessato non era stato notiziato, nonostante un procedimento cautelare in corso con udienza a breve), come pure si apprendeva che egli era stato sottoposto ad un TSO in data 26 maggio.
Dalla struttura di ricovero era quindi rientrato solo il 2 giugno, per essere dimesso dal Centro in pari data con attestazione di non compatibilità della sua situazione con la condizione di trattenimento, in quanto pericoloso per sé e per gli altri, e raccomandazione di trasferimento in struttura psichiatrica a firma di F.I., direttrice sanitaria del centro: la scheda firmata per ricevuta del ritiro degli effetti personali terminava con la sola ‘indicazione “ALTRO” alla voce relativa all’esito del trattenimento, come alternativa al rimpatrio, sicché non è stata lasciata traccia alcuna della sorte di L.A. dopo il suo rilascio nelle citate gravissime condizioni. Non essendo questi in possesso di un telefono cellulare, anche il suo avvocato ha totalmente perso ogni contatto con lui e non se n’è più avuta notizia.
La gestione dei CPR è affidata per bando pubblico ad Enti privati, i quali – riportato in un post sui Social della rete degli attivisti – una volta vinto il bando a Potenza, l’altra a Milano o Trapani, i soggetti partecipanti sono sempre gli stessi, professionisti del settore carcerario con sedi anche estere.
“Una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti – e meno regole –
che in carcere. Il vuoto normativo lascia spazio all’arbitrio e quindi alla tensione.”
Tra le altre problematiche di ordine strutturale che gettano pesanti ombre sulla coerenza e sulla legittimità stessa del CPR di via Corelli e di tutti i CPR, prima ancora che sul loro funzionamento, ha un posto di preminente importanza il fatto che si tratti di una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita – è il verbo corretto – senza che venga celebrato alcun processo.
Il clima e l’ambiente carcerario sono quel che colpisce fin da subito, e fin dall’esterno, con le mura altissime, le guardiole, le decine di agenti di sicurezza e le varie barriere di controllo, per poi accedere al susseguirsi di grandi porte blindate ed enormi chiavistelli. Introdotti nel corridoio principale, si susseguono sulla sinistra i finestroni prospicienti sui due cortili dei due settori abitativi, ovviamente muniti di solida rete: alla vista, chissà dopo quanto tempo, di movimento di persone non in divisa, è tutto un accorrere accalcandosi alle reti protraendo le mani e le dita per attirare l’attenzione per chiedere aiuto, rappresentare la propria situazione e mostrare le proprie ferite nel più breve tempo possibile.
Presi d’assalto dalle mille storie una volta oltrepassata la porta blindata d’accesso al modulo abitativo, non sono potuti sfuggire, nella piccola sala mensa (troppo piccola per contenere con il dovuto distanziamento 28 persone), la scarsa luminosità e il totale anonimato della stanza, la presenza solo dell’essenziale, ovvero delle panche e dei tavoli verdi di metallo agganciati al suolo come qualsiasi altra cosa (per evitare che siano divelti in caso di protesta), e la presenza di un televisore coperto da una rete, troppo in alto per essere guardato, e il cui telecomando è solo nelle mani degli operatori.
Le stanze, da quattro posti, scarne all’inverosimile, non prevedono nessun armadietto o spazio per custodire i propri effetti, che restano tutti esposti sulle mensole murate. Dei bagni che sono un affronto alla dignità umana. I cortili sui quali sfocia ciascuna sala mensa dei due settori sono anche questi troppo piccoli per consentire la compresenza di 28 persone con adeguato distanziamento, e non prevedono neppure una panca per potersi sedere e socializzare, tant’è che molti si siedono per terra; tutto è circondato da imponenti ed alte cancellate con un preponderante effetto “gabbia”, che culminano poi in grandi pannelli di plexiglass che claustrofobicamente coprono gran parte dell’apertura verso il cielo.
