martedì, Dicembre 24, 2024

Teatro & Spettacolo

Dialogando con Marco Cacciola

Essere attore di teatro quando la cultura è considerata un ambito di profitto economico

di Laura Sestini

Marco Cacciola è un attore di teatro formatosi a Milano, all’Accademia dei Filodrammatici, e senz’altro il suo accento ricorda la Lombardia; eppure sentendolo recitare in dialetto napoletano si potrebbe cadere nel tranello di considerarlo partenopeo. Di se stesso racconta che mentre era in Germania con spettacoli di Antonio Latella è stato chiamato a recitare in tedesco; guai se l’accento non fosse stato perfetto – piuttosto che da Gastarbeiter italiano – i tedeschi sono maniaci per la loro lingua, e non sarebbe stato possibile proseguire.

Quindi è possibile attribuire senz’altro a Cacciola una grande capacità di flessibilità e adattamento alle parti da interpretare, certo caratteristica indispensabile ad un attore, ma non del tutto scontata se riguarda idiomi diversi dalla propria lingua madre, e per di più approvata da un pubblico autoctono padrone di quella lingua. Quindi lo abbiamo ritrovato al Festival del Teatro della Campania interpretare un interessante Don Chisciotte in napoletano – mentre la sua controparte, Michelangelo Dalisi, vero napoletano, recitava in italiano senza cadenze – e in Germania esprimersi in lingua teutonica. Di sicuro la questione della lingua drammaturgica necessita di uno sforzo molto maggiore per portare in scena una parte in maniera credibile, compito che pare piuttosto facile per Cacciola.

Da qualche anno, Cacciola scrive e interpreta anche sue drammaturgie, che porta in scena come unico attore in rappresentazioni multimediali, tra cui Io sono. Solo. Amleto o Farsi silenzio, spettacoli attualmente in tour.

Come si sceglie il teatro quale arte per esprimersi? Una vocazione o una casualità?

Marco Cacciola: – Premetto che che conocessi il senso del teatro, di questo mestiere, probabilmente non lo farei. Io so cosa mi spinge a fare l’attore. Ho scelto (ironicamente) la “certezza” di questa professione contro l’insicurezza economica del lavoro per cui ho studiato, ingegneria meccanica. E soprattutto (ancora con ironia) il “riconoscimento” che il nostro Paese assicura a chi si dedica a professioni culturali e artistiche.

La mia passione per il teatro è nata piuttosto tardi, mentre ero studente universitario a Parma e non avevo mai avuto nessuna esperienza di laboratori teatrali. Piuttosto ero affascinato dalla poesia. Oltretutto le Accademie di arte drammmatica accettano giovani solo fino a 25 anni. Talvolta avevo accompagnato studenti a vedere delle noiosissime rappresentazioni teatrali, di solito quelle che hanno poco seguito, più fintamente tradizionali, spettacoli “morti”. Come se tutto questo significasse far capire ai giovani cosa sia il teatro. In realtà la tradizione teatrale è in mezzo a noi, e non è un fatto negativo. Ci sono persone che “mettono in vita” testi antichi di cui anche i giovani e giovanissimi percepiscono “il mistero”, ed è già una vittoria. Tra l’altro con esibizioni durante l’orario scolastico, in matinée, una pratica deleteria che io non condivido. Come regista, il mio ultimo lavoro è su Le rane di Aristofane, un superclassico, che ho vietato, a chi lo richiede, di calendarizzarlo la mattina. Gli studenti e gli insegnanti dovrebbero andare a teatro insieme a tutti gli altri spettatori, dove c’è l’anziano abbonato che si addormenta, oppure chi fischia o chi applaude, e chi si annoia e se ne va.

