sabato, Novembre 23, 2024

Cultura, Multimedialità

Dial M for… Robert Lepage

Su Rai5, il 23 gennaio, arriva il documentario di Annamaria Monteverdi e Simone Cannata

di Simona Maria Frigerio

In tempi in cui le attività culturali, la scuola di ogni ordine e grado, e le arti sembrano orpelli dei quali si può o meno fruire e che poco incidono sulla qualità di vita delle persone, in controtendenza si stanno aprendo alcuni spiragli nei palinsesti televisivi. Spazi dedicati non solamente alla messa in onda di spettacoli teatrali di qualità e fuori dagli schemi classico- borghesi (come L’istruttoria di Peter Weiss per la regia di Gigi Dall’Aglio) o di film usciti dai circuiti ufficiali della distribuzione quasi prima di entrarvi (quali Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone), ma anche a documentari che raccontano il lavoro che sta dietro alla macchina teatrale o cinematografica.

Documentari importanti sempre ma, in questi tempi, indispensabili se si vuole far comprendere come si siano evoluti tali medium artistici così da incuriosire lo spettatore, intrigandolo. Solo se comprendiamo qualcosa, infatti, riusciamo a sentirla nostra e ad apprezzarla. Le arti, figurative o performative che siano, non possono prescindere da questo semplice meccanismo psicologico. E solamente attraverso la comprensione si può arrivare a percepire uno spazio – altrimenti da molti considerato solamente ludico-ricreativo – come necessario. Con una battuta: è possibile che il teatro o il cinema, un quadro o una scultura siano necessari ben più delle ‘penne lisce’?

Ecco allora che Rai5 ospita, il prossimo 23 gennaio, Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage,il documentario firmato dalla docente e critica teatrale Annamaria Monteverdi, coadiuvata dal videomaker Simone Cannata, per raccontare una tra le figure più interessanti, innovative e poliedriche del palcoscenico internazionale – il regista, attore e sceneggiatore canadese, Robert Lepage. Un documentario nato, tra l’altro, nei giorni più bui del primo lockdown, il che prova una volta di più la resilienza intrinseca nel teatro – nel suo farlo, indagarlo, scoprirlo, goderne.

Abbiamo raggiunto digitalmente (date le chiusure di questi giorni) Annamaria e Simone per chiedere loro qualcosa di più su un progetto che va aldilà dell’ambito accademico ed entra a buon diritto e felicemente in un mezzo di comunicazione di massa, quale la tivù pubblica.

Tre caratteristiche che fanno di Robert Lepage uno tra i massimi registi contemporanei?
Annamaria Monteverdi: «Lepage è un visionario: ha l’abilità di restituire con immagini-simbolo, storie e racconti personali nei quali il pubblico si riconosce immediatamente; usa la tecnologia in modo equilibrato, rendendola parte integrante della drammaturgia; e ha un tale eclettismo da lavorare su tanti linguaggi: firma regie liriche, cinematografiche, per il circo e persino per eventi di show design (come i concerti di Peter Gabriel). Poi ne aggiungerei una quarta: è uno straordinario ‘mecenate’ artistico. Nella sua struttura, Ex machina, e nel suo nuovo teatro (purtroppo per breve tempo perché Le Diamant è stato inaugurato a settembre e ha chiuso a marzo a causa della pandemia) ha ospitato giovani talenti, incoraggiandoli in produzioni filmiche e progetti videoinstallativi».

Con il Covid-19 si è parlato molto di teatro, online e multimedialità. Spesso confondendo i termini. Lepage è un artista che usa da sempre più che la multimedialità in teatro, l’intermedialità artistica. Come è riuscito a conciliare le fantasmagorie del Cirque du Soleil con il rigore dell’opera nella Tetralogia wagneriana?
A. M.: «La filosofia che sta alla base è la stessa: una scenografia dinamica, in movimento, che diventa il cuore dell’azione teatrale e con la quale il performer/atleta o il cantante lirico deve confrontarsi. Solo l’unione di più linguaggi rende concreta, di fronte a noi, l’immagine della storia – che sia stata scritta in musica da Wagner, da Shakespeare o da Guy Laliberté (fondatore e proprietario del Cirque du Soleil, n.d.g.) non importa. Non dobbiamo però soffermarci troppo sulla tecnologia in sé, che, appunto, deve essere letta in armonia con tutto il resto. Per quanto riguarda il teatro on line, l’eccesso di produzioni in questo periodo di chiusura dei teatri va letto solo come grido disperato degli artisti che rivendicano una loro presenza nel mondo. Non sempre queste produzioni sono efficaci; anzi, spesso sono controproducenti anche per la loro stessa immagine. Saper gestire il mezzo non è una cosa che ci si può inventare. Sono pochi i progetti nati per e sul web che sono stati davvero importanti e che ci ricorderemo finita l’emergenza».