Stivati in questi ambienti asfissianti, da un lato l’eccitazione per la novità e dall’altro la tensione della ricerca di essere ascoltati e poter porre domande (sulla loro situazione e la loro sorte!) si toccano con mano. Ma quel che è respirabile è l’angoscia, generalizzata, condivisa da tutti senza eccezione, di essere in un luogo senza sapere perché, dove ci si è finiti nel giro di poche ore da quando si è stati fermati, senza spiegazioni e senza informazioni circa la durata della propria permanenza. E soprattutto, dove ci si è finiti senza un processo, che li abbia giudicati per un qualche atto che abbiano compiuto e che abbia consentito loro di difendersi, spiegare, comprendere la motivazione per cui si è stati condannati alla privazione della libertà personale, e anche la durata della pena attraverso la quale ci si aspetta si espii la propria “colpa”.
Perché nel CPR non si finisce per un comportamento, per un’azione compiuta, ma per il fatto di essere qualcosa, ovvero uno straniero privo di titolo di soggiorno. E la convalida del trattenimento avviene entro poche ore da quando si è stati fermati, in un’udienza di pochi minuti (in media, si dice, meno di cinque), che spesso neppure si avverte essere un’udienza, considerato che tutto si svolge in una normale stanza dinanzi (spesso, collegati in via telematica) ad una persona che non si avverte come giudice, ed un’altra, altrettanto sconosciuta – o tutt’al più vista pochi minuti prima – che non si avverte come proprio difensore, anche perché per lo più di solito spende pochissime parole per rimettersi alla volontà del Giudice.
La netta sensazione che si è avverte è che il fatto di non passare attraverso un giudizio, di non avere una pena da scontare (tantomeno con fine – pretesamente – rieducativo e socialmente espiatorio), né di ricevere adeguate spiegazioni sulle ragioni per le quali si è finiti in un carcere nel giro di poche ore (la cosa risulta ancora più incomprensibile per chi proviene direttamente dal carcere, prelevato dalla soglia nell’istante in cui si è vista la luce e si è avvertita per un attimo la sensazione di avere integralmente saldato il proprio debito con la legge); ma soprattutto che il fatto di non avere praticamente alcuna informazione sulle prospettive di durata del trattenimento pongano il trattenuto in una situazione di incredulità mista a inquietudine che lo getta in una situazione di turbamento – senza voler fare paragoni comunque tra due situazioni drammatiche – ancora più spiccata rispetto a quella del recluso, che può metabolizzare la propria pena, sapere quale sarà la sua durata massima e perché, chiamare il proprio avvocato quando desidera, sentire i propri cari, e rivendicare i propri diritti.
Nonostante chi è nel CPR non sia lì per aver commesso un reato, si ritrova in definitiva privato della propria libertà personale in una struttura in tutto e per tutto simile a un carcere, ma senza usufruire dei servizi forniti dallo Stato nel sistema penitenziario, senza vedersi riconosciuti i diritti del detenuto.
E’ infatti sufficiente un rapido confronto tra la Carta dei Diritti e dei Doveri dei Detenuti e degli Internati e le Carta dei Diritti e dei Doveri dello Straniero nel Centro di Identificazione ed Espulsione – che peraltro, come detto, molti dei trattenuti intervistati dichiarano di non aver mai visto – per avvertire la netta differenza dei diritti riconosciuti all’uno e l’altro; ma è comunque notorio a chi abbia una qualche pratica di entrambe le situazioni detentive che, al di là delle già ampie differenze sulla carta, i diritti del trattenuto nel CPR restano appunto solo parole – molte generiche – su detta Carta, che spesso neppure gli viene consegnata.
Ci limitiamo qui ad invitare al confronto tra l’articolata disciplina in materia penitenziaria della Regione Lombardia ed il nulla più assoluto del CPR, dove, come detto (II.1.2 – L’assenza del protocollo Prefettura – ATS) neppure il Protocollo previsto dall’art. 3 del Regolamento CIE è stato mai concluso, tra Prefettura e ASL, con conseguente impenetrabilità del servizio sanitario pubblico nel centro di via Corelli.