Il teatro è un’esperienza collettiva e come tale va fruita, non percepita dagli studenti come “saltiamo delle ore di scuola”. A Piacenza, dove sono nato e vivo, c’è lo stupendo Teatro Municipale, dove avevo visto qualcosa in giovanissima età. Ho incontrato poi l’arte teatrale mentre ero studente universitario, e lavoravo in un pub per mantenermi, grazie alla mia fidanzata di allora, che mi portò a vedere una rappresentazione per ragazzi realizzato dal Teatro delle Briciole, da cui fui molto colpito. Tempo dopo, la mia ragazza si presentò con il bando del Piccolo Teatro di Milano, lasciandomi perplesso, avendo io scelto una strada totalmente opposta. Lei vedeva in me qualcosa di cui non ero consapevole. Allora io ero già attivo politicamente, dal liceo come rapresentante di istituto, ma gli incontri relativi li organizzavo in luoghi più “culturali”, ovvero a teatro, in discoteca, discussioni sulla poesia o musicali, cercando di stimolare i miei compagni di corso.

Nel frangente, leggevo la poesia di nascosto, perché vivendo in un quartiere popolare potevi essere travisato. Negli Anni ’80 la periferia di Piacenza, come oggi per le persone di origine straniera, era luogo per immigrati dal Sud italia, la mia famiglia è di origine siciliana, quindi quartieri popolari solo per “terroni”. Era difficile uscire dai canoni della mascolinità tradizionale. In quanto al bando a cui mi spingeva la mia fidanzata, raccolsi tutti i documenti e poi non ebbi il coraggio di iscrivermi, per cui lei si arrabbiò moltissimo. Però al secondo anno di università, spesso, invece di andare a Parma, mi recavo in treno a Milano per vedere di nascosto il teatro-scuola civico di Paolo Grassi, dove mi sembrava di assistere alle prove di Saranno famosi, dove tutti cantavano e ballavano scalzi, e non mi ci vedevo per nulla in quei panni. Infine feci il provino al Teatro dei Filodrammatici, la più antica accademia teatrale d’Europa, da dove molti grandi attori sono usciti, come Mariangela Melato o Giorgio Strehler, ma di tradizione molto classica. Passai il provino, non so come, senza nessuna esperienza teatrale. Come la mia fidanzata, evidentemente anche i selezionatori avevano visto in me qualcosa di teatrale. All’inizio fui molto entusiasta di stare tutto il giorno a pensare all’arte, alla poesia, al teatro, al cinema. Era esaltante.

Al secondo anno, invece, ero già insoddisfatto del teatro della tradizione, mettevo in discussione questo tipo di insegnamento, ero in cerca di altro, anche, per età, di rompere gli schemi. Il terzo anno di accademia è quello che ti inserisce nel mestiere dell’attore, in scena, dove capìi che la scuola di teatro è molto importante. La scuola tutta dovrebbe essere essere così, per formare cittadini ad una vita di collettività. La mia formazione quindi è molto classica, e così fu il primo anno di lavoro sul palcoscenico, alla cui fine della prima stagione decisi di lasciare: non era quello che faceva per me, non era quello che avevo immaginato.

In quel momento incontrai due persone per me fondamentali, un regista inglese con cui feci un laborarorio a San Miniato, nel pisano, luogo a me molto caro, dove per quattro anni frequentai i suoi workshop in comunione con Accademie di molti paesi del mondo. Un luogo magico dove si riunivano 200 giovani teatranti da moltissimi paesi. Lì scoprìi che il teatro era anche “altro”. Quindi ripresi con il teatro “impiegatizio”, con rispetto, ma aspirando ad altro.

