Una battuta di Bogart per ricordare i giornali italiani
di Ettore Vittorini
Fui assunto al Corriere della Sera nel 1975. Era un sabato mattina di aprile quando ricevetti una telefonata dal segretario di redazione del giornale: «Il direttore ti vuole vedere alle 12» mi disse, «ti assumono subito». Mezz’ora prima dell’appuntamento entrai nello storico portone di via Solferino e salii lo scalone che portava al primo piano del giornale milanese dove si trovavano le redazioni e la direzione. Il segretario mi accompagnò dal direttore amministrativo il quale, dopo avermi salutato con un caloroso benvenuto, mi fece firmare delle carte. Poi, indicatami la cifra dello stipendio mensile – mi guardai bene dal contrattarla – mi accompagnò dal direttore Piero Ottone. Superai la soglia dell’ufficio con trepidazione; credevo di sognare. Ottone mi venne incontro per stringermi la mano e mi presentò all’editore Rizzoli, e a due vice direttori. Ovviamente non erano lì per me ma per una riunione interrotta dal mio arrivo.
Mi aspettavo un serrato colloquio sul mio curriculum professionale, invece il direttore da vero gentleman mi dedicò una decina di minuti in una amichevole conversazione su vari temi. Accennò al lavoro soltanto per dirmi che ero destinato alla redazione esteri e che avrei incominciato il lunedì successivo, alle 16 e 30. I redattori lavoravano da quell’ora sino alle 23. Quel giorno mi accolse il capo redattore centrale che mi accompagnò subito in tutte le redazioni del giornale per presentarmi ai colleghi. Su più di 200 giornalisti, soltanto tre erano donne: una si occupava di moda, le altre di cultura.
La mia redazione si trovava nel salone principale del primo piano nel quale, al centro, troneggiava un tavolo in massello lungo una dozzina di metri dai cui ripiani in pendenza sbucavano, sollevandoli, le macchine da scrivere. Una per ogni giornalista. Il mobilio di quel salone era stato voluto nel ‘900 da Luigi Albertini, lo storico direttore, che volle un arredamento simile a quello del Times di Londra, giornale cui si era ispirato durante la sua lunga direzione.
Questa premessa mi è servita per descrivere sommariamente l’ambiente che trovai. Ottone era un ottimo direttore; a mio avviso il migliore di quel periodo: il Corriere era svecchiato e cambiato; le notizie e le inchieste si aprivano anche sul mondo del lavoro, sui sindacati, l’opposizione di sinistra (Pci e Psi), sulla società. Veniva coinvolta la borghesia più aperta al rinnovamento sociale e culturale del Paese. Erano aumentate le pagine culturali e quelle di politica estera. Tra i collaboratori era entrato Pier Paolo Pasolini cui era stata affidata nel gennaio del ’73, una rubrica in prima pagina. Il Giornale di Montanelli, fondato nel 1974 dal noto giornalista dimessosi dal Corriere, condusse una dura campagna contro il suo ex quotidiano, accusandolo di essere diventato un organo comunista.
Gli attacchi giornalieri di Montanelli avevano fatto presa sui benpensanti di destra e soprattutto tra i fascisti di ‘Giovane Italia’, che a gruppi stazionavano da tempo in San Babila, la centralissima piazza di Milano. Erano soprannominati i sanbabilini. Pronti a malmenare chi acquistava all’edicola L’Unità, se la presero anche con i lettori del Corriere. I poliziotti che sorvegliavano quel luogo, di fronte alle aggressioni guardavano sempre da un’altra parte.
Il questore di Milano di quei tempi era Marcello Guida, già in carica all’epoca dell’attentato di piazza Fontana, dell’arresto di Valpreda e della ancora oscura morte di Pinelli. Poco dopo Sandro Pertini, allora presidente della Camera, arrivato in treno a Milano per una visita ufficiale, si rifiutò di scendere dalla vettura fino a quando il questore, ad attenderlo con altre autorità, non si fosse allontanato. Guida, durante il fascismo era stato responsabile della colonia penale di Ventotene – dove era confinato Pertini – e usava sistemi durissimi nei confronti degli antifascisti. Nel dopoguerra fu sospeso dalla polizia ma poi amnistiato dalla ‘legge Togliatti’ e reintegrato insieme a tanti altri dirigenti legati al fascismo. In un’intervista a Oriana Fallaci, Pertini dichiarò che sul questore Guida aleggiava l’ombra della morte di Pinelli.