Ma al di là della materia specifica che si voglia prendere in considerazione, la differenza sostanziale è che, tra la detenzione carceraria e il trattenimento nei CPR, l’abisso di garanzia di tutela è enorme per il fatto stesso che in un caso è prevista per legge una articolata disciplina dell’ordinamento penitenziario e nell’altro sta, quale unico e ultimo baluardo a difesa del trattenuto, solo lo scarnissimo, lacunoso Regolamento CIE 2014, più volte richiamato, la cui fonte amministrativa ci pare essere il pretesto – ovviamente illegittimo – per una sua quotidiana violazione.
Solo per dirne una, mentre in un caso trova cittadinanza un Tribunale di Sorveglianza per esaminare per via giudiziaria questioni relative ai diritti dei detenuti penali durante l’esecuzione della pena carceraria e alla concessione e alla gestione delle pene alternative alla detenzione, ebbene, nell’altro caso, solo grazie alla L. 130/2020 è stata introdotta (solo) la possibilità, per lo straniero in condizioni di trattenimento, di rivolgere non meglio precisate “istanze o reclami” al Garante nazionale ed ai Garanti regionali e locali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, laddove per il Garante è stata introdotta la facoltà di formulare, a fronte dei reclami stessi, solo specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata.
Manco a dirlo, nessuno dei trattenuti è al corrente di tale facoltà, ma soprattutto – nella impossibilità di fatto di utilizzare carta e penna (vietate nei CPR, concesse solo a richiesta e utilizzate sotto sorveglianza, da Regolamento) e con le limitazioni di facoltà telefonica sopra illustrate, che pregiudicano fortemente già
la possibilità di consulto del proprio avvocato e figurarsi del garante – tale facoltà risulta impercorribile. E
ove percorsa, per lo più priva di alcuno sbocco concreto, visti anche gli scarsi strumenti (le “raccomandazioni”) a disposizione dei garanti.
Se poi si considera che il vuoto normativo, come puntualmente accade e anche nello specifico, lascia il posto al più ampio arbitrio, alle prassi incontrollate e incontrollabili, e che ove mai vi fossero diritti sulla carta, di essi non viene data informazione agli interessati – costantemente all’oscuro di tutto ciò che gli sta accadendo e per quanto gli sta accadendo – ecco che quel che ne viene fuori è il contesto più favorevole per l’abuso del potere e per la costante violazione dei diritti, fino allo stadio del mancato rispetto della dignità umana.
Sull’altro fronte, invece, il non capire dove ci si trovi e perché, il non potere rivendicare diritti né contatti con l’esterno che in ciò possa sostenerli (e informarli), i quotidiani piccoli e grandi soprusi, e una complicata convivenza ad alta densità – uniti al timore, anzi consapevolezza, che nessuno può controllare quel che vi accade – ingenerano uno stato permanente di alta tensione ed uno stress psicologico che, non curato come non è curato nei CPR, alimenta un cocktail esplosivo che non può che sfociare in autolesionismo e proteste, spesso, come si vedrà, sedate con la forza, per tornare quindi allo stress, all’autolesionismo e via così, in una spirale mortifera in crescendo, che, prima che sia troppo tardi, va arrestata.
Il report sul CPR di Milano è ampio ed interessante, vale la pena leggerlo per venire a conoscenza di verità invisibili, di diritti primari reiteratamente violati e per comprendere meglio cosa possa anche significare – tra le altre cose – essere uno straniero senza permesso di soggiorno.
Il 20 gennaio un post di NoaiCpr su Instagram cita: “Gira in queste ore un video proveniente da Gradisca d’Isonzo che ritrae due persone trattenute riverse per terra in una pozza di sangue e una voce che grida che sarebbero morti. Mentre stiamo approfondendo attualità del video e soprattutto quanto accaduto, abbiamo inviato al Garante Nazionale per gli opportuni accertamenti.”
Nel CPR di Gradisca d’Isonzo – in provincia di Gorizia – si contano tre morti tra gli ‘ospiti’ dal 2020. L’ultimo – un uomo marocchino di 44 anni – il 15 dicembre scorso si è suicidato.
Sabato, 22 gennaio 2022 – n° 4/2022
In copertina: CPR di Corso Brunelleschi a Torino – Foto: Comune di Torino