Com’è nata e quando l’idea di questo documentario?
A. M.: «Durante la pandemia. Non vi nascondo che per un paio d’anni ho cercato la ‘giusta forma’, avendo già i materiali a disposizioni – le interviste fatte a Lepage (girate da Alessandro Bronzini e Giuseppe Baresi), quelle allo scenografo Carl Fillion e altre al direttore d’orchestra Fabio Luisi. Ma non ci riuscivo, mi sembrava di dire troppo o troppo poco: parliamo di un artista di fama mondiale, considerato l’erede di Bob Wilson e che ha alle spalle quarant’anni di produzioni di altissimo livello. Così, ogni volta, ci rinunciavo. Poi, grazie alla collaborazione e all’amicizia con Simone Cannata, videomaker bravissimo che ha lavorato a lungo per varie reti televisive commerciali, mi sono data una regola, quella di una lettura semplice attraverso le tre parole che, a mio avviso, caratterizzano il teatro di Lepage: Memoria Maschera e Macchina. Che è anche il titolo della monografia che gli ho dedicato (Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage, Meltemi edizioni, 2018, n.d.g.). Così abbiamo incluso, in un bel montaggio, interviste e spezzoni in grado di rivelare questi tre elementi. Simone mi ha ‘salvata’, mostrandomi come si organizza al meglio lo storytelling. Abbiamo messo mano ai materiali durante il periodo più duro del lockdown, quando ti davi degli impegni importanti per non pensare a quello che stava accadendo fuori. Giacomo (Verde, pioniere e tra i maggiori esponenti italiani del videoteatro, recentemente scomparso, n.d.g.), con il quale avevamo girato le prime immagini a Quebec nel 2001, era stato ricoverato per una malattia terminale, tuttavia dal letto d’ospedale aveva visto quelle immagini e aveva approvato. Anche la mamma di Simone era partecipe del nostro lavoro, sebbene paresse la classica ‘impresa impossibile’ perché un montaggio fatto a distanza, senza mai confrontarsi direttamente, era complicato. La morte di lei e di Giacomo ha interrotto il tentativo; ma poi, proprio il lutto ci ha dato la forza e la motivazione necessarie per riprendere il lavoro, terminarlo e dedicarlo a loro. Lo abbiamo mandato alla Rai e, in meno di una settimana, Giulia Morelli e Felice Cappa ci hanno risposto che il documentario era bello e che sarebbe stato programmato. Ancora oggi, quando ne parliamo io e Simone, ci stupiamo di tutto quello che abbiamo fatto e di essere riusciti a raggiungere uno standard di qualità così elevato: quello richiesto, appunto, da una rete nazionale».

Quanto è difficile per una donna e per un’accademica, oggi, trovare finanziamenti e spazi per produrre e trasmettere documentari e programmi di qualità?
A. M.: «È un’impresa complicatissima. Occorre fare progetti europei, progetti col Miur – sperando di trovare risorse aggiuntive, altrimenti non si riesce a fare molto. La produzione documentaria non è centrale alla mia ricerca accademica, ma lo diventa nella fase conclusiva – quando devo diffondere i risultati. Così è stato con il lavoro su Jeton Neziraj, con Andrea Cosentino, con Tomi Janežič (rispettivamente, drammaturgo kosovaro; drammaturgo e attore italiano e regista teatrale sloveno, n.d.g.). Una produzione video di livello professionale ha dei costi molto elevati, che la messa in onda di certo non copre. Ogni volta bisogna ‘esplorare’ potenziali opportunità di finanziamento. Io, poi, non sono brava a fare queste cose perché richiedono tempo, impegno, public relation… Adesso sto lavorando a un bando Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale, n.d.g.) per gli archivi multimediali ed è oltremodo complicato. Inoltre, il fatto di essere donna forse non giova, anche se in Università le cose stanno decisamente cambiando. Per fortuna ormai sono sul ‘campo’ da un po’ di tempo e, in genere, il mio lavoro parla per me».