Nonostante gli attacchi e le intimidazioni, il Corriere era riuscito a guadagnare 100 mila copie di vendite rispetto alla precedente direzione, quella di Giovanni Spadolini. Il futuro senatore, nel ’68, da direttore della Nazione fu chiamato a dirigere il giornale milanese. Da quello che mi raccontarono i colleghi, la sua gestione fu pessima. Uomo dal carattere difficile, trattava malissimo i redattori, tranne pochi prediletti. Si rinchiudeva nella sua stanza dove rimaneva a lungo al telefono per parlare con i politici e altri personaggi di riguardo. Aveva fatto mettere davanti alla sua porta un piccolo semaforo con luce rossa e verde. Con la prima era vietato assolutamente entrare, anche per motivi urgenti per la lavorazione del giornale. Se qualcuno osava violare il divieto, le sue urla arrivavano sino alla tipografia.
I colleghi anziani ricordavano che Dino Buzzati – il quale lavorava allora nella redazione culturale – una sera attendeva nel corridoio la luce verde del ‘semaforo’. Aveva delle pagine da mandare con urgenza alle stampe ed era necessario il visto del direttore. Dopo un’ora di attesa in piedi, lo scrittore, malato, non ce la fece più e si sdraiò sulla moquette del corridoio. Il segretario di redazione gli portò subito una sedia. Poco dopo Spadolini uscì dal suo ufficio è rimproverò il povero Buzzati.
Nel periodo di Spadolini il giornale perdeva molte copie. Il direttore fiorentino lo aveva reso noioso, paludato, con poca cronaca e, cosa più grave, completamente asservito al potere politico e industriale. Dopo l’attentato di piazza Fontana, il povero Valpreda veniva definito “un mostro” e per la morte di Pinelli veniva abbracciata totalmente la tesi del suicidio. Nel 1972 il film di Marco Bellocchio Sbatti il mostro in prima pagina, con Gian Maria Volonté protagonista, pur riferendosi a un episodio immaginario, mise in evidenza le manipolazioni delle notizie da parte della grande stampa italiana.
Ma c’erano delle eccezioni. Oltre all’Unità e Paese Sera, giornali del PCI, molti periodici come Panorama, l’Espresso, l’Europeo, Tempo (niente a che vedere con Il Tempo di Roma) si erano tutti battuti per la verità su ‘Piazza Fontana’. A Milano in contrapposizione al Corriere, c’era il Giorno, quotidiano fondato nel 1956 da Enrico Mattei, presidente dell’Eni. Si trattava di un giornale moderno, con una grafica simile alla stampa americana: meno colonne, corpo più grande dei caratteri tipografici e soprattutto articoli con un linguaggio più diretto, senza il lungo e arcaico periodare dei tradizionali giornali italiani. Veniva dato più spazio all’attualità, alla cultura, alla critica letteraria, artistica, musicale, alla politica estera, alle notizie sindacali e agli interventi contro i poteri forti. Infine fu il primo giornale italiano a pubblicare tutti i giorni le strips, cioè le strisce dei fumetti, come facevano da anni i grandi giornali americani. I peanuts arrivarono in Italia grazie al Giorno. Su questo quotidiano, diretto da Italo Pietra, ex partigiano, si formarono grandi giornalisti come Giorgio Bocca, Gianpaolo Pansa, Bernardo Valli, Gianni Brera, Natalia Aspesi, Paolo Murialdi, Vittorio Zucconi e vi collaborarono Italo Calvino e Alberto Arbasino.
