lunedì, Novembre 25, 2024

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Google non è quello che sembra

Quando Google incontrò WikiLeaks

traduzione di Laura Sestini – testo di Julian Assange

Nota: ciò che proponiamo qui è un estratto dal saggio ‘When Google met WikiLeaks’, pubblicato nel 2014, dove l’editore e giornalista Julian Assange descrive il rapporto speciale tra Google, Hillary Clinton e il Dipartimento di Stato statunitense, e cosa ciò avrebbe significato per il futuro di Internet.

Julian Assange scrive: – “Eric Schmidt è una figura influente, anche nella parata di personaggi potenti con cui ho dovuto incrociare le strade da quando ho fondato WikiLeaks. A metà maggio 2011 ero agli arresti domiciliari nelle zone rurali del Norfolk, a circa tre ore di auto a Nord-est di Londra. La repressione del nostro lavoro era in pieno svolgimento e ogni momento sprecato sembrava un’eternità. È stato difficile attirare la mia attenzione. Ma quando il mio collega Joseph Farrell mi riferì che Eric Schmidt – il presidente esecutivo di Google – voleva fissare un appuntamento con me, ero pronto ad ascoltare.

In un certo senso le alte sfere di Google mi sembravano anche più distanti e oscure delle stanze di Washington. In quel momento, da anni eravamo in contatto con alti funzionari statunitensi. Ma i centri di potere cresciuti nella Silicon Valley erano ancora opachi, e all’improvviso mi sono reso conto dell’opportunità di comprendere e influenzare quella che stava diventando l’azienda più autorevole sulla terra. Schmidt aveva assunto la carica di CEO di Google nel 2001 e l’aveva trasformata in un impero.

Ero incuriosito dal fatto che la montagna sarebbe andata da Maometto. Ma solo molto tempo dopo che Schmidt ed i suoi compagni se ne furono andati, arrivai a capire chi fosse davvero venuto a trovarmi.

Il motivo ufficiale della visita era un articolo. Schmidt stava scrivendo un trattato con Jared Cohen, il direttore di Google Ideas, un gruppo che si descrive come la “think/do tank” – centro di ricerca – interno a Google.

All’epoca sapevo poco di Cohen. In effetti, Cohen si era trasferito a Google dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel 2010. Era stato un ‘uomo di idee’, dalla parlantina veloce, della “Generazione Y (o Millenials)”, presso due amministrazioni statunitensi; un cortigiano del mondo dei gruppi di riflessione e degli istituti politici. Tallonato già all’inizio dei suoi vent’anni, Cohen divenne consigliere senior dei Segretari di Stato Rice e Clinton. Allo ‘State’, nello staff di pianificazione delle politiche estere, Cohen fu presto battezzato “l’iniziatore del partito di Condi”, impartendo parole d’ordine dalla Silicon Valley nei circoli politici statunitensi e producendo deliziosi intrugli retorici come “Diplomazia pubblica 2.0”. Nella sua pagina per il personale del Consiglio per le Relazioni Estere, egli puntualizzava le sue competenze come “terrorismo; radicalizzazione; impatto delle tecnologie di connessione sull’arte di governo del XXI° secolo; Iran”.

Il direttore di Google Ideas e “visionario geopolitico” Jared Cohen condivide la sua visione con le reclute dell’esercito americano in una sala conferenze presso l’Accademia militare di West Point il 26 febbraio 2014 (Instagram di Eric Schmidt)

È stato Cohen che, mentre era ancora al Dipartimento di Stato, avrebbe inviato un’e-mail al CEO di Twitter, Jack Dorsey, per posticipare la manutenzione programmata, al fine di ‘sostenere’ l’abortita rivolta del 2009 in Iran.

La sua ufficiale ‘love story’ con Google iniziò lo stesso anno, quando fece amicizia con Eric Schmidt, mentre esaminavano insieme il relitto post-occupazione di Baghdad. Pochi mesi dopo, Schmidt ricreò l’habitat naturale di Cohen all’interno di Google stesso, progettando un “think/do tank” con sede a New York e nominandone Cohen a capo. Nasce quindi Google Ideas.

Nello stesso anno i due hanno collaborato alla stesura di un articolo politico – del Consiglio delle Relazioni Estere – per la rivista Foreign Affairs, elogiando la potenziale riforma delle tecnologie della Silicon Valley come strumento di politica estera statunitense. Descrivendo ciò che chiamavano “coalizioni dei connessi“.

In pratica gli Stati democratici che hanno istituito coalizioni tra i loro eserciti, hanno la capacità di fare lo stesso con le tecnologie di connessione. Offrendo un nuovo modo di esercitare il ‘dovere di proteggere’ i cittadini in tutto il mondo.

Nello stesso articolo si afferma: “la tecnologia è fornita in modo schiacciante dal settore privato”.

Poco tempo dopo, Tunisia, Egitto, e poi il resto del Medio Oriente, esplosero nelle Primavere arabe, e gli echi di quegli eventi sui Social media divennero uno spettacolo per gli utenti Internet occidentali.

Il commentario professionista, desideroso di razionalizzare le rivolte sostenute dagli Stati Uniti contro le dittature, le ha bollate come “rivoluzioni Twitter”. Improvvisamente tutti volevano essere al punto di incrocio tra il potere globale degli Stati Uniti e i Social media, e Schmidt e Cohen ne avevano già delimitato il territorio. Con il titolo provvisorio “L’impero della mente”, hanno iniziato a espandere il loro articolo fino alla lunghezza di un libro ed hanno cercato il pubblico attraverso grandi nomi della tecnologia globale e del potere, come parte della loro ricerca.

