Al 58mo posto nella classifica della libera informazione
di Ettore Vittorini
Una delle prime iniziative prese da Massimo D’Alema, appena nominato presidente del Consiglio – 21 ottobre 1998 – fu quella di ritirare la querela per diffamazione a mezzo stampa che in precedenza aveva presentato contro Giorgio Forattini, vignettista satirico di Repubblica che in un disegno lo aveva inserito nell’elenco di “spie comuniste in favore del KGB sovietico”, diffuso da un ex archivista di quel servizio segreto. Fu un esempio di correttezza per un Capo di governo che di fronte a un eventuale processo, avrebbe potuto trovarsi in una posizione di vantaggio nelle decisioni della giuria. In seguito risultò che quell’elenco era un falso.
La scelta di D’Alema fu forse un caso unico nella storia della Repubblica: altri presidenti del Consiglio – Berlusconi in testa e oggi Giorgia Meloni – si sono ben guardati dall’ imitarla.
Fece molto clamore nel 1953 il caso tra Alcide De Gasperi e Giovanni Guareschi quando quest’ultimo, direttore del settimanale satirico “Candido” – di estrema destra – e autore di “Don Camillo”, pubblicò due lettere che il leader della DC riparato in Vaticano durante il fascismo, avrebbe scritto nel 1943 al generale britannico Alexander chiedendogli di far bombardare Roma per favorire la caduta del regime.
De Gasperi, affermando che quelle lettere erano un falso, querelò per diffamazione a mezzo stampa il giornalista che venne condannato a due anni di carcere. La parzialità dei giudici fu molto evidente: tra l’altro respinsero la richiesta della difesa di sottoporre le lettere alla perizia calligrafica. Guareschi venne condannato e si fece 406 giorni di carcere e poi liberato per buona condotta. Quando fu chiesto a De Gasperi il perché di quel rigore, il leader democristiano rispose: “Se ho fatto io il carcere per le mie idee, può anche farlo un giornalista”.
Da allora a oggi è passato molto tempo, ma poco è cambiato nei rapporti giudiziari tra politica e giornalismo. Lo dimostra la recente querela per diffamazione presentata dalla Presidente del consiglio Giorgia Meloni – insieme a Matteo Salvini – contro il giornalista Roberto Saviano, noto non solo per il suo libro Gomorra e i tanti articoli sulla camorra, ma anche per le prese di posizione in difesa dei migranti.
In questi giorni si svolge il processo contro di lui nel quale rischia una condanna di tre anni di carcere. La “colpa” di Saviano risale a una trasmissione televisiva sui 147 naufraghi raccolti dalla nave Open Arms, durante la quale in risposta ai duri commenti dei querelanti verso quella povera gente, lanciò un’invettiva: “Viene da dire una cosa contro Meloni e Salvini: bastardi, come avete potuto!”. Si trattava di un grido di indignazione.
Le querele contro i giornalisti vengono usate quasi sempre come mezzo di intimidazione. Su un totale di circa seimila all’anno, il 90% non arriva in Tribunale perché mancano di elementi accusatori, le altre difficilmente finiscono con una condanna, però raggiungono lo scopo di mettere in difficoltà gli accusati.
Ci sono anche le tante querele provenienti dai magistrati, di cui si parla poco. Per esempio alcuni giorni fa Maurizio Costanzo è stato processato per una querela di un giudice che respinse la richiesta di arresto per l’uomo che in seguito deturpò con l’acido il volto della cantante Gessica Notaro. La colpa del giornalista era di aver criticato con toni ironici quel magistrato e chiesto l’intervento del CSM. È stato condannato a un anno di carcere con la sospensione della pena se risarcirà con 40 mila Euro il “diffamato”.
La morale è che per la scarsa libertà di stampa l’Italia si trova al 58mo posto su 180 Nazioni nella classifica di Reporters senza frontiere, una pessima posizione per un Paese che ha “la più bella Costituzione del mondo”. Tra gli Stati democratici l’Italia è l’unico a prevedere l’arresto per il delitto di “diffamazione a mezzo stampa”. Altri motivi che lo pongono in quella classifica sono la paralisi legislativa, la dipendenza dagli introiti pubblicitari, l’autocensura dei giornalisti, le aggressioni e le minacce di morte cui sono esposti.
Di fronte alla paralisi legislativa nei confronti della stampa viene da chiedersi, perché i governi passati con dentro i partiti democratici non sono mai intervenuti? E perché i giornalisti non si mobilitano per difendere le proprie libertà? Su questo punto ci sarebbe da scrivere molto sulla debolezza della categoria il cui sindacato – la Federazione nazionale della stampa – lascia soli i colleghi che hanno problemi con la giustizia e il potere, limitandosi a emanare qualche rara e debole protesta.
Quando nel corso dell’ultima conferenza stampa sulla manovra economica la Meloni ha risposto duramente ai giornalisti, la reazione della categoria avrebbe dovuto essere quella di non partecipare più a quegli incontri o almeno sospenderli.
Vedremo tra breve cosa accadrà alla RAI quando se ne impossesserà il governo della Meloni. I colleghi dell’informazione di Stato si adegueranno come hanno sempre fatto?
Sabato, 10 dicembre 2022 – n° 50/2022
In copertina: immagine grafica dal web