L’altra persona fu Antonio Latella, con cui frequentai un laboratorio lungo, ed alla fine lui mi scelse per fare una parte, ne I negri di Jean Genet. Allora Latella non era ancora il regista stimato di oggi, furono le sue trilogie -shakesperiana, genettiana e pasoliniana – nel 2002-2002, che lo fecero conoscere al grande pubblico. I negri genettiani/latelliani furono uno spettacolo dirompente con cui iniziai la mia esperienza a Napoli. Con Latella abbiamo girato l’Europa, attraverso Querelle tratto da Genet, dove io facevo la parte – en travesti – della prostituta Regine, uno spezzone di taglio più cabarettistico, dove il regista mi fece un grande regalo lasciandomi molta libertà. Per quella parte scrissi una breve introduzione, poiché la performance cambiava decisamente registro, presentandola ovunque in Europa tradotta nella lingua locale. In Germania ho recitato anche chiamato da altri teatri tedeschi, ma poi, credendo “politicamente” nella funzione sociale del teatro di cui il nostro Paese ha assolutamente bisogno, sono rientrato in Italia, unitamente al fatto che avevo un figlio piccolo e stare fisso in Germania non conciliava con la paternità. In Germania si lavora continuativamente come attore, da noi il lavoro principale è cercare ingaggi.

Farsi silenzio
Foto: Lorenzo Ceva Valla

Cosa comporta e apporta l’arte teatrale nella vita dell’attore/essere umano?

M.C. : – Oggi so che non potrei fare a meno di questo mestiere, ma non so dirne esattamente il motivo, tranne il desiderio di continuare a ricercare e mettersi anche al servizio dello strumento teatrale, attraverso cui le persone dovrebbero riconoscersi, se è teatro davvero.

Lo spettacolo mi interessa poco, ed anzi, la differenza tra teatro e spettacolo la spiega molto bene Claudio Morganti, un maestro. La forma è importante, ma a differenza dello spettacolo, il teatro è quel luogo pericoloso dove ci si interroga, ci si può spaventare di come siamo e cosa stiamo diventando. Il contemporaneo è ciò in cui stiamo evolvendo, non una falsa fotografia dalla televisione, o il suo linguaggio che sta rovinando anche il teatro. Noi teatranti siamo perdenti se vince il linguaggio televisivo, efficace per una serie TV, ma non per l’arte drammaturgica. Ci sono vocaboli che non vanno più di moda in teatro, e si tende a volgere a quelli più di finzione televisiva, anche da parte di grandi drammaturghi.

Il teatro ha una funzione differente, ovvero di farci da specchio, interrogarsi sul mistero, su qualcosa che non conosco e sul linguaggio, che di per sé già non riesce ad esprimere esattamente ciò che si vorrebbe dire, anche perché chiunque riceva quelle parole le codificherà secondo il proprio filtro. Ci sono opere straordinarie che non si riescono ad interpretare subito. Vedo spesso giovani uscire dai teatri, non annoiati e con grandi interrogativi. Ne Le rane di Aristofane che ho portato al Cantiere Florida di Firenze, ho deciso di mutuare la pratica antica del teatro di Atene, del coro formato dai cittadini, dove gli attori “professionisti” erano al massimo tre, come tradizione. Anche allora i cittadini, ad Atene, facevano lunghi laboratori da dove poi i grandi tragici o comici li sceglievano per le rappresentazioni: 12 oppure 24 uomini, secondo le necessità. Era una delle situazioni più democratiche al mondo, essere un cittadino dentro al coro che aveva libertà di parola. Un riconoscimento altissimo che solo il teatro poteva dare.

In ogni città in cui siamo andati con Le rane, gli attori erano tre, e il coro composto da cittadini che frequentavano un laboratorio gratuito, talvolta anche molto breve. La questione del linguaggio è fondamentale, io non lo considero come mezzo prettamente comunicativo – il teatro non è necessariamente comunicazione, spot, come una pubblicità con un linguaggio semplificato, ma interrogazione, un complesso stratificato di riflessioni, anche non immediatamente alla portata cognitiva di tutti.

Che visione ha dell’attuale panorama teatrale italiano? Vizi e virtù

M.C. : – Il mondo va sempre più verso una condizione di profitto economico, tralasciando il senso vero del significato di economia, dal greco “cura della casa”, quindi una cattiva interpretazione del principio economico, che sta rovinando sia il contenuto che la forma dell’arte, e il sistema culturale.