Hanno chiesto di intervistarmi. Ho acconsentito. Una data fu fissata per giugno.

Quando arrivò giugno c’era già molto di cui parlare. Quell’estate WikiLeaks stava ancora elaborando il rilascio di cablogrammi diplomatici statunitensi, pubblicandone migliaia ogni settimana. Quando, sette mesi prima, avevamo iniziato a rilasciare i cablogrammi, Hillary Clinton aveva denunciato la pubblicazione come “un attacco alla comunità internazionale” che avrebbe “lacerato il tessuto” del Governo.

È stato in questo fermento che Google si è ‘lanciato’ quel giugno, atterrando in un aeroporto di Londra e facendo il lungo viaggio in auto fino all’East Anglia fino a Norfolk e Beccles. Schmidt arrivò per primo, accompagnato dalla sua allora partner, Lisa Shields. Quando l’ha presentata come vicepresidente del Consiglio pe le Relazioni Estere, un think tank statunitense sulla politica estera con stretti legami con il Dipartimento di Stato, non ci ho riflettuto. La stessa Shields era uscita direttamente da Camelot, essendo stata avvistata al fianco di John Kennedy Jr. nei primi anni ’90. Si sono seduti con me e ci siamo scambiati convenevoli. Hanno detto che avevano dimenticato il loro dittafono, quindi abbiamo usato il mio. Ci siamo accordati che avrei inoltrato loro la registrazione e in cambio mi avrebbero inoltrato la trascrizione, da correggere per accuratezza e chiarezza. Iniziammo. Schmidt si è buttato, interrogandomi subito sulle basi organizzative e tecnologiche di WikiLeaks.

Poco dopo arrivò Jared Cohen. Con lui c’era Scott Malcomson, presentato come editore del libro. Tre mesi dopo l’incontro, Malcomson sarebbe entrato nel Dipartimento di Stato come principale scrittore di discorsi e consigliere principale di Susan Rice – allora ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ora Consigliere per la Sicurezza nazionale. In precedenza aveva servito come consulente senior presso le Nazioni Unite ed è membro di lunga data del Consiglio per le Relazioni Estere. Al momento in cui scrivo (2013 – ndr.), è il direttore delle comunicazioni presso l’International Crisis Group.

A questo punto, la delegazione era composta da una parte di Google e tre parti dell’establishment di politica estera statunitense. Io non ero ancora ‘saggio’. E ci siamo messi al lavoro.

Schmidt è stato una buona traccia. Un cinquantenne, con gli occhi socchiusi dietro occhiali da gufo, vestito da manager; l’aspetto cupo di Schmidt nascondeva un’analiticità simile a una macchina. Le sue domande spesso saltavano al cuore della questione, tradendo una potente intelligenza paraverbale. Era lo stesso intelletto che aveva astratto i principi dell’ingegneria del software per ridimensionare Google in una megacorporation, assicurando che l’infrastruttura aziendale raggiungesse sempre un tasso di crescita. Questa era una persona che aveva capito come costruire e mantenere sistemi: sistemi di informazioni e sistemi di persone. Il mio mondo era nuovo per lui, ma era anche un mondo in cui si sviluppavano processi umani, dimensioni e flussi di informazioni.

Per un uomo di intelligenza sistematica, la politica di Schmidt, come ho potuto sentire dalla nostra discussione, era sorprendentemente convenzionale, persino banale. Capì rapidamente le relazioni strutturali, ma si sforzava di verbalizzare molte di esse, spesso introducendo sottigliezze geopolitiche nel marketese – linguaggio promozionale – della Silicon Valley o nel microlinguaggio arrugginito del Dipartimento di Stato dei suoi compagni. Dava il meglio di sé quando parlava – forse senza rendersene conto – come un ingegnere, scomponendo le complessità nelle loro componenti ortogonali.

Ho trovato Cohen un buon ascoltatore, ma un pensatore meno interessante, dotato di quella convivialità implacabile che affligge abitualmente i generalisti di carriera e gli studiosi di Rhodes. Come ci si aspetterebbe dal suo background di politica estera, Cohen conosceva i punti critici e i conflitti internazionali e si è mosso rapidamente tra essi, descrivendo in dettaglio diversi scenari per testare le mie affermazioni. Ma a volte sembrava che stesse parlando di ortodossie in un modo progettato per impressionare i suoi ex colleghi nella Washington ufficiale. Malcomson, più vecchio, era più pensieroso, il suo contributo era premuroso e generoso. Shields è stata silenziosa per gran parte della conversazione, prendendo appunti, assecondando gli ego più grandi attorno al tavolo, mentre lei andava avanti con il vero lavoro.

Come intervistato ci si aspettava che facessi la maggior parte del discorso. Ho cercato di guidarli nella mia visione del mondo. A loro merito, considero l’intervista forse la migliore che ho mai rilasciato. Ero fuori dalla mia zona di comfort e mi piaceva. Abbiamo mangiato e poi fatto una passeggiata nel parco, per tutto il tempo registrato. Ho chiesto a Eric Schmidt di far trapelare le richieste di informazioni del governo degli Stati Uniti a WikiLeaks, e lui ha rifiutato – improvvisamente nervoso – citando l’illegalità della divulgazione delle richieste del Patriot Act. E poi, quando venne sera, tutto si concluse e loro se ne andarono; tornarono negli irreali, remoti corridoi dell’impero dell’informazione, e io dovevo tornare al mio lavoro. Ciò fu come finì l’incontro, o almeno così io pensavo.

