Cronache di una delegazione italiana in Kurdistan iracheno
di Laura Sestini
L’associazione Verso il Kurdistan, con sede ad Alessandria, presieduta da Antonio Olivieri, abitualmente frequenta aree curde in Turchia, Iraq e Siria per supportare la popolazione civile attraverso progetti mirati su scuole e ambito sanitario, nonché altre necessità richieste espressamente dall’autogoverno che in alcune di queste aree si sta attuando attraverso il Confederalismo democratico.
Il popolo ezida, che abita la regione dello Shengal in Nord Iraq, al confine con la Siria di Nord-est, si differenzia dal resto dei Curdi per avere un credo religioso differente dal Cristianesimo e dall’Islam. Questo è stato il motivo per cui gli Ezidi, ad agosto 2014, sono stati brutalmente attaccati dai miliziani del Califfato islamico, che hanno ucciso migliaia di uomini e rapito altrettante donne e bambini. Forse ricorderete ancora le immagini televisive di allora, delle donne recluse in gabbie di ferro e vendute ai mercati degli schiavi istituiti dall’Isis.
Tra gli Ezidi, ancora circa tremila persone risultano disperse.
Il recente viaggio effettuato dalla delegazione di Verso il Kurdistan nelle aree curdo-irachene dello Shengal e del campo profughi di Makhmour, ha avuto risvolti nuovi e probabilmente inaspettati, a tratti violenti, che non promettono niente di buono per il futuro di questo territorio e, con una visione transnazionale, per ampia parte del Medio Oriente.
Capire cosa succede in quell’area, dove l’influenza della Turchia non è per niente casuale, è di estrema importanza. Antonio Olivieri ci narra l’esperienza, vissuta in prima persona.
Quando nasce l’Associazione Verso il Kurdistan e su quali presupposti?
Antonio Olivieri: – L’Associazione Verso il Kurdistan Od è nata in Alessandria su proposta di militanti sindacali, di associazioni di volontariato e partiti di sinistra, ed è cresciuta grazie all’apporto, soprattutto, di singoli, attivisti e volontari. Nata nel 1999 come Comitato, è stata formalizzata come Associazione nel 2002. Da allora ad oggi, sono state organizzate conferenze, dibattiti, manifestazioni culturali (teatro, musica, rassegne cinematografiche, mostre fotografiche), feste e sono stati costruiti importanti progetti di cooperazione e solidarietà nel Kurdistan Bakur (Turchia), in Rojava (Siria del Nord-est) e nel Kurdistan Bashur (Iraq).
Gli obiettivi che si è data l’Associazione sono stati quelli di costruire iniziative umanitarie di solidarietà e cooperazione, ma anche di sostenere la lotta del popolo kurdo per la valorizzazione della loro cultura, lingua, tradizioni, storia millenaria, legittima autonomia.
Sul genocidio degli Ezidi, quali sono state, secondo lei, le motivazioni per cui militari iracheni e i peshmerga della Regione Autonoma curdo-irachena non hanno protetto questo gruppo etnico e si sono defilati, lasciando pure armi pesanti ai miliziani jihadisti di Daesh?
A.O.: – Nel 2014, per contrastare l’offensiva dell’ISIS, nella regione di Shengal, abitata prevalentemente dagli Ezidi, erano presenti 25mila soldati iracheni e 12mila peshmerga – l’organizzazione militare del Governo regionale del Kurdistan iracheno. L’ISIS è arrivato a Shengal con 1.500 uomini, ma i soldati iracheni e i peshmerga hanno subito abbandonato il campo, rifiutandosi di difendere la popolazione, lasciando anche le armi e le munizioni alle milizie islamiste, così com’era avvenuto poco tempo prima a Mosul e a Tal Afar. Non avevano alcuna intenzione di difendere la popolazione ezida, malvista anche dal Governo centrale iracheno e dal Governo della regione autonoma curda dominata dal clan Barzani. Ha prevalso, tra le fila dei militari presenti a Shengal, certamente il sentimento della paura e la convinzione che i miliziani di Daesh fossero imbattibili. E’ stato un massacro, quello che per gli Ezidi va sotto il nome del 74° ferman (numero cronologico degli attacchi della loro storia contemporanea). Per avere un’idea delle atrocità commesse da Daesh in quell’agosto del 2014, è utile leggere la testimonianza di Nadia Murat, insignita del premio Nobel per la pace, nel suo libro “L’ultima ragazza”. I sopravvissuti al massacro hanno trovato sul monte Sinjar alcuni militanti delle unità di difesa kurde, scesi dai monti Qandil che hanno aperto un corridoio per la loro salvezza verso il Rojava, cominciando, allo stesso tempo, ad addestrare giovani uomini e giovani donne alla resistenza armata. Sono sorte così le YBS/YJS, i primi nuclei di autodifesa maschili e femminili della popolazione ezida.