A chi si rivolge il documentario e con quale linguaggio?
A. M.: «È per tutti. Inizialmente, un anno e mezzo fa, con Lino Strangis (artista intermediale tra i più interessanti, al momento, nel nostro Paese, n.d.g.), avevamo provato a fare uno ‘strappo’ e a immaginare un videodocumentario creativo molto alternativo – videoartistico, appunto. Una sperimentazione interessante e che ho amato moltissimo, ma rivolta, forse, a un pubblico più specialistico. Quest’ultima versione – elaborata con Simone – è semplificata ma solo sul piano narrativo, e può soddisfare una fascia di spettatori più ampia. Questo non significa che sia stato più semplice realizzarla! Anzi…».

Robert Lepage di fronte alla macchina da presa invece che in cabina di regia. Come riassumerebbe il ritratto che ne è emerso?
A. M.: «Ogni volta che lo intervisto so già come risponderà. Robert conosce quasi da ‘copione’ qual è l’immagine che vuole dare al pubblico e ha una serie di immagini e storie che racconta, magari con variazioni, che sono sempre molto efficaci e sintetiche – televisive, appunto. È fantastico lavorare sulle sue interviste perché risponde andando subito al punto e in maniera concisa. Essendo anche regista cinematografico, sa che montare un’intervista lunga è complicato. Comunque, ricorderò sempre l’intervista che gli feci a Lyon. Due giorni prima si erano svolti i fatti di sangue al Bataclan di Parigi e siamo arrivati in teatro sorvegliati dalla polizia – scortati. Non ci permisero di girare dove volevamo per motivi di sicurezza. Così, con Elisa Lombardi (studiosa di teatro e collaboratrice per alcuni anni della Compagnia di Robert Lepage, n.d.g.) abbiamo allestito un set improvvisato in ufficio. Avevamo un’ora a disposizione. E Robert è stato davvero ‘generoso’ con le sue risposte».

Quale il ruolo della televisione come veicolo per il medium teatrale?
A. M.: «Penso che ci siano due funzioni, quella ‘documentaria’ – dove lo spettacolo è riproposto con tutte le limitazioni che può avere la visione di un linguaggio che richiede partecipazione emotiva, presenza ed empatia. E un’altra, che definirei ‘nuova scrittura’ – un’operazione che, in questo periodo, ha fatto ad esempio Mario Martone con il Barbiere di Siviglia, in occasione dell’inaugurazione del Teatro dell’Opera di Roma. Un capolavoro assoluto. Per quanto mi concerne, cerco di cogliere l’opportunità, più unica che rara, di avere accesso agli archivi teatrali messi finalmente a disposizione del pubblico. Questi ‘tesori’ restano, generalmente, rinchiusi a doppia mandata nei cassetti dei teatri, quando al contrario sarebbero linfa vitale per gli studiosi (Madre Coraggio, della fine degli anni Cinquanta, per esempio, era in streaming sul canale del Berliner Ensemble in questi giorni). Non solo è difficile vederli come spettatori, ma persino farne occasione di ricerca, di lezioni, di divulgazione in quanto protetti da copyright. Personalmente non credo che gli archivi dei teatri nazionali abbiano reso un buon servizio agli artisti seppellendo le loro ricchezze dentro armadi polverosi. Forse con la pandemia ci si è finalmente accorti del valore dell’Open Access, tema a cui sono particolarmente sensibile».

Il testimone passa idealmente a Simone Cannata, al quale chiediamo subito come si sia posto di fronte alla sfida di un regista che racconta il lavoro di un altro regista.
Simone Cannata: «Non è mai facile porsi in un’ottica di racconto di un altro artista. Da regista la tendenza sarebbe quella di mettere in gioco una costruzione narrativa basata sulla propria visione creativa, con il rischio di togliere autenticità alla poetica del regista raccontato. Bisogna stare attenti a delimitare bene il recinto del proprio modello creativo, separandolo dall’oggetto della narrazione – che deve trasparire nel modo più autentico possibile. Per alcuni versi la regia di un lavoro come questo deve essere ‘di servizio’, in quanto ciò che deve emergere è la visione artistica originale di Robert Lepage. Il rovescio della medaglia è che, per adempiere a questo compito, è comunque necessario costruire un racconto che accompagni il pubblico alla scoperta dell’artista. Ogni volta che ci mettiamo in comunicazione con gli altri, attraverso qualsiasi medium, siamo chiamati a raccontare una storia. E i meccanismi di racconto non sono mai del tutto oggettivi. Parafrasando Lepage, si ricorre a dispositivi di auto-finzione in quanto si parte da dati reali, oggettivi e storici, ma parimenti entrano nella costruzione narrativa una serie di elementi come la nostra visione soggettiva della realtà, la nostra storia personale – unica e irripetibile – la nostra sensibilità. E questa è la cifra creativa di un lavoro come questo, ovvero la rielaborazione dell’ecosistema Lepage in una chiave che trasmetta al pubblico la voglia di conoscere meglio questo artista. Riassumendo potrei dire che gli ingredienti fondamentali per raccontare da regista un altro regista sono, da un lato, il rispetto oggettivo e filologico dell’artista raccontato; e dall’altro, la costruzione di un modello narrativo appassionato, emozionale e autentico, così da arrivare al pubblico… e forse la vera, grande sfida è questa!».