Due mesi dopo, il rilascio dei cablogrammi del Dipartimento di Stato da parte di WikiLeaks stava improvvisamente volgendo al termine. Per circa nove mesi ne avevamo gestito meticolosamente la pubblicazione, coinvolgendo oltre 100 media partner globali, distribuendo documenti nelle loro regioni di influenza e supervisionando un sistema di pubblicazione e redazione sistematico e mondiale, lottando per il massimo impatto per le nostre fonti.

Con un atto di grave negligenza, il quotidiano The Guardian, nostro ex partner, aveva pubblicato la password riservata per la decrittazione di tutti i 251.000 cablogrammi in un capitolo del suo libro, uscito frettolosamente nel febbraio 2011. A metà agosto abbiamo scoperto che un ex dipendente tedesco —che avevo sospeso nel 2010 — stava promuovendo relazioni d’affari con una varietà di organizzazioni e individui, facendo compravendita intorno ai file crittografati, abbinati alla posizione della password pubblicata nel libro. Alla velocità con cui le informazioni si stavano diffondendo, abbiamo stimato che entro due settimane la maggior parte delle agenzie di intelligence, appaltatori e intermediari avrebbero avuto tutti i cablogrammi, ma non l’opinione pubblica.

Ho deciso quindi che fosse necessario anticipare di quattro mesi il nostro programma di pubblicazione e contattare il Dipartimento di Stato per ottenere un verbale di preavviso. La situazione sarebbe stata ben più difficile da trasformare contro un assalto legale o politico. Non potendo interloquire con Louis Susman, allora ambasciatore degli Stati Uniti nel Regno Unito, abbiamo provato dalla porta d’ingresso. Sarah Harrison, editore delle indagini di WikiLeaks, ha chiamato la reception del Dipartimento di Stato Usa e ha informato l’operatore che “Julian Assange” voleva avere una conversazione con Hillary Clinton. Com’era prevedibile, questa affermazione è stata inizialmente accolta con incredulità ‘burocratica’. Ci siamo presto trovati per la rievocazione di quella scena nel film ‘Dottor Stranamore‘, dove Peter Sellers chiama la Casa Bianca per avvertire di un’imminente guerra nucleare e viene immediatamente messo in attesa. Come nel film, abbiamo scalato la gerarchia, parlando con funzionari sempre più in alto fino a quando non abbiamo raggiunto il consulente legale senior di Hillary Clinton. Ci ha detto che ci avrebbe richiamato. Abbiamo riattaccato e abbiamo atteso.

Quando il telefono squillò mezz’ora dopo, non era il Dipartimento di Stato all’altro capo della linea. Invece, era Joseph Farrell – facente parte dello staff di WikiLeaks – che aveva organizzato l’incontro con Google. Aveva appena ricevuto un’e-mail da Lisa Shields che cercava di confermare che si trattasse davvero di WikiLeaks la chiamata al Dipartimento di Stato.

Il presidente di Google Eric Schmidt condivide una battuta con Hillary Clinton durante una speciale “chiacchierata al focolare ” con lo staff di Google. Il discorso si è tenuto il 21 luglio 2014 presso la sede di Google a Mountain View, in California.

Fu a questo punto che mi resi conto che Eric Schmidt avrebbe potuto non essere solo un emissario di Google. Che lo fosse ufficialmente o meno, aveva mantenuto una ‘compagnia’ che lo poneva molto vicino a Washington, DC, inclusa una relazione ben documentata con il presidente Barack Obama. Non solo il personale di Hillary Clinton sapeva che la partner di Eric Schmidt era venuta a trovarmi, ma avevano anche scelto di usarla come canale secondario. Mentre WikiLeaks era stato profondamente coinvolto nella pubblicazione dell’archivio interno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, in effetti, si era intrufolato nel centro di comando di WikiLeaks, contattandomi per offrirmi un pranzo.

Due anni dopo, sulla scia delle sue visite all’inizio del 2013 in Cina, Corea del Nord e Birmania, mi sarei reso conto che il Presidente di Google poteva condurre, in un modo o nell’altro, una “diplomazia di canale secondario” per Washington. Ma in quel momento era solo nuovo un pensiero.

Quella riflessione l’ho messa da parte fino a febbraio 2012, quando WikiLeaks, insieme a oltre trenta dei nostri media partner internazionali, ha iniziato a pubblicare i Global Intelligence Files: lo spool – coda di stampa – di posta elettronica interna della società di intelligence privata Stratfor, con sede in Texas. Uno dei nostri partner investigativi più forti, il quotidiano Al Akhbar con sede a Beirut, ha setacciato le e-mail alla ricerca di informazioni su Jared Cohen. Le persone di Stratfor, a cui piaceva considerarsi una sorta di CIA aziendale, erano acutamente consapevoli di altre iniziative, che percepivano come intromissioni nel loro settore. Google era apparso sul loro radar. In una serie di email colorate hanno discusso uno schema di attività, condotto da Cohen sotto l’egida di Google Ideas, suggerendo cosa significasse effettivamente il “fare” in “think/do tank”.