A mio avviso, è il sistema il vero problema del panorama teatrale italiano, poiché non permette agli artisti di fare il proprio mestiere, che è quello di indagare il dubbio, come per esempio quello di Amleto. Aprire una crepa, infilarsi nel “buio” della crepa, che ogni essere individuo proietta, ed interrogarsi su quell’ombra di contraddizione.

Inoltre, siamo sempre più connessi, il mondo è sempre più comodo, ma in realtà è stato creato qualcosa di disumanizzante, che ci allontatana dall’essenza umana, con un’idea falsa di progresso, che non è miglioramento, proprio perché vincolato al profitto. E’ per questo motivo che il progetto per gli adolescenti su cui attualmente sto lavorando, per me è fondamentale che sia gratuito. Ciò può permettere, non solo a chi ha meno disponibilità economica, ma anche gap socioculturali, di accedere in piena libertà.

Per questa fascia di età, i laboratori a pagamento possono diventare “esclusione”, qualcosa di elitario. Il teatro, invece ha grande possibilità e responsabilità di aiutare gli adolescenti, una fascia considerata “fragile”, al pari di altre fragilità, luogo di grandi luci, ombre e contraddizioni che, dopo la pandemia, come è risultato evidente, ha bisogno di aiuto. Non un sostegno individualista per competere al successo, come col profitto scolastico. La scuola non deve occuparsi di formare un individuo che ce la può fare da solo dando sempre il meglio. La scuola dovrebbe spiegare che si può sbagliare, luogo fisico dove si può imparare qualcosa, che ci si può aiutare a vicenda. Per poco che posso imparare lo metto comunque a disposizione. L’insegnante dovrebbe usare il principio del “piacere”; chi sta bene, ottiene più risultati, voglia di fare e sviluppa curiosità. La scuola, al contrario, sta diventando un luogo di produzione di ansia. I genitori pure, perché pensano alla carriera e a quanto guadagneranno in futuro i loro figli. Ma poi i figli sono infelici, come gli adulti che lavorano troppo, specialmente adesso che non si arriva comunque a fine mese seppur lavorando, e la narrazione politica che ti affibbia la colpa, la responsabilità di non essere capace di guadagnarti da vivere. Essere poveri è ormai una colpa.

Con il teatro si può indurre immaginazione e creatività, affiancandosi ai giovani. A questo scopo mi sto sempre più avvicinando a Firenze, lasciando Milano, città per me emblema della disumanizzazione, con la retorica della Milano che funziona, ma che si sta svelando solo un luogo di estrazione di profitto. Una città che serve a fare soldi, per chi i soldi ce li ha già. Dal 2015 il costo delle case a Milano è triplicato, gli affitti duplicati. La maggioranza dei lavoratori deve vivere fuori Milano perché lo stipendio percepito abbia un qualche valore, ma ciò aumenta insoddisfazione e stress per i percorsi e tempi di trasporto. Sono queste le persone che tengono in piedi Milano, dalla scuola alla ristorazione, il commercio al dettaglio, i servizi pubblici, le pulizie.

Ogni tanto bisogna scappare da questo contesto e tornare ad un luogo neutro, dove non c’è il giudizio, dove puoi non avere vergogna e paura, dove non devi ottenere nessun risultato, ma dove puoi tirare fuori tutto ciò che nenche conosci di te stesso, lasciando fuori tutta la quotidianità e il suo peso. I Greci sapevano bene come distinguere il tempo, kronos da kairos, il tempo delle opportunità.