Nel 1971 vendeva 270 mila copie, molte delle quali erano state tolte al Corriere di Spadolini che ne vendeva circa 500 mila. Una cifra ancora molto elevata, ma inferiore agli anni precedenti. L’anno dopo Giulia Maria Crespi, rappresentante della famiglia proprietaria del giornale, decise di cambiare il direttore. Fu spinta dalla consapevolezza che il quotidiano non solo perdeva copie ed era condotto male, ma che non piaceva più alla borghesia milanese più emancipata e a quella parte del mondo politico di Roma che appoggiava il centro-sinistra. Spadolini fu licenziato in tronco durante una delle cene nella villa Crespi. Arrivati al caffè, Giulia Maria gli disse testualmente: «Professore, da domani lei non dirigerà più il Corriere».
Nel suo libro autobiografico, oltre a questo episodio, la signora Crespi descriveva anche la pessima gestione amministrativa del giornale: macchinari acquistati a prezzi esorbitanti e rimasti inutilizzati, privilegi economici solo per pochi dirigenti, sprechi negli acquisti correnti. Il Corriere, che guadagnava moltissimo, era diventato una specie di bancomat per pochi. Gli editori erano stanchi di gestire quel grande apparato e lo vendettero alla Rizzoli, un’altra grande famiglia che da anni ambiva ad avere un quotidiano in aggiunta ai periodici di successo come Oggi che vendeva allora 500 mila copie.
La proprietà del Corriere passò dunque di mano nel ’74. Ottone rimase alla direzione e intensificò il lavoro del rilancio del giornale che alla domenica arrivò a vendere quasi 800 mila copie. Al miglioramento dei contenuti seguì l’introduzione dell’elettronica: nel ’76 il giornale poteva essere trasmesso per teletrasmissione. Le bozze venivano inviate via cavo telefonico a una tipografia di Roma che provvedeva alla stampa e alla distribuzione. Si risparmiavano così i tempi della spedizione da Milano al centro-sud tramite camion e ferrovia. Lo stesso sistema fu applicato anche a Catania e in altre città d’Italia.
All’interno della sede di via Solferino la fotocomposizione sostituì l’uso delle linotype, le grosse macchine inventate verso la fine dell’Ottocento che trasformavano il piombo fuso in caratteri tipografici tramite una tastiera manovrata dal tipografo. Incominciava a scomparire la figura di questo tipo di manodopera e si acceleravano i tempi della totale composizione elettronica. Nel frattempo la situazione politica italiana diventava incandescente e al terrorismo di destra, già comparso con l’attentato di piazza Fontana e tanti altri episodi – tutti coperti dalla polizia e dai servizi segreti – avanzava anche quello di sinistra. Le ‘brigate rosse’ avevano incominciato ad agire.
La maggior parte dei giornali italiani si occupava in modo continuo delle manifestazioni di piazza, dei duri interventi delle forze dell’ordine, degli attentati, dei sequestri. Ricordo che nel ’75 il Corriere pubblicò in prima pagina la foto di alcuni poliziotti che dalla sede del Msi di Milano sparavano col mitra contro una folla di manifestanti antifascisti. L’anno dopo apparve un’altra foto: quella di un giovane estremista di sinistra che, sempre a Milano, scaricava il suo revolver contro le forze di polizia uccidendo un agente. Tutto questo fa parte della recente e drammatica storia del nostro Paese. Cito ancora l’assassinio di Walter Tobagi, giornalista del Corriere avvenuto nel maggio del 1980 e la strage di Bologna dell’agosto dello stesso anno.
Nel settore della stampa italiana, oltre all’arrivo delle tecnologie, c’erano state delle novità editoriali. Nel ’76 era nato il quotidiano La Repubblica, fondato da Eugenio Scalfari, già direttore dell’Espresso. Alla presentazione, Scalfari dichiarò che sarebbe stato un giornale di sinistra e anche critico della sinistra. Con un formato tabloid, in un anno Repubblica aveva raggiunto 100 mila copie e in quello successivo le aveva raddoppiate fino a raggiungere negli anni Ottanta le vendite del Corriere. Questo successo era dovuto oltre che alla bravura di Scalfari e del gruppo di giornalisti che lo seguivano, al declino del Giorno. Qui il governo, da cui dipendeva l’Eni, proprietaria del giornale, fece licenziare Italo Pietra sostituendolo con Gaetano Afeltra ex editorialista del Corriere. Questi ebbe la raccomandazione di placare la tendenza progressista del quotidiano. Giorgio Bocca, Pansa, Valli e tanti altri bravi giornalisti si dimisero passando a Repubblica.