La direzione di Cohen sembrava passare dalle pubbliche relazioni e dal lavoro di “responsabilità aziendale”, all’intervento aziendale attivo negli affari esteri ad un livello normalmente riservato agli State – i funzionari Usa. Jared Cohen potrebbe essere ironicamente nominato il “direttore del cambio di regime” di Google. Secondo le e-mail, stava cercando di imporre le sue ‘impronte digitali’ su alcuni dei principali eventi storici del Medio Oriente contemporaneo. Poteva essere collocato in Egitto durante la rivoluzione, incontrando Wael Ghonim, impiegato di Google, il cui arresto e incarcerazione poche ore dopo, dalla stampa occidentale, sarebbe stato reso un simbolo della rivolta favorevole alle pubbliche relazioni. Erano stati programmati incontri in Palestina e Turchia, entrambi i quali, secondo le e-mail di Stratfor, furono stati cancellati dalla dirigenza senior di Google in quanto troppo rischiosi. Solo pochi mesi prima di incontrarmi, Cohen stava pianificando un viaggio ai confini dell’Iran, in Azerbaigian, per “coinvolgere le comunità iraniane più vicine al confine”, come parte del progetto di Google Ideas sulle “società repressive”. Nelle e-mail interne il vicepresidente per l’intelligence di Stratfor, Fred Burton – egli stesso ex funzionario della sicurezza del Dipartimento di Stato, ha scritto: «Google sta ottenendo il supporto e la copertura aerea della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. In realtà stanno facendo cose che la CIA non può fare. Cohen si farà rapire o uccidere. Ad essere sinceri potrebbe essere la cosa migliore che possa accadere per esporre il ruolo segreto di Google nelle rivolte ‘schiumose’. Il governo degli Stati Uniti può quindi rinnegarne la conoscenza e Google rimane in possesso del sacco di merda (parole testuali).»

In un’ulteriore comunicazione interna, Burton ha affermato che le sue fonti sulle attività di Cohen erano Marty Lev, il direttore della sicurezza di Google, e lo stesso Eric Schmidt.

Alla ricerca di qualcosa di più concreto, ho iniziato frugare nell’archivio di WikiLeaks per informazioni su Cohen. I cablogrammi del Dipartimento di Stato rilasciati nell’ambito di Cablegate rivelano che Cohen era stato in Afghanistan nel 2009, cercando di convincere le quattro principali compagnie di telefonia mobile afghane a spostare le loro antenne sulle basi militari statunitensi. In Libano ha lavorato in sordina per istituire un rivale clericale ed intellettuale agli Hezbollah, la “Higher Shia League”. E a Londra ha offerto fondi ai dirigenti cinematografici di Bollywood per inserire contenuti anti-estremisti nei loro film, promettendo di collegarli alla rete di Hollywood.

Tre giorni dopo avermi visitato a Ellingham Hall, Jared Cohen è volato in Irlanda per dirigere il “Save Summit”, un evento co-sponsorizzato da Google Ideas e dal Consiglio per le Relazioni estere. Lì ha riunito in un unico luogo ex membri di bande del centro città, militanti di destra, nazionalisti violenti ed “estremisti religiosi” di tutto il mondo; l’evento mirava ad elaborare soluzioni tecnologiche al problema dell’estremismo violento. Cosa poteva andare storto?

Il mondo di Cohen sembrava essere un evento dopo l’altro: serate senza fine per influenze incrociate tra le élite e i loro vassalli, sotto la pia rubrica della “società civile”. La sapienza acquisita, nelle società capitaliste avanzate, è che esiste ancora un “settore della società civile” in cui le istituzioni si formano autonomamente e si uniscono per manifestare gli interessi e la volontà dei cittadini. La ‘favola’ narra che i confini di questo settore vengano rispettati dagli attori di governo e del “settore privato”, per lasciare uno spazio sicuro per le ONG e le organizzazioni non profit per difendere cose come i diritti umani, la libertà di parola e il governo responsabile.

Ciò suona come un’ottima idea. Ma se è mai stata vera, non lo è stata per decenni. Almeno dagli anni ’70, attori autentici – come sindacati e chiese – si sono piegati sotto un prolungato assalto dello statalismo del libero mercato, trasformando la “società civile” in un mercato di acquisto per fazioni politiche ed interessi di corporazioni che cercano di esercitare la loro influenza a distanza. Gli ultimi quarant’anni hanno visto un’enorme proliferazione di gruppi di riflessione (think/to tank) e ONG politiche il cui scopo, al di là di tutta la verbosità, è quello di eseguire agende politiche per procura.

Non sono solo ovvi gruppi di facciata neoconservatori, come Foreign Policy Initiative. Include anche frivole ONG occidentali come Freedom House, dove lavoratori senza scopo di lucro – ingenui ma ben intenzionati – sono intrecciati a canali di flussi di finanziamento politico, mentre denunciano violazioni dei diritti umani ‘non occidentali, parimenti mentre mantengono gli abusi locali saldi ai loro ciechi spot. Il circuito delle conferenze della società civile, che porta centinaia di volte all’anno attivisti dai Paesi in via di sviluppo di tutto il mondo – per benedire l’empia unione tra “governi e parti interessate private” in occasione di eventi geopoliticizzati come lo “Stoccolma Internet Forum” – semplicemente non potrebbero esistere se non fossero sborsati milioni di dollari di finanziamenti politici all’anno.

Il presidente di Google Eric Schmidt (dx) e Henry Kissinger (sx), segretario di Stato e capo del Consiglio di sicurezza nazionale sotto il presidente Richard Nixon, durante una “chiacchierata al caminetto” con il personale di Google presso la sede dell’azienda a Mountain View, in California, il 30 settembre 2013. Nel discorso, Kissinger dirà che l’informatore della National Security Agency Edward Snowden è “spregevole”.

Scansionando le iscrizioni ai più grandi think tank e istituti statunitensi, continuano a spuntare gli stessi nomi. Il Save Summit di Cohen ha poi dato vita ad AVE -o AgainstViolentExtremism.org – un progetto a lungo termine il cui principale sostenitore oltre a Google Ideas è la Gen Next Foundation. Il sito web di questa fondazione afferma che si tratta di “un’organizzazione di appartenenza esclusiva e una piattaforma per individui di successo”, mira a realizzare un “cambiamento sociale” guidato con finanziamenti di capitale a rischio. Il settore privato e la fondazione – senza scopo di lucro – di Gen Next evita la parte potenziale percepita come conflitto di interesse con iniziative finanziate dai governi. Jared Cohen ne è un membro esecutivo.

