I fragili equilibri dell’ecosistema lagunare
di Simona Podestà
Venezia, ogni volta è la stessa emozione.
Mi mozza il fiato, mi provoca una vertigine di incredulità, una bellezza così struggente che nonostante i muri marci, l’acqua sempre in agguato, le finestre sbilenche e gonfie di umidità, resta in piedi e si lascia amare elargendo meraviglie che sembrano non finire mai, dietro ogni angolo, in fondo ad ogni calle.
Da privilegiata, ospite in una casa, posso lasciarmi andare a un ritmo lento, in sintonia con quello della città, stando alla larga il più possibile dalla corrente umana che ti trascina lungo l’itinerario turistico. Perdersi è fatale, cullata dallo sciabordio dell’acqua cammino per ore con la sensazione di poter andare avanti all’infinito senza arrivare da nessuna parte, oppure in luoghi mai nemmeno immaginati, nascosti. Trovo sempre un Bàcaro (tipico locale veneziano simile a un pub) dove sedermi a bere un’ombra de vin gustando ciccheti mentre ascolto affascinata la cadenza del dialetto che mi riporta alle Baruffe Chiozzotte.
La gastronomia di un luogo racconta sempre tante storie e tra un cicchetto e l’altro il mio palato non riesce a decifrare la provenienza dell’aroma così particolare delle sarde in Saor. Vengo a sapere che il Saor è una antica preparazione che conteneva un tipo di miele prodotto sulle barene, lingue di terra affioranti nella laguna, ricoperte da una fitta vegetazione erbacea e percorse da un reticolo di canali che riescono a dosare l’energia delle maree, riducendo l’erosione e favorendo la sedimentazione. Dalle infiorescenze dei piccoli fiori viola del Limonium, che cresceva abbondante, gli apicoltori traevano un miele del tutto particolare, con un sapore amarognolo e salmastro, ingrediente fondamentale per antiche ricette come il Saor o i biscotti Baìcoli. Sapori situati tra il dolce e il salato buoni da portare nei lunghi viaggi per mare, perché duravano a lungo.
Venezia è una città che ha una storia importante per l’Apicoltura, qui infatti a metà ‘800 fu inventato lo smielatore, uno strumento che consente di estrarre il miele dai favi con un movimento di rotazione che getta le basi per la moderna Apicoltura.
Oggi quel miele non si produce più e le barene sono quasi del tutto scomparse, esempio tangibile del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle acque. La loro superficie si è ridotta di 140 chilometri quadrati in un centinaio d’anni, e l’entrata in funzione del MOSE – Modulo Sperimentale Elettromeccanico- nel 2020, sta già mostrando il suo lato oscuro: se da una parte il sollevamento delle barriere tiene la città all’asciutto durante l’innalzamento delle maree, fenomeno in aumento e sventato solo qualche giorno fa, dall’altra rischia di rompere il fragile equilibrio dell’ecosistema della laguna ponendo a rischio la sopravvivenza delle barene già nel breve termine. Per ricordarci che c’è sempre il rovescio della medaglia e sollecitarci a una riflessione sul concetto di scomparsa, sempre più frequente e ineluttabile. Una ricerca dell’università di Padova ci dice che la città lagunare si pone come osservatorio privilegiato dell’impatto antropico fornendo prospettive che potrebbero essere applicate ad altre città costiere a rischio allagamenti, poiché mette in luce il paradigma dei conflitti tra i tre pilastri fondamentali dello sviluppo sostenibile: economia/società/ambiente.
La relazione dei Veneziani con l’acqua alta è atavica: si parla ancora dell’Aqua Granda del novembre 2019 che provocò enormi danni mettendo in ginocchio ogni attività, e si ricorda quella del 1966, quando tutta la città divenne navigabile e si consegnava il pane alle persone che abitavano al secondo piano con la barca. Il gestore del Bàcaro, piuttosto anziano, se la ricorda bene, si infervora nel raccontare, mi mostra la tacca sul muro che indica il livello raggiunto dall’acqua e, ridendo, la paratia che correda tutte le soglie della città a piano terra, come fosse un inutile orpello contro la potenza dell’acqua.
Malferma sulle gambe, perché un’ombreta tira l’altra, mi appresto al ritorno a casa. Aspettando il vaporetto osservo il popolo della Biennale che si accalca alla fermata dei Giardini: tanti stranieri, vestiti di nero come si conviene ai creativi, entusiasti di tutto quello che vedono come bambini al parco delle meraviglie; un pubblico eterogeneo e multietnico affolla i tavolini dei bar dove scorrono fiumi di Spritz.
Scalo ponti che mi portano nel quartiere che mi ospita: a S.Pietro e Sant’Elena l’atmosfera è metafisica, strade larghe e deserte, grassi gabbiani strappano i sacchi dell’immondizia col becco adunco, non c’è ombra di turisti eppure dista pochi passi dai padiglioni della Biennale, le comari stendono bucati colorati azionando carrucole e cordami tesi tra le case, nel vocìo dialettale che esce dalle finestre aperte.
Frastornata mi godo l’effetto Venezia: città solida e liquida, di una bellezza eccessiva e straziante.
Sabato, 26 novembre 2021 – n° 48/2022
In copertina: uno scorcio popolare di Venezia – Immagine: Simona Podestà (tutti i diritti riservati)