Con l’attacco del Califfato islamico del 2014, a parte i rapiti e le vittime, centinaia di migliaia di Ezidi sono fuggiti dal loro territorio verso l’Europa e, soprattutto, nei campi profughi del Kurdistan iracheno. Adesso molti vorrebbero rientrare, ma sia il governo centrale iracheno che quello curdo-iracheno pongono ostacoli nonostante un accordo del 2020 supervisionato dalle Nazioni Unite. Quali interessi hanno i due Governi su quest’area?
A.O.: – In quel dramma epocale per la popolazione ezida che fu il genocidio del 2014, cinquemila persone sono state uccise, settemila sono scomparse dopo il rapimento da parte dell’ISIS, 100mila sono arrivate in Europa, 350mila sono state costrette all’esodo e, in buona parte, si trovano ancora nel campi profughi in Nord Iraq. Su una popolazione di 500mila abitanti, solo 250 mila hanno fatto ritorno. Scendendo verso Baghdad, si incontrano ai check-point, sulla corsia opposta, furgoni pieni di povere masserizie con le famiglie che stanno tornando. Andranno a vivere in tende ormai consunte dell’UNHCR e, da lì, proveranno a ricostruire con pochi, essenziali mattoni grigi, la loro casa distrutta. Tra mille difficoltà, la vita pullula di bambini nati dopo il genocidio. Ma non basta, nei villaggi abbandonati e distrutti c’è bisogno di tutto, in primo luogo di scuole e ospedali per creare le condizioni per il ritorno. Le altre famiglie sono bloccate nei campi profughi del Kurdistan iracheno, dove il Governo regionale frappone continui ostacoli al loro rientro e sono, peraltro, sottoposte a continui attacchi di droni da parte della Turchia: uno stillicidio quotidiano, con morti e feriti, di cui nessuno parla. Stessa cosa avviene nella regione di Shengal, dove i droni turchi entrano in Iraq e bombardano quasi ogni giorno continuando una strage silenziosa già intrapresa da Daesh proprio per scoraggiare la popolazione ezida al ritorno. Gli interessi su quest’area sono strategicamente importanti: Shengal si trova sulla direttrice Raqqa – Mosul – Siria, a circa una ventina di chilometri dal confine siriano; era importante per l’ISIS ed è altrettanto importante per la Turchia in quanto zona ambita per la realizzazione di quel disegno neo-ottomano di cui il regime di Recep Tayyip Erdoğan si è fatto promotore. Che dire del governo regionale del Kurdistan iracheno, completamente asservito al regime del potente vicino turco, con il quale intrattiene anche importanti rapporti commerciali? Lo stesso discorso vale per il Governo centrale iracheno, debolissimo nei confronti della Turchia, diviso al proprio interno, controllato da diverse milizie che si sono spartite parte del territorio, costretto a subire pesanti ricatti da parte della Turchia che periodicamente minaccia l’invasione, silenziato anche nelle proteste formali. Ricordiamo che oggi la Turchia è il secondo esercito della Nato, con un milione di effettivi, con mezzi ed armamenti tra i più moderni del mondo.
La Turchia attacca, da tempo, il territorio Ezida e il campo profughi di Makhmour, con i droni e, naturalmente, ci sono anche delle vittime. E’ un complotto triangolare contro questo popolo?
A.O.: – Certamente, è un complotto che mira a togliere di mezzo queste due realtà che rappresentano per la Turchia un’ipoteca per la realizzazione dei suoi piani d’espansione. Dietro, c’è sempre la “longa manu” della Turchia. Faccio notare che questo avviene in territori che hanno già pagato un pesante prezzo nei confronti dell’ISIS negli anni precedenti: questo sicuramente per quanto riguarda la regione di Shengal. Per il Campo rifugiati di Makhmour, mi preme ricordare che quel campo è sorto dopo l’incendio e la distruzione dei loro villaggi nella regione turca del Botan negli anni ’90 ad opera dell’esercito turco, che ha costretto la popolazione ad attraversare le montagne coperte di neve che separano la Turchia dall’Iraq, con gravi perdite umane; una volta essere arrivati in territorio iracheno, hanno avuto la “concessione” da Saddam Hussein di stabilirsi in mezzo al deserto, in un’area chiamata la “valle della morte”. Oggi, però, il campo dei rifugiati di Makhmour è diventato una realtà vivibile: ospita 11mila profughi – di cui 3.500 bambini che frequentano regolarmente le scuole, case basse hanno sostituito le tende – che vivono di agricoltura e pastorizia. Sebbene attaccati dalle bande nere dell’ISIS nella sua avanzata verso Mosul, hanno saputo difendersi e liberare il campo. Da agosto 2019, il campo è sotto embargo del Governo regionale del Kurdistan; da allora, provocazioni e ripetuti attacchi con droni si sono susseguiti ad opera del governo centrale iracheno e del regime turco di Erdoğan.