Gen Next sostiene anche una ONG, lanciata da Cohen verso la fine del suo mandato al Dipartimento di Stato, per portare “attivisti pro-democrazia” globali, basati su Internet, nella rete di patrocinio delle Relazioni estere degli Stati Uniti. Il gruppo è nato come “Alliance of Youth Movements ” con un vertice inaugurale a New York City nel 2008, finanziato dal Dipartimento di Stato e tempestato dei loghi degli sponsor aziendali. Il vertice ha attirato attivisti dei social media, accuratamente selezionati, provenienti da “aree problematiche” come Venezuela e Cuba per assistere ai discorsi di Obama; il team dei nuovi media della campagna e James Glassman del Dipartimento di Stato; per fare rete con consulenti di pubbliche relazioni, “filantropi” e personalità dei media statunitensi. L’organizzazione ha tenuto altri due vertici, solo su invito, a Londra e Città del Messico, dove i delegati sono stati indirizzati direttamente tramite collegamento video con Hillary Clinton.

Sei l’avanguardia di una generazione emergente di attivisti cittadini. . .E questo fa di te il tipo di leader di cui abbiamo bisogno”.

Nel 2011, la Youth Movement Alliance è stata ribattezzata “Movements.org”. Nel 2012 Movements.org è diventata una divisione di “Advancing Human Rights“, una nuova ONG fondata da Robert L.Bernstein dopo che si era dimesso da Human Rights Watch – che aveva originariamente fondato – perché riteneva che non avrebbe dovuto scoprire abusi dei diritti dei umani israeliani e statunitensi. Advancing Human Rights mira a correggere l’errore di Human Rights Watch concentrandosi esclusivamente sulle “dittature”. Cohen ha affermato che la fusione del suo gruppo Movements.org con Advancing Human Rights è stata “irresistibile”, indicandola una rete “fenomenale” di cyberattivisti in Medio Oriente e Nord Africa”. È poi entrato a far parte del consiglio di Advancing Human Rights, che comprende anche Richard Kemp, ex comandante delle forze britanniche nell’Afghanistan occupato. Nella sua forma attuale, Movements.org continua a ricevere finanziamenti di Gen Next, nonché di Google, MSNBC e il gigante delle pubbliche relazioni Edelman, che rappresenta, tra gli altri, General Electric, Boeing e Shell.

Una schermata della pagina “Sostenitori e sponsor” di Movement.org.

Google Ideas è più grande, ma segue lo stesso piano di gioco. Date un’occhiata agli elenchi dei relatori delle sue riunioni annuali solo su invito, come “Crisis in a Connected World” ad ottobre 2013. I teorici e gli attivisti dei social network conferiscono all’evento una patina di autenticità, ma in verità vanta una ‘pentolata’ tossica di partecipanti: funzionari statunitensi, magnati delle telecomunicazioni, consulenti per la sicurezza, capitalisti finanziari e amanti della tecnologia nella politica estera come Alec Ross – il gemello di Cohen al Dipartimento di Stato. E persino l’ammiraglio responsabile di tutte le operazioni militari statunitensi in America Latina dal 2006 al 2009. A chiudere il pacchetto ci sono Jared Cohen e il presidente di Google, Eric Schmidt.

Iniziai a pensare a Schmidt come a un tecnologico miliardario californiano brillante ma politicamente sfortunato, che era stato sfruttato dagli stessi soggetti di politica estera statunitensi che aveva riunito, per agire come traduttori tra lui e la Washington ufficiale.

Mi sbagliavo.

Eric Schmidt era nato a Washington DC, dove suo padre aveva lavorato come professore ed economista per il Tesoro di Nixon. Ha frequentato il liceo ad Arlington, in Virginia, prima di laurearsi in ingegneria a Princeton. Nel 1979 Schmidt si è trasferito a Berkeley, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, prima di entrare a far parte della spin-off di Stanford/Berkley Sun Microsystems nel 1983. Quando lasciò Sun, sedici anni dopo, era diventato parte della sua leadership esecutiva.

Sun aveva contratti significativi con il governo degli Stati Uniti, ma è stato solo quando era nello Utah come CEO di Novell che i registri mostrano che Schmidt ha coinvolto strategicamente la classe politica di Washington. I registri finanziari della campagna federale mostrano che il 6 gennaio 1999 Schmidt ha donato due lotti di 1.000 dollari al senatore repubblicano dello Utah, Orrin Hatch. Lo stesso giorno anche la moglie di Schmidt, Wendy, ha dato due lotti da 1.000 dollari al senatore Hatch. All’inizio del 2001 oltre una dozzina di altri politici e PAC (comitati di azione politica, formati da gruppi d’interesse che distribuiscono ai candidati contributi privati per le campagne elettorali), tra cui Al Gore, George W. Bush, Dianne Feinstein e Hillary Clinton, erano sul libro paga degli Schmidt, in un caso per 100.000 dollari.

Nel 2013, Eric Schmidt, che era diventato pubblicamente associato alla Casa Bianca di Obama, era più politico. Otto repubblicani e otto democratici sono stati finanziati direttamente, così come due PAC. Quell’aprile, 32.300 dollari andarono al Comitato senatoriale repubblicano nazionale. Un mese dopo lo stesso importo, 32.300, è andato al Comitato per la campagna senatoriale democratica. Perché Schmidt stesse donando esattamente la stessa somma di denaro a entrambe le parti è una domanda da 64.600 dollari.