Il Corriere invece subì una svolta clamorosa che lo condusse sull’orlo del baratro. La loggia massonica P2 lo avvolse con i suoi tentacoli nel 1977 grazie al potere occulto che coinvolgeva banche, politici, magnati dell’industria, alti funzionari dello Stato, ufficiali delle forze armate e molti giornalisti. Quell’anno la proprietà rappresentata con l’85% delle azioni da Andrea e Angelo jr. Rizzoli, e la Montedison col 15, si trovava in grosse difficoltà finanziare – con un disavanzo di 50 miliardi di lire – in seguito all’acquisto del Corriere e degli altri giornali del gruppo, avvenuto nel ’74. A capo dell’industria chimica c’era Eugenio Cefis iscritto alla P2.
La loggia segreta intervenne tramite il Banco Ambrosiano, presidente Roberto Calvi, anche lui della P2, che acquistò tutte le azioni dei Rizzoli. Angelo, entrato nella loggia segreta, rimase presidente del gruppo editoriale; Bruno Tassandin (P2) ne divenne il direttore generale; il direttore del Corriere Ottone si dimise. Il suo posto venne occupato dal vicedirettore Franco Di Bella (P2). Dietro le quinte il manovratore era Licio Gelli. Col nuovo staff il giornale abbandonò la linea progressista gradualmente per non insospettire i giornalisti, quasi tutti compatti nel difendere i risultati ottenuti con Ottone. Ma già l’anno dopo nelle redazioni incominciavano a trapelare indiscrezioni su misteriose interferenze. Lo scandalo scoppiò nel 1981 quando l’Fbi americana, indagando Michele Sindona per i suoi rapporti con la famiglia mafiosa dei Gambino, trovò in un’agenda del finanziere il nome di Licio Gelli, sconosciuto direttore di una azienda di materassi italiana. Avvertì i magistrati milanesi Turone e Colombo, che indagavano anche loro su Sindona.
Dopo una serie di accertamenti il 17 marzo la Guardia di finanza, durante una perquisizione nella villa di Gelli, in provincia di Arezzo, trovò una lunga serie di documenti sconcertanti nei quali l’imprenditore di materassi figurava come il grande maestro di Propaganda 2 (P2). Seguiva l’elenco di 962 affiliati alla loggia. Figuravano i vertici dei servizi segreti italiani, 12 generali dei carabinieri, 55 della Guardia di finanza, 22 dell’esercito. Inoltre 3 ministri in carica – uno socialista e due democristiani – e 44 parlamentari. Di questi 19 della Dc, 9 del Psi, 6 del Psdi, 3 del Pri, 4 del Msi; seguivano 8 direttori di giornali, 22 giornalisti – 5 dei quali nel Corriere compresi Di Bella e Maurizio Costanzo – 7 dirigenti Rai, molti imprenditori, tra i quali Silvio Berlusconi (tessera 625) e addirittura il generale Massera, capo della feroce giunta militare argentina.
Dall’inchiesta della magistratura milanese risultò che l’obiettivo di Gelli e della sua loggia era quello di condizionare l’opinione pubblica per arrivare a un colpo di stato antidemocratico. La documentazione fu trasmessa al presidente del Consiglio Forlani, della Dc, che se la tenne per due mesi nel cassetto e la rese pubblica dopo le pressioni dei parlamentari del Pci e della stampa non coinvolta con la P2. Scoppiò lo scandalo e al Corriere Di Bella fu costretto a dimettersi dai giornalisti in rivolta, seguito dai colleghi piduisti. Tra questi c’era anche Giorgio Zicari, capo servizio della cronaca, il quale risultava anche come informatore dei servizi segreti.
Il Corriere dopo un anno di amministrazione controllata, si rimise in piedi grazie alla compattezza dei giornalisti, alla corretta direzione di Alberto Cavallari e, cosa più importante, all’intervento finanziario della Fiat dell’avvocato Agnelli.