Com’è stato coinvolto in questa avventura?
S. C.: «È stata davvero un’avventura! Partiamo dall’inizio. Era una mattina di metà gennaio e avevo un appuntamento con Annamaria Monteverdi presso l’Università Statale di Milano. Ricordo che quando arrivai di fronte al suo studio trovai – davanti alla porta chiusa – uno zaino da cui fuoriusciva un’agenda. Anna non la conoscevo e come mi spiegò, arrivando trafelata dal corridoio dopo una decina di minuti, era andata a cercare le chiavi dello studio in quanto era appena tornata da un viaggio di lavoro di qualche settimana in Slovenia. Ecco, se fosse stata un’opera di Lepage, lo zaino e l’agenda sarebbero stati sicuramente i due oggetti-risorsa dai quali l’artista sarebbe partito nella costruzione narrativa. Mentre parlavamo di altro, Anna mi raccontò di una mostra fotografica che stava curando. L’artista, Marzio Emilio Villa, aveva realizzato un reportage fotografico ispirato allo spettacolo Kanatà di Lepage. Pur amando il teatro dovetti ammettere di non conoscere il regista canadese e lei mi espose in poche, chiarissime frasi la sua poetica accendendo in me la curiosità. Dato l’alto tasso di sperimentazione delle sue opere, le contaminazioni con tutte le altre arti, in primis videoproiezioni e cinema, pensai che mi sarebbe stato utile per il mio lavoro. Accogliendo il mio desiderio curioso Anna mi propose di partecipare all’allestimento della mostra girando un video promozionale per la stessa. Poi arrivò il Covid-19 e la mostra saltò. Con il lockdown ci ritrovammo tutti isolati nelle nostre abitazioni. Su mia richiesta Anna continuava a mandarmi materiali su Lepage, visto che mi stavo appassionando sempre di più all’artista canadese. Durante precedenti incontri da persone libere, davanti a un caffè, mi aveva più volte raccontato di voler creare un documentario su Lepage – perché lei è il Mauna Loa delle idee creative, una fucina di neuroni collidenti da cui fuoriescono progetti come non ci fosse un domani. Forse la migliore definizione potrebbe essere: una sognatrice concreta. Per non peccare di piaggeria non glielo dissi, ma avevo trovato una persona che sentivo molto simile a me! Quindi, quando ci ritrovammo in lockdown, ci venne in mente questa ‘follia’ di metterci al lavoro sul documentario dedicato a Lepage. Anna iniziò a mandarmi centinaia di giga di girati. Seguirono fiumi di riunioni via Teams, doppiaggi fatti con il microfono del computer, diverse stesure, insomma una vera avventura durante la quale ognuno di noi ha perso persone fondamentali: il 25 marzo mia madre è stata vittima del Covid-19. Il 2 maggio moriva Giacomo Verde. A giugno, quando abbiamo finito il documentario, abbiamo deciso di dedicarlo a loro».