Fu anche nel 1999 che Schmidt entrò a far parte del consiglio di un gruppo con sede a Washington, DC: la New America Foundation, una fusione di forze centriste ben collegate (in termini DC). La fondazione e il suo personale di 100 dipendenti funge da centrifuga di influenza, utilizzando la sua rete di esperti di sicurezza nazionale, politica estera e tecnologia, approvati per inserire centinaia di articoli ed editoriali all’anno. Nel 2008 Schmidt era diventato presidente del suo consiglio di amministrazione. A partire dal 2013 i principali finanziatori della New America Foundation – ciascuno con un contributo di oltre un milione di dollari – e sono elencati come Eric e Wendy Schmidt, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e la Bill & Melinda Gates Foundation. I finanziatori secondari includono Google, USAID e Radio Free Asia.

Il coinvolgimento di Schmidt nella New America Foundation lo colloca saldamente nel nesso dell’establishment di Washington. Tra gli altri membri del consiglio della fondazione, sette dei quali si elencano anche come membri del Consiglio per la Relazioni estere, ricordiamo Francis Fukuyama, uno dei padri intellettuali del movimento neoconservatore; Rita Hauser, che ha fatto parte del President’s Intelligence Advisory Board sia sotto Bush che Obama; Jonathan Soros, figlio di George Soros; Walter Russell Mead, uno stratega della sicurezza statunitense ed editore di American Interest; Helene Gayle, che siede nei consigli di amministrazione di Coca-Cola, Colgate-Palmolive, Rockefeller Foundation, Foreign Affairs Policy Unit del Dipartimento di Stato, Consiglio per le Relazioni estere , Center for Strategic and International Studies, White House Fellows program, e UNA, campagna di Bono; e Daniel Yergin, geostratega del petrolio, ex presidente della task force del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti sulla ricerca energetica strategica e autore di “The Prize: the Epic Quest for Oil, Money and Power”.

L’amministratore delegato della fondazione, nominato nel 2013, è l’ex capo di Jared Cohen presso lo staff di pianificazione delle politiche del Dipartimento di Stato, Anne-Marie Slaughter, una avvocatessa ed analista politica di Princeton le cui relazioni internazionali ammiccavano per porte girevoli. È ovunque in quel momento a scrivere, per lanciare richieste affinché Obama risponda alla crisi ucraina, non solo dispiegando forze statunitensi segrete nel Paese, ma anche lanciando bombe sulla Siria, sulla base del fatto che ciò invierà un messaggio a Russia e Cina. Insieme a Schmidt, partecipa nel 2013 alla conferenza dei Bilderberg e fa parte del Foreign Affairs Policy Board del Dipartimento di Stato.

Non c’era niente di politicamente sfortunato in Eric Schmidt. Ero stato troppo ansioso di vedere un ingegnere della Silicon Valley politicamente privo di ambizioni, una reliquia dei bei vecchi tempi della cultura dei laureati in informatica sulla costa occidentale. Ma questo non è il modello di persona che partecipa alla conferenza dei Bilderberg per quattro anni consecutivi, che fa visite regolari alla Casa Bianca o che fa “chiacchiere davanti al caminetto” al World Economic Forum di Davos. L’emergere di Schmidt come “ministro degli esteri” di Google — e fare visite di Stato in pompa magna attraverso le faglie geopolitiche — non era venuto dal nulla; era stato presagito da anni di assimilazione all’interno delle reti di reputazione ed influenza dell’establishment statunitense.

A livello personale, Schmidt e Cohen sono persone perfettamente simpatiche. Ma il presidente di Google è un classico giocatore “capo d’industria”, con tutto il bagaglio ideologico che deriva da quel ruolo. Schmidt si adatta perfettamente là dove si trova: il punto in cui le tendenze centriste, liberali e imperialiste si incontrano nella vita politica americana. Apparentemente, i capi di Google credono sinceramente nel potere civilizzatore delle multinazionali illuminate e vedono questa missione come continuativa con la delineazione del mondo secondo il giudizio della “superpotenza benevola”. Ti diranno che l’apertura mentale è una virtù, ma tutte le prospettive che sfidano la spinta eccezionale al cuore della politica estera americana, rimarranno invisibili. Questa è l’impenetrabile banalità del “non essere malvagio”. Credono di star facendo del bene. E questo è un problema.

Google è “diverso”. Google è “visionario”. Google è “il futuro”. Google è “più di una semplice azienda”. Google “restituisce alla comunità”. Google è “una forza del bene”.

Anche quando Google esprime pubblicamente la sua ambivalenza aziendale, fa ben poco per rimuovere questi elementi di fede. La reputazione dell’azienda è apparentemente inattaccabile. Il logo colorato e giocoso di Google è impresso sulla retina umana poco meno di 6 miliardi di volte al giorno, 2,1 trilioni di volte l’anno, un’opportunità per il condizionamento degli intervistati di cui non godeva nessun’altra azienda nella storia. Colta in flagrante l’anno scorso mentre rendeva disponibili petabyte di dati personali alla comunità dell’intelligence statunitense attraverso il programma PRISM, Google continua comunque a sostenere la buona volontà generata dal suo doppio discorso “non essere malvagio”. Poche simboliche lettere aperte alla Casa Bianca, poi, e sembra che tutto sia stato perdonato. Anche gli attivisti anti-sorveglianza non possono essere di aiuto, condannando subito lo spionaggio del Governo, ma cercando anche di alterare le pratiche di sorveglianza invasive di Google, utilizzando strategie di pacificazione.