La vicenda della P2 segnò uno dei periodi peggiori della recente storia d’Italia repubblicana. Tranne il Pci, ne erano coinvolti membri di tutti gli altri partiti. Si spiegano così gli intrighi e le macchinazioni sempre comparse dietro gli attentati, il terrorismo rosso e nero, le manovre dei servizi segreti e di decine di alti responsabili delle forze dell’ordine. I processi, da piazza Fontana alla strage di Bologna alle bombe sui treni, hanno prodotto scarsi risultati. I nomi dei mandanti non sono mai venuti a galla.
E se il Paese non è caduto nel baratro, molto è dipeso dalla parte più sana della politica e dall’opera incessante di gran parte della stampa. I giornali, dal Corriere alla Repubblica, dalla Stampa al Messaggero, da Panorama all’Espresso, non si erano mai tirati in dietro di fronte alla verità. La categoria dei giornalisti era molto compatta di fronte alle pressioni politiche e padronali. L’opinione pubblica inoltre comprava e leggeva con attenzione sempre più giornali. Le vendite dei soli quotidiani avevano superato i sei milioni di copie.
Era una cifra enorme rispetto a oggi: le copie vendute si aggirano su meno di due milioni delle quali 200 mila vanno rispettivamente al Corriere e a Repubblica. Gli abbonamenti online non compensano la perdita delle copie stampate. A questo calo significativo, editori e direttori attribuiscono la causa a internet e facebook, ma è soltanto un alibi. I giornali mancano di nuove idee; i livelli culturali e professionali dei giornalisti, direttori compresi, si sono abbassati. Negli anni 90 arrivarono al Corriere capiredattori, che poi salirono di grado, raccomandati, legati a vari gruppi politici e fedeli non alla deontologia professionale ma ai padroni del momento.
Un esempio di scarsa professionalità: a un certo punto al Corriere, per la chiusura della prima pagina si aspettavano i telegiornali delle ore 20 e il giornale si adeguava in base alle notizie televisive più importanti. Non si teneva conto che il quotidiano veniva messo in vendita il giorno dopo. Poi, nel ’92, Paolo Mieli fu nominato direttore. Voleva svecchiare il giornale ma lo fece eliminando le inchieste, riducendo la politica estera, inserendo il gossip. Un’altra idea fu quella di inserire nei vari articoli foto di film cinematografici che, in qualche modo, potessero corrispondere agli argomenti scritti. Infine, per non prendere una posizione verso avvenimenti importanti della politica e della società, i redattori dovevano pubblicare i pareri contrapposti dei vari esperti. E siccome a quei tempi il Corriere veniva imitato anche dalla concorrenza, tutti gli altri giornali si adeguarono a questo sistema.
Oggi la situazione è peggiorata: nei titoli sono scomparse la professionalità e la fantasia. Ormai nelle prime pagine dominano le parole “guerra”, “battaglia” usate per indicare un semplice dibattito o una differenza di idee; le interviste vengono combinate in anticipo. L’elettronica ha cancellato tutto il vecchio mondo della tipografia. Oltre ai tipografi, sono scomparsi i correttori di bozze (per questo si verificano tanti refusi), gli stenografi, gli archivi. Ormai tutto si fa via internet. Per molti giornalisti la cultura storica è scomparsa, sostituita da quella ‘elettronica’.
Nel ’95 riuscii a farmi trasferire a Firenze come corrispondente della Toscana lasciando una Milano invivibile e politicamente distrutta dallo scandalo di ‘mani pulite’. Mi dimisi alla fine del 2002, due anni prima del pensionamento, in seguito a una campagna portata avanti dal Corriere a mia insaputa, contro l’ospitalità che il Comune di Firenze aveva dato al Social Forum. I colleghi che se ne occupavano scrissero di cittadini spaventati, di monumenti messi in sicurezza, di forze dell’ordine in allarme. Erano notizie immaginarie. Invece la manifestazione si svolse nell’ordine, i fiorentini non chiusero i negozi e i monumenti non subirono danni.
Io venni chiamato dall’Università a insegnare giornalismo.
In copertina: impostazione della linotype. Foto di Antonio Molina da Pixabay (tutti i diritti riservati).