domenica, Dicembre 22, 2024

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Il dispotismo turco affonda gli artigli oltre confine

In Turchia si adula l’Europa e la democrazia, ma 700 persone legate al partito pro-curdo HDP sono state arrestate in una settimana

di Laura Sestini

Nonostante l’Europa continui a siglare accordi con la Turchia e a sovvenzionare miliardi perché faccia da barriera ai flussi migratori in arrivo dal Medio Oriente, e contemporaneamente l’Italia ne sia il maggior partner economico tra i Paesi UE (https://www.aa.com.tr/en/economy/turkey-attracts-46b-foreign-investment-in-jan-nov/2141321), l’amministrazione politica turca sta perdendo credibilità anche agli occhi meno attenti, tantoché il collega Mariano Giustino di Radio Radicale – esperto di Turchia – su Twitter scrive che il Presidente turco Erdoğan è allo sbando su più fronti.

Gli istituti penitenziari turchi stanno vivendo un lungo periodo di iper-affollamento a causa delle decine di migliaia di persone arrestate per il presunto colpo di Stato del 15 luglio 2016, per cui Erdoğan continua ad accusare Fethullah Gülen. Questo modo di agire è, però, solo una piccola parte della strategia del terrore che sta portando avanti l’AKP, il partito di governo.

Infatti, mentre con una mano si firmano i mandati di arresto dei presunti gulenisti, con l’altra si continuano le purghe nei confronti degli esponenti del gruppo politico HDP – Partito Democratico dei Popoli. Dai primi di febbraio sono finiti in manette oltre 700 persone, compresi dirigenti provinciali e distrettuali, regolarmente eletti con le elezioni del marzo 2019.

La strategia di Recep Tayyip Erdoğan è fare pulizia intorno a sé degli oppositori politici, includendovi giornalisti, attivisti per i diritti umani, avvocati, intellettuali e finanche – da oltre 40 giorni – gli studenti universitari dell’Istituto Boğaziçi di Istanbul, scesi in strada per protestare contro la nomina d’ufficio, a rettore dell’ateneo, di Melih Bulu – esponente del partito di governo AKP – in assenza della tradizionale elezione, come prevista dal regolamento accademico.

Alle proteste pacifiche degli studenti, si sono unite organizzazioni ambientaliste, movimenti femministi, pacifisti e LGBTQ, altri campus e tutto il vicino quartiere popolare di Kadiköy con concerti di pentole, coperchi e slogan. Le violenze delle forze dell’ordine e gli arresti sono stati numerosi: oltre 500 studenti arrestati e molti altri malmenati in strada.

A seguito delle nuove trattative per la pace in Libia – da dove la Turchia non pare intenzionata ad andarsene, nonostante le recenti richieste dell’Onu – e alle prossime elezioni politiche nazionali, indette per il 24 dicembre, nonché all’assegnazione di un governo ad interim per il Paese libico affidato ad Abdulhamid Dbeibeh come Primo Ministro, la Libia vive una fase di relativa tranquillità. Che fare, quindi, di tutti i mercenari a carico dello Stato turco, trasferiti sul posto dalla Siria per dare man forte a Fayez al-Sarraj – precedente Primo Ministro (GNA), sempre designato da Onu e UE, che oramai non è più l’uomo forte sul terreno bellico e politico?

La Turchia di Erdoğan, oltre che ‘fare la guerra’ ai propri cittadini, sembra proprio non poter fare a meno di usare la forza militare regolare (ricordiamo che per grandezza è il secondo esercito Nato, dopo gli Stati Uniti), nonché trasferire in differenti Paesi dell’area mediterraneo-caucasica le migliaia di mercenari islamisti al suo seguito.

Da diversi decenni, infatti, la Turchia è in perenne lotta armata contro i partigiani del PKK (considerati gruppo terroristico da Turchia, Usa e differenti altri Paesi, Italia inclusa), che si arroccano sulle montagne al confine tra la Turchia, la Siria e l’Iraq del Nord, quest’ultimo sede della Regione Autonoma Curda – KDR. Se la questione armata tra Turchia e PKK non è storia recente, il fatto più allarmante, e sempre più evidente, è il più ampio sfondamento dei confini, da parte turca, nel territorio del Kurdistan iracheno. La notte del 10 febbraio febbraio scorso una vasta operazione militare ha interessato, con bombardamenti a tappeto, la regione di Garê, prendendo di mira i villaggi di Guzê, Meyrokê, Siyanê, Çemşerîtkê, Yekmalê e Kanîsarkê; mentre centinaia di unità di corpi speciali sono stati elitrasportati nella regione da Cobra e Sikorsky.

La mappa dell’offensiva aerea turca


L’offensiva nasceva per liberare 13 prigionieri turchi – soldati regolari ed elementi dei servizi segreti – in mano al braccio armato del PKK (HPG) da oltre cinque anni, rispetto ai quali la politica turca non aveva mai dato nessuna risposta neanche alle famiglie – nonostante le innumerevoli richieste e alle negoziazioni con lo stesso vertice HPG.

L’operazione era stata precedentemente annunciata dal Presidente Erdoğan in un discorso alla Nazione, promettendo ‘nuove buone notizie’ sulla liberazione dei prigionieri e della cattura di eminenti capi della guerriglia curda, quali Duran Kalkan e Murat Karayılan, creduti di base nell’area muontuosa.