Il teatro è il luogo del dialogo. I laboratori teatrali in particolare sono i luoghi dell’ascolto. Il teatro è un luogo vivo che si fa tra persone che si ascoltano. Per questo i laboratori gratuiti sono importanti, perché uniscono persone diverse per culture ed esperienze, creano dialoghi interculturali ed inclusione, tutte cose scritte teoricamente nei bandi, attuandole davvero. La società è sempre più variegata, si deve dare valore a questa contemporaneità, anche con i testi antichi, prima svuotandoli della figura dell’autore, e facendoli dialogare con le “fiammelle” dei ragazzi attraverso l’improvvisazione o il gioco, con il rovello di questi giovani asini – come dice Marco Martinelli, fondatore della Non Scuola del Teatro delle Albe di Ravenna. L’asinità, un concetto stupendo, non negativo.

La responsabilità del sistema è che ormai è entrato in un vortice iper-produttivistico. I decreti ministeriali che regolano i fondi pubblici che vanno al teatro, colmano i debiti delle produzioni a patto che ogni anno si produca qualcosa di nuovo, e si faccia tanto. La quantità a discapito della qualità. Un sistema che non cerca di sostenere la qualità. Se la qualità si realizza è merito della produzione, ma il sistema sostiene solo la quantità. Se viene tanto pubblico a vedere lo spettacolo, non è detto che sia per la qualità. Altrimenti vorrebbe dire che nei grandi fastfood transnazionali si mangia meglio che in qualsiasi altro posto al mondo.

C’è anche una grande responsabilità della critica italiana, che spesso si è chiusa in un piccolo salotto di famiglie, perché l’Italia, nel bene e nel male, vive di famiglie. Nel “male”, vuol dire che se tu appartieni alla mia “famiglia”, sei stimato dalla mia famiglia, o riconosciuto dalla mia famiglia, allora va bene… Quell’artista appartiene un po’ alla mia famiglia, alla mia visione.. La tradizione, la divisione tra famiglie, l’innovazione hanno, rovinato molto il sistema, e la critica non sta facendo una riflessione sulla sua funzione. Seppur ci siano bravi giovani critici, poi il sistema li paga cinque Euro a pezzo, oppure hanno un loro blog lavorando gratuitamente; c’è forte contraddizione. I quotidiani non danno lo spazio necessario, oppure le persone non vengono pagate adeguatamente.

In Germania i critici vedono gli spettacoli senza entrare in contatto con il teatro o la compagnia; il giornale per cui lavorano gli acquista il biglietto e loro, come noi sul palco facciamo il nostro lavoro, in platea svolgono il loro.

Questo è un vizio del nostro sistema, come anche il vizio artistico di doversi adeguare a certi metodi e certi linguaggi che a mio avviso sono perdenti. Linguaggi che io non vorrei più attraversare, perché non più contemporanei, che hanno fatto grande il teatro del 1900, ma adesso, per me, non funzionano più. Potrei sbagliarmi, forse è solo personale il desiderio di legarmi al linguaggio contemporaneo. Citando ancora le riflessioni di Claudio Morganti, il fallimento dovrebbe esserti compagno di percorso; al contrario, adesso se sbagli uno spettacolo sei fuori dal gioco. A Ronconi ciò non succedeva.

Io sono. Solo. Amleto
Foto: Francesca Di Giuseppe

Attualmente lei sta portando in tour dei propri spettacoli, tra cui un classico del teatro, l’Amleto di Shakespeare. Dilemmi senza tempo? Una tappa obbligata per ogni attore?

M.C. : – Non bisogna avere timore reverenziale verso i testi antichi. La mia versione dell’Amleto parte sì dall’opera di Skakespeare ma poi ho chiesto a drammaturghi e drammaturghe che stimo di scrivere degli “affondi”. Sono tutte persone di grande valore nella drammaturgia contemporanea italiana.