Il campo di Makhmour è stato fondato nel 1998. Per quale motivo, da un giorno all’altro l’esercito iracheno recentemente avrebbe voluto recintare l’area, con grandi proteste pacifiche degli abitanti del Campo, su cui poi si è trovato un accordo? Accordo temporaneo, duraturo o provocazione?
A.O.: – Mentre eravamo con la delegazione in Iraq, ci è giunta notizia che l’esercito iracheno aveva circondato il Campo di Makhmour, e, come già accaduto tempo fa, avrebbero voluto recintarlo con il filo spinato. La popolazione si è opposta pacificamente e i residenti hanno montato un tendone per ripararsi dal sole e dalla pioggia e per dimostrare che intendono restare ad opporsi fino a quando sarà necessario. I militari hanno tentato di forzare il blocco, hanno pure sparato facendo due feriti gravi, ma non sono passati. Nei giorni successivi, una delegazione degli abitanti di Makhmour è arrivata a Baghdad per incontrare alcuni Ministri del governo iracheno. L’accordo che ne è scaturito prevede il ritiro dell’esercito da Makhmour e la rinuncia a recintare il campo con il filo spinato. Null’altro e niente di scritto. Resta vergognosa la latitanza dal campo di Makhmour dell’UNHCR, il cui compito sarebbe quello di assistere appunto rifugiati e profughi. Sarà forse presuntuoso da parte nostra, ma noi pensiamo che anche la nostra presenza e il nostro attivismo nei confronti delle agenzie delle Nazioni Unite e delle associazioni a Baghdad abbia dato un contributo alla realizzazione di quest’accordo.
La vostra abituale delegazione annuale ha trovato grandi ostacoli anche da parte di Baghdad. Siete stati trattati non proprio con i guanti ed avete dovuto incontrare l’Ambasciatore italiano per trovare una soluzione. Cosa teme il governo iracheno dai gruppi stranieri che visitano Shengal e Makhmour?
A.O.: – E’ vero, abbiamo trovato, per la prima volta, un clima diverso e ostile. Basti pensare che la nostra precedente delegazione del 2021 che aveva trovato ostacoli e divieti ai check-point (per ben tre giorni siamo stati bloccati e rimandati indietro) aveva poi risolto il problema con un accordo tra l’Autonomia di Shengal e il Governo centrale iracheno. Addirittura, siamo stati accompagnati nel nostro programma di visite e di incontri a Shengal da due persone dell’intelligence irachena.
Questa volta l’ostacolo maggiore l’abbiamo trovato con l’intelligence del Governo centrale iracheno. Dopo due giorni di presenza a Shengal, abbiamo ricevuto l’ordine di tornare a Baghdad e d’imbarcarci sul primo aereo per l’Italia. Soltanto un accordo raggiunto all’ultimo momento tra il Pade – Partito ezida della libertà e della democrazia – e l’intelligence irachena ha evitato la nostra espulsione, per cui a Shengal abbiamo potuto completare il nostro programma d’incontri e inaugurare il centro sanitario di Serdeşt che abbiamo contribuito a realizzare. Cosa che non è avvenuta a Makhmour, dove non abbiamo avuto l’autorizzazione ad entrare nel Campo, dove ci hanno ritirato i passaporti e ci hanno imposto di andare a Baghdad nottetempo per imbarcarci per l’Italia. Una seconda espulsione di fatto!
Al contrario, siamo andati in albergo e alle 3.00 di notte abbiamo incontrato il nostro ambasciatore. Da lì, nei giorni successivi, abbiamo redatto comunicati stampa e cercato contatti con agenzie dell’ONU ed associazioni. Noi pensiamo che il Governo iracheno sia costantemente sotto ricatto della Turchia, temono che la nostra presenza possa far circolare voci e notizie in Occidente sui bombardamenti di droni turchi, sull’uso da parte della Turchia delle bombe chimiche contro i guerriglieri del PKK, sull’occupazione di fatto di ampie zone del territorio iracheno da parte di miliziani turchi – di cui un centinaio di postazioni militari in Iraq, oltre il confine turco – che temono di perdere il controllo sugli Ezidi di Shengal e sui rifugiati del Campo di Makhmour, che potrebbero rappresentare un pericoloso esempio di autogoverno democratico in Medio Oriente.
Al contrario, i Curdi e gli Ezidi di Shengal ci chiedono di non lasciarli soli, di essere la loro voce in Europa, di far riconoscere il genocidio compiuto dall’ISIS nel 2014, rispetto al quale è calato un velo di silenzio connivente da parte dei Governi europei.
Sabato, 8 luglio 2023 – n°27/2023
In copertina: al check point gestito dagli iraniani – Foto: Giorgio Barbarini (tutti i diritti riservati)