Quali affinità trova tra la sua estetica e quella di Robert Lepage?
S. C.: «L’estetica di Lepage è incentrata sulla Poetica della Memoria. È un’estetica che mi ha affascinato da subito e che affonda le proprie radici in quello che, forse, è il vero tratto distintivo dell’essere umano: i ricordi, che riaffiorano grazie alla memoria, e che l’uomo è in grado di riorganizzare in forma scritta – qualunque essa sia, anche teatrale. Su questi pilastri l’essere umano ha creato la società e le relazioni tra le persone. Penso che la cultura sia il prodotto della capacità umana di ri-cordare, etimologicamente ‘dar nuovamente cuore alle cose’, in una girandola di simboli, comportamenti, relazioni affettive che possono essere tramandate e riattivate grazie alle rielaborazioni co-costruttive generate dalle visioni proposte dai grandi artisti, scienziati, filosofi e uomini di lettere. Ma la cosa che più osservo e apprezzo, in qualità di regista, è il processo che usa Lepage per esprimere la propria estetica. Sto parlando della sua grande elasticità creativa nell’utilizzo di qualsiasi tipo di medium. Questa tendenza alla ricerca sperimentale anche estrema, la trovo davvero interessante e affine al mio modello estetico. Lepage è stato spesso criticato per l’utilizzo massivo di tecnologie nei suoi spettacoli, ma io credo che sia un modello che tutti dovrebbero seguire, solo così si può innovare, solo così si può creare qualcosa di autentico che apra la strada verso il nuovo. Lì c’è evoluzione, c’è l’atto creativo per eccellenza, ovvero c’è arte. Fare arte vuol dire uscire dalle strade conosciute, avventurarsi nell’ignoto – o andare oltre il noto. Se si ha questo coraggio, nemico del botteghino almeno inizialmente, si possono generare nuovi orizzonti di senso in grado di regalare bellezza e consapevolezza».

A livello pratico, come avete pensato di costruire la scaletta del documentario? Siete partiti con un progetto pre-delineato o avete visionato tutto il materiale e costruito la narrazione attraverso il montaggio?
S. C.: «Siamo partiti in maniera molto empirica. Mi spiego meglio, non avevamo uno script di partenza, ma una mole di materiale video di grandissimo valore ancorché molto eterogenea, frutto di anni di lavoro di ricerca di Annamaria. Quindi, la vera difficoltà è stata elaborare uno storytelling che creasse un filo conduttore coerente tra tutti questi materiali. Una delle soluzioni poteva essere quella di girare ulteriori scene che facessero da collante tra un argomento e l’altro, ma era impossibile a causa del lockdown. Così abbiamo iniziato a stendere sulla timeline del software di montaggio le cosiddette ‘buone’ per vedere se il materiale poteva reggere. Abbiamo optato per una divisione del film in tre parti riallacciandoci al titolo del libro di Anna. Poi ci siamo resi conto che avevamo bisogno di una voce narrante che amalgamasse gli argomenti tra loro. Io suggerivo gli argomenti e lei scriveva i testi. Poi li doppiava al computer e me li mandava. Io montavo, spostavo pezzi qua e là sulla timeline, cesellando ogni singolo taglio e mixando la musica come ulteriore supporto alla ricerca di un’armonia d’insieme – finché non abbiamo raggiunto un ritmo che abbiamo ritenuto soddisfacente. Non è stato facile. Siamo stati, quindi, molto orgogliosi di essere riusciti a creare un prodotto che la RAI ha acquistato subito».

Quanto è difficile per un videomaker, oggi, lavorare in Italia?
S. C.: «Sono sincero, è molto difficile. Il mercato dell’audiovisivo in Italia è molto legato alle lobby, come peraltro gran parte del business nella nostra nazione. Oggi però ci sono le nuove tecnologie, i nuovi media e, quindi, anche i metodi di produzione e distribuzione stanno cambiando e in maniera più democratica – finalmente. Se dovessi dare un consiglio ai giovani videomaker direi loro, in primis, di non permettere mai ai loro sogni di affievolirsi. I sogni sono come un fuoco, bisogna rifornirlo costantemente per non farlo spegnere. Sognare ed essere determinati nel raggiungere i propri obiettivi sono le caratteristiche principali per un filmmaker. Occorre inoltre essere versatili, avere capacità di adattamento plastico alle nuove tecnologie, alle modalità di comunicazione, agli strumenti e alle realtà artistiche contemporanee. Bisogna altresì saper entrare in tutte le fasi della creazione, perché se è vero che è tutto più democratico è anche vero che ci sono milioni di aspiranti filmmaker. Bisogna essere un po’ la mucca viola di Seth Godin: in una mandria di milioni di mucche bianche, questo potrebbe fare la differenza».

Cosa le rimarrà di questa esperienza, sia professionale che umana?
S. C.: «La consapevolezza, ancora una volta, che tutto è possibile, dipende solo da noi, dalla nostra fede in noi stessi e dalla determinazione ardente nel voler raggiungere un obiettivo».

Sabato, 9 gennaio 2021

In copertina: Il regista Robert Lepage (particolare di una foto gentilmente fornita da Annamaria Monteverdi, vietata la riproduzione).





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