Con Le rane di Aristofane, su un testo tradotto da due docenti universitarie e riadattato nelle parti comiche che oggi non farebbero ridere, sul coro abbiamo riscritto la drammaturgia, ci abbiamo messo dentro una nostra seconda parte. A differenza di cosa cercava di fare Aristofane, ovvero riportare in vita Euripide perchè la poesia potesse salvare la polis, noi coralmente abbiamo invece cercato di capire quale fosse la poesia della città, da cose semplici a complesse, stratificate, che hanno sorpreso gli stessi cittadini partecipanti al coro, che avevano idea di partecipare, forse, ad una commediola.

Io invece ho voluti farli dialogare con la morte – negli inferi de Le rane – per recuperare il poeta morto; una condizione che contiene anche la rinascita, un rinnovamento continuo come nella natura. Dioniso, il dio che rinacque due volte: le divinità che insegnano la possibilità di rinnovamento, attraverso il segreto della morte e della vita. Poi il Cattolicesimo lo ha trasformato in altro, la salvezza dopo la morte. In realtà ogni giorno resuscitiamo.

Tra i cori di diverse città si sono formate delle piccole comunità, che si evolvono tra loro con letture di poesie o il canto, o residenze artistiche domestiche. Nelle mie ricerche, registiche, drammaturgiche o attoriali, io ho sempre un occhio di riguardo per il pubblico. Gli artisti invece molto più spesso si interessano all’opera.

La sua professione si sta profilando definitivamente come attore e regista indipendente? Può svelare qualche dettaglio per il lavoro futuro?

M.C. : – La mia grande fortuna è che non mi ritengo un regista o attore indipendente; sì intellettualmente ed artisticamente, e sicuramente cerco maggiore indipendenza, ma non è proprio facile la questione, anche solo pensando al target di persone a cui vuoi rivolgerti, che cambia dal luogo, dalla produzione, dal tipo di lavoro, rendendoti in qualche modo dipendente dall’interlocutore.

Io lavoro in maniera trasversale, dalle grandi istituzioni dei teatri nazionali, alle produzioni più svariate. Recentemente ho tenuto una residenza artistica ad Olinda, nell’ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano – un posto meraviglioso – per un progetto indipendente insieme a Michelangelo Dalisi, che potrebbe debuttare a Napoli.

Nel mio lavoro cerco di mantenere viva la curiosità. Ora sto lavorando al progetto pilota per il laboratorio permanente gratuito per adolescenti, di cui ho accennato, che sarà svolto a Firenze, per l’uso del teatro come strumento di espressione della cittadinanza; qualcosa che mi ridà ossigeno per restituire il senso a questo mestiere, per non scadere in una esaltazione del proprio ego, senza il bisogno di conferme del palcoscenico, in un mondo già spostato sul successo e la competitività.

Ritengo che sul palco sia necessaria un po’ più di umiltà, per portare i quesiti universali che contengono già i testi, o per le nostre ricerche. Nel mio progetto vorrei che gli adolescenti incontrassero i testi classici e antichi, quindi bisogna sempre scavare per togliere “la polvere” che si pensa ci sia sui testi vecchi di secoli, millenni. Soffiando su questa polvere, su questa cenere, si ritrova viva la brace, qualcosa che brucia ancora di quelle esigenze che allora erano contemporanee, ma ritroviamo ancora oggi.

Per fare teatro contemporaneo bisogna stare in mezzo alle persone. Per esempio Farsi silenzio nasce proprio da questa esigenza. Ho camminato per 1000 chilometri, da Torino a Roma a piedi da solo, incontrando le persone, registrando i paesaggi sonori, focalizzandomi più sull’aspetto uditivo che visivo, perché il mondo è già pieno di immagini, evitando così anche il declino estetico, restituendo un po’ il calore degli altri sensi; un po’ come l’aedo che camminava e raccontava le storie, prima che nascessero le tragedie. Avevo proprio bisogno di uscire dagli edifici teatrali, dove tutto è rivolto su se stessi.

Sabato, 2 marzo 2024 – Anno IV – n°9/2024

In copertina: Marco Cacciola – Foto: Marcello Norberth

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