Nessuno vuole riconoscere che Google sia cresciuta grande e cattiva. Ma lo è. Il mandato di Schmidt come CEO ha visto Google integrarsi con le più oscure strutture di potere degli Stati Uniti, mentre si espandeva in una mega corporazione geograficamente invasiva. Ma Google è sempre stata a suo agio con questa vicinanza. Molto prima che i fondatori dell’azienda Larry Page e Sergey Brin assumessero Schmidt nel 2001, la loro ricerca iniziale su cui si basava Google era stata in parte finanziata dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA). Gigante della tecnologia globale, stava costruendo uno stretto rapporto con la comunità dell’intelligence.

Nel 2003 la National Security Agency (NSA) degli Stati Uniti aveva già iniziato a violare sistematicamente il Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA), sotto il suo direttore generale Michael Hayden. Erano i giorni del programma “Total Information Awareness”. Prima che PRISM si sognasse di farlo, su ordine della Casa Bianca di Bush, la NSA mirava già a “raccogliere tutto, annusare tutto, conoscere tutto, elaborarlo , sfruttarlo”.

Nello stesso periodo, Google, la cui missione aziendale dichiarò pubblicamente consistere nel raccogliere e “organizzare le informazioni del mondo e renderle universalmente accessibili e utili” accettava denaro della NSA, per un importo di 2 milioni di dollari, per fornire all’agenzia strumenti di ricerca per il suo tesoro in rapido aumento di conoscenze ‘sottratte’.

Nel 2004, dopo aver rilevato Keyhole, una startup tecnologica di mappatura, cofinanziata dalla National Geospatial-Intelligence Agency (NGA) e dalla CIA, Google ha sviluppato la tecnologia di Google Maps, una versione aziendale con cui da allora ha negoziato, dal Pentagono alle associazioni federali, e agenzie statali con contratti multimilionari. Nel 2008, Google ha contribuito a lanciare nello spazio un satellite spia NGA, il GeoEye-1. Google condivide le fotografie del satellite con le comunità militari e di intelligence statunitensi. Nel 2010, NGA ha assegnato a Google un contratto da 27 milioni di dollari per “servizi di visualizzazione geospaziale”.

Nel 2010, dopo che il governo cinese è stato accusato di aver hackerato Google, la società ha avviato una relazione di “condivisione formale delle informazioni” con la NSA, che avrebbe consentito agli analisti della NSA di “valutare le vulnerabilità” nell’hardware e nel software di Google. I contorni esatti dell’accordo non sono mai stati rivelati, la NSA ha coinvolto altre agenzie governative in aiuto, tra cui l’FBI e il Dipartimento per la Sicurezza interna.

Più o meno nello stesso periodo, Google veniva coinvolta in un programma noto come “Enduring Security Framework” (ESF), che prevedeva la condivisione di informazioni tra le società tecnologiche della Silicon Valley e le agenzie affiliate al Pentagono “alla velocità della rete”. Email ottenute nel 2014 nell’ambito delle richieste di Libertà di informazione, Schmidt e il suo collega googler Sergey Brin corrispondono a nome proprio con il capo della NSA, il generale Keith Alexander, sull’ESF.60 Reportage, incentrato sulla familiarità nella corrispondenza e-mail: “General Keith . . . così bello vederti!” Schmidt scrive. Ma la maggior parte dei rapporti ha trascurato un dettaglio cruciale. “Le tue intuizioni come membro chiave della Base industriale della Difesa” – ha scritto Alexander a Brin – “sono preziose per garantire che gli sforzi dell’ESF abbiano un impatto misurabile”.

Il Dipartimento per la Sicurezza Interna definisce la Base industriale della Difesa come “il complesso industriale mondiale che consente la ricerca e lo sviluppo, nonché la progettazione, produzione, consegna e manutenzione di sistemi d’arma militari, sottosistemi e componenti o parti, per soddisfare i requisiti militari statunitensi”.

La Base industriale della Difesa fornisce “prodotti e servizi essenziali per mobilitare, schierare e sostenere operazioni militari”. Include servizi commerciali regolari acquistati dalle forze armate statunitensi? No. La definizione esclude specificamente l’acquisto di servizi commerciali regolari. Qualunque cosa renda Google un “membro chiave della Base industriale della Difesa”, non sono le campagne di reclutamento inviate tramite Google AdWords, o i soldati che controllano la loro Gmail.

Nel 2012, Google è entrata nell’elenco dei lobbisti di Washington DC, che spendono di più; un elenco generalmente molestato esclusivamente dalla Camera di Commercio degli Stati Uniti, dagli appaltatori militari e dai leviatani del petrolio. Google è entrata nella classifica al di sopra del gigante aerospaziale militare Lockheed Martin, con un totale di 18,2 milioni di dollari spesi nel 2012 contro i 15,3 milioni di Lockheed. Anche Boeing, l’appaltatore militare che ha assorbito McDonnell Douglas nel 1997, è sceso al di sotto di Google, con 15,6 milioni di dollari spesi, così come Northrop Grumman con 17,5 milioni.

Nell’autunno del 2013 l’amministrazione Obama sta cercando di raccogliere sostegno per gli attacchi aerei statunitensi contro la Siria. Nonostante le battute d’arresto, l’amministrazione continua a premere per un’azione militare fino a settembre con discorsi e annunci pubblici sia del presidente Obama che del segretario di Stato John Kerry. Il 10 settembre, Google ha prestato la sua prima pagina, la più popolare su Internet, allo sforzo bellico, inserendo una riga sotto la casella di ricerca con la scritta “Live! Il segretario Kerry risponde alle domande sulla Siria. Oggi tramite Hangout alle 14:00 ET.”