Durante i bombardamenti, sebbene la Turchia abbia dichiarato tutto il contrario e lo stesso nuovo Segretario di Stato statunitense – Tony Blinken – abbia, in un primo momento, denunciato come illegale l’operazione turca – tranne aver ritrattato poi le sue stesse parole – si è avuto lo sterminio di tutti gli ostaggi, nonché danni e vittime tra le unità di guerriglia e la popolazione civile locale. I comunicati ufficiali, durante i funerali delle vittime – tenutisi in pompa magna in Turchia – dichiarano colpevoli i guerriglieri del PKK. Secondo le cronache locali e l’informazione di Stato, sarebbero stati assassinati a sangue freddo con colpi di armi da fuoco alla testa.

Come scrive il collega giornalista Daniel Fleury sull’accaduto: “L’operazione in questione era in preparazione dall’ottobre 2020 e non è, a rigor di termini, una operazione a protezione del confine (come dichiara regolarmente la Turchia, prima delle operazioni belliche, anche per i territori siriani, n.d.g.). Questo è il motivo per cui la Turchia ha siglato alcune precauzioni e accordi, prima che potesse procedere. Tutti questi attacchi contro la guerriglia curda sono stati concertati (e questo anche di recente) con le autorità Barzaniste, dirigenti dell’entità curda irachena, e il cui partito PDK collabora con la Turchia contro il PKK.

Contemporaneamente Uiki Onlus – Agenzia di stampa curda in Italia – rincara: “Mentre Erdoğan faceva vane promesse all’UE e agli Stati Uniti riguardo a possibili riforme, il suo ministro della Difesa, Hulusi Akar, si è recato all’estero, visitando Baghdad ed Erbil a gennaio, e Berlino all’inizio di questo mese, per chiedere l’approvazione e il sostegno per una nuova fase della guerra dello Stato turco contro il popolo curdo e per l’espansione dell’occupazione turca nella regione. Il 9 febbraio, per ottenere il sostegno del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, Akar si è offerto di negoziare sull’uso, da parte della Turchia, del sistema di difesa aerea russo S-400”.

Come già avvenuto in Siria del Nord e dell’Est, area a maggioranza curda, la Turchia avanza con la stessa politica espansionistica anche in Kurdistan meridionale (KDR), ma questa volta con l’avvallo del ‘clan’ Barzani, che governa la regione dalla sua istituzione, a seguito della Seconda guerra del Golfo, nel 2003.

Il ‘complotto’ del governo Barzani con Erdoğan ha provocato recentemente numerose proteste dei cittadini curdo-iracheni (https://www.theblackcoffee.eu/in-kurdistan-iracheno-sinfiamma-la-protesta/), contro la corruzione, la disoccupazione e la stessa ingerenza turca in territorio curdo, che il governo turco annuncia anche per tutta la regione del Sinjar (il territorio del popolo yazida) – con la reiterata motivazione di stanare i guerriglieri PKK, nonostante l’area sia ben lontana, per la maggior parte, dai propri confini territoriali, se non per pochi chilometri vicino alla Siria, dove è avvenuta l’offensiva con oltre 40 aerei da combattimento e dove – secondo quanto scrive la giornalista Arzu Demir per Yeni Özgür Politika, rilanciato dall’agenzia Uiki – per l’operazione sono state utilizzate armi chimiche. 

Assieme agli accordi bellici, Turchia e Kurdistan iracheno vanno mano nella mano anche per le politiche interne: in Turchia nei giorni scorsi sono stati condannati cinque avvocati che operano nel campo dei diritti umani – ivi compresa Eren Keskin, vicepresidente dell’Associazione turca per i diritti umani – condannata a 6 anni e tre mesi, per appartenenza a un gruppo armato terrorista (caso di cui si sta occupando anche Amnesty International: https://www.amnesty.it/turchia-condanna-a-sei-anni-e-tre-mesi-per-lavvocata-per-i-diritti-umani-eren-keskin/?fbclid=IwAR2EcM-S83Km256iJEvma7k5-3yEewR59qp4tveJB7Db-fjIvkvmLPnGcGI).

Parallelamente, e principalmente con le stesse accuse, il Tribunale di Erbil, in Kurdistan iracheno, ha condannato cinque persone tra giornalisti e attivisti – Sherwan Sherwani, Ayaz Karam, GodharZebari, Hariwan Issa e Shivan Saeed, un membro religioso del partito politico Coalizione per la democrazia e la giustizia – a 6 anni di carcere con l’imputazione di “destabilizzare la sicurezza nel Paese” (https://www.theblackcoffee.eu/il-kurdistan-iracheno-fallira-a-causa-della-dittatura-che-stringe/). Il fascicolo che riguarda la Turchia alla Corte Europea per i Diritti Umani – per i casi di violazione denunciati – diventa sempre più voluminoso ma, nonostante ciò, il governo di Ankara fa ‘orecchie da mercante’.

Aggiornamento al 25 febbraio 2021: Murat Karayilan – comandante PKK che Erdoğan voleva rapire o fare in mille pezzi durante l’operazione militare – sostiene: “Questi attacchi operativi non sono stati lanciati per salvare e liberare quegli individui. I Turchi volevano stabilire la loro presenza militare nel mezzo della regione di Garê. Chiunque capisca la logica della guerra può capire che questa non è stata una mossa intelligente.”

“Stiamo parlando di un campo sotterraneo – continua – un campo che aveva sette accessi. Se attacchi un posto del genere con attacchi aerei e vari gas chimici, è possibile che qualcuno possa rimanere vivo all’interno? Questo è inconcepibile. La responsabilità della morte dei prigionieri è completamente delle autorità turche. La loro brutalità, la loro insensibilità hanno causato tutto questo.” (fonte: Uiki Onlus)

Sabato, 20 febbraio 2021 – n° 4/2021

In copertina: Eren Keskin. Foto Yeni Yasam Gazete.

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