Come scrisse nel 1999 l’autodefinito “centrista radicale” editorialista del New York Times, Tom Friedman, a volte non è sufficiente lasciare il dominio globale delle società tecnologiche americane a qualcosa di volubile come “il libero mercato”:

La mano nascosta del mercato non funzionerà mai senza un pugno nascosto. McDonald’s non può prosperare senza McDonnell Douglas, il designer dell’F-15. E’ il pugno nascosto che tiene il mondo al sicuro affinché le tecnologie della Silicon Valley possano prosperare si chiama US Army, Air Force, Navy e Marine Corps.66

Se qualcosa è cambiato da quando sono state scritte quelle parole, è che la Silicon Valley è diventata irrequieta con quel ruolo passivo, aspirando invece ad adornare il “pugno nascosto” come un guanto di velluto. Scrivendo nel 2013, Schmidt e Cohen hanno dichiarato:

Quello che Lockheed Martin è stato per il ventesimo secolo, le società di tecnologia e sicurezza informatica lo saranno per il ventunesimo.

Questa è stata una delle tante audaci affermazioni fatte da Schmidt e Cohen nel loro libro, che è stato infine pubblicato nell’aprile 2013. Il titolo provvisorio, “The Empire of the Mind”, alla fine è sostituito con “The New Digital Age: Reshaping the Future of People, Nations and eBussiness”. Quando è uscito, avevo formalmente chiesto e ricevuto asilo politico dal governo dell’Ecuador e mi ero rifugiato nella sua ambasciata a Londra. Avevo già trascorso quasi un anno nell’ambasciata sotto la sorveglianza della polizia. Online ho notato che la stampa mormorava entusiasta sul libro di Schmidt e Cohen, ignorando vertiginosamente l’esplicito imperialismo digitale del titolo e la cospicua serie di avalli pre-pubblicazione di famosi guerrafondai come Tony Blair, Henry Kissinger, Bill Hayden e Madeleine Albright sul retro.

Presentato come una previsione visionaria del cambiamento tecnologico globale, il libro non è riuscito a fornire, non è riuscito nemmeno a immaginare un futuro, buono o cattivo, sostanzialmente diverso dal presente. Il libro era una fusione semplicistica dell’ideologia della “fine della storia” di Fukuyama – fuori moda dagli anni ’90 – e dei telefoni cellulari più veloci. È stato riempito con attitudini DC, ortodossie del Dipartimento di Stato e prese servili di Henry Kissinger. Non sembrava adattarsi al profilo di Schmidt, quell’uomo acuto e tranquillo nel mio soggiorno. Ma continuando a leggere ho cominciato a vedere che il libro non era un serio tentativo di storia futura. Era una canzone d’amore di Google per Washington ufficiale. Google, un fiorente superstato digitale, si stava offrendo di essere il visionario geopolitico di Washington.

Un modo di vederla, è che sono solo affari. Affinché un monopolio americano dei servizi Internet garantisca il dominio del mercato globale, non può semplicemente continuare a fare ciò che sta facendo e lasciare che la politica si occupi di se stessa. L’egemonia strategica ed economica americana diventa un pilastro vitale del suo dominio sul mercato. Cosa deve fare un mega corporation? Se vuole cavalcare il mondo, deve entrare a far parte dell’impero originale del “non essere malvagio”.

Ma parte dell’immagine resiliente di Google come “più di una semplice azienda” deriva dalla percezione che non si comporti come una grande, cattiva società. La sua propensione ad attirare le persone nella trappola dei suoi servizi con gigabyte di “spazio di archiviazione gratuito” produce la percezione che Google lo stia regalando gratuitamente, agendo direttamente in contrasto con il motivo di profitto aziendale. Google è percepita come un’impresa essenzialmente filantropica, un motore magico presieduto da visionari ultraterreni, per la creazione di un futuro utopico. L’azienda a volte è apparsa ansiosa di coltivare questa immagine, riversando fondi in iniziative di “responsabilità aziendale” per produrre “cambiamenti sociali “—esemplificato da Google Ideas. Ma come mostra Google Ideas, anche gli sforzi “filantropici” dell’azienda la portano scomodamente vicino al lato imperiale dell’influenza statunitense. Se Blackwater/Xe Services/Academi stessero operando un programma come Google Ideas, attirerebbero un intenso controllo critico. Invece in qualche modo Google ottiene un pass gratuito.

Che si tratti solo di un’azienda o “più di una semplice azienda”, le aspirazioni geopolitiche di Google sono saldamente invischiate nell’agenda di politica estera della più grande superpotenza mondiale. Con la crescita del monopolio di ricerca e servizi Internet di Google, mentre allarga il suo cono di sorveglianza industriale per coprire la maggior parte della popolazione mondiale, dominando rapidamente il mercato della telefonia mobile e correndo per estendere l’accesso a Internet nel sud del mondo, Google sta diventando, costantemente, Internet per molte persone. La sua influenza sulle scelte e sui comportamenti della totalità dei singoli esseri umani si traduce in un potere reale di influenzare il corso della storia.

Se il futuro di Internet dovrà essere Google, ciò dovrebbe preoccupare seriamente le persone di tutto il mondo: in America Latina, Asia orientale e sud-orientale, subcontinente indiano, Medio Oriente, Africa subsahariana, ex Unione Sovietica, e persino in Europa, per la quale Internet incarna la promessa di un’alternativa all’egemonia culturale, economica e strategica degli Stati Uniti.

L’impero del “non essere malvagio” è ancora un impero.

Sabato, 12 marzo 2022 – n° 11/2022

In copertina: il quartier generale di Google a Mountains View – Foto: The Pancake of Heaven! CC BY-SA 4.0

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