giovedì, Dicembre 26, 2024

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Jihad e foreign fighter

Cosa rivela il silenzio dell’Europa?

di Laura Sestini

Secondo i calcoli, comunque approssimativi per l’impossibilità di riscontri effettivi, il numero dei foreign fighter unitisi al Califfato Islamico in Iraq e Siria tra il 2012 e il 2018 arriverebbe alla cifra di 40 mila unità, provenienti da almeno 80 nazioni al mondo, un fenomeno che, nonostante non sia qualcosa di nuovo, lo è stato di fatto per l’entità del flusso senza precedenti verso quei territori.

A febbraio 2018, uno studio pubblicato dall’istituto belga Egmont riporta che dall’Europa, alla volta della Siria e dell’Iraq, siano partiti circa 5 mila affiliati Isis, ma di questi circa 1.500 siano già rientrati nei Paesi di provenienza.

Un ulteriore report, pubblicato a maggio di quest’anno da Eurojust, l’Unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea, riporta – invece – che gli affiliati europei entrati a far parte dell’organizzazione o che abbiano viaggiato nei territori dello Stato Islamico siano, secondo uno studio condotto a luglio 2018 dall’International Center for the Study of Radicalization, un totale di circa 13 mila, di cui 7.252 provenienti dall’Europa orientale e 5.904 dall’Europa occidentale – dei quali il 17% sarebbero donne.

Il totale sopracitato comprende, in realtà, uomini, donne, minori e nati entro l’Isis. Per statistica, circa 1/3 risulta deceduto a causa degli scontri armati, circa 2.500 rientrati in Europa, altri rimasti in loco o trasferitisi in Paesi terzi, con una rimanenza di circa 2 mila unità di stranieri detenuti – intesi questi ultimi come extra rispetto ai detenuti di nazionalità irachena e siriana.

Secondo fonti curde e statunitensi, i miliziani Isis catturati dalle SDF (Forze Democratiche Siriane) in Siria Nord-orientale – il territorio dove governa la Confederazione Democratica Autonoma, istituita in piena guerra contro i mercenari jihadisti – ammonterebbero a circa 11 mila, numeri comprensivi delle donne affiliate allo Stato Islamico e i loro figli, collocati nei campi profughi sotto sorveglianza militare.

I funzionari delle SDF affermano che – tra gli stranieri detenuti – gli europei risulterebbero ancora diverse centinaia, in maggioranza provenienti da Francia, Regno Unito, Germania, Belgio e Paesi Bassi, e tra i quali anche sei italiani.

La questione dei mercenari del Califfato detenuti in Siria di Nord-Est non è cosa da poco, poiché da marzo 2019, data ufficiale della sconfitta militare dell’Isis, oltre a essersi originata la disputa su chi debba giudicare legalmente queste persone per atti terroristici e crimini contro l’umanità, sussiste prioritariamente il problema della sicurezza – lasciata totalmente e sfacciatamente in carico alle SDF – al quale si aggiunge, non da meno, il mantenimento alimentare e sanitario per migliaia di uomini, donne e minori appartenenti alla jihad islamica, contesto aggravatosi con il propagarsi del Covid-19.

Già nel 2014 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione 2178 definiva i combattenti terroristi stranieri, FTF (Foreign Terrorist Fighter), come: “Persone che si recano in uno Stato diverso dai loro Stati di residenza o nazionalità ai fini della perpetrazione, pianificazione, preparazione o partecipazione ad atti terroristici, oltre alla fornitura o ricezione di addestramento terroristico, anche in relazione a conflitti armati”.

Questa definizione al tempo si concentrava principalmente sulla prospettiva antiterroristica e a una comprensione di una più ampia realtà dei FTF, focalizzandosi sul punto di vista del diritto penale internazionale, applicabile anche a cittadini presenti in Europa come richiedenti asilo o rifugiati, di nazionalità extracomunitaria, che avessero compiuto atti terroristici, crimini di guerra o contro l’umanità – come poi è davvero avvenuto. Alcuni di questi casi vengono segnalati nel report di Eurojust.

Come accennato precedentemente uno dei nodi da risolvere – mentre ancora in alcune aree a Nord della Siria il conflitto prosegue in modalità low intensity – riguarda la possibilità di giudicare i presunti jihadisti per i crimini commessi – interni o esterni all’Isis e alle altre milizie jihadiste affiliate.

Dalla Regione Autonoma Confederale del Nord e dell’Est della Siria più di una volta sono stati lanciati appelli all’Unione Europea, alla Corte Penale Internazionale e all’Onu per allestire un Tribunale speciale in loco capace di portare in giudizio i mercenari, o il rimpatrio nelle nazioni di origine, ma nessun Paese finora si è preso la responsabilità – e l’onestà intellettuale – per rimpatriare i propri cittadini affiliati allo Stato Islamico, né per fare da apripista a un simile percorso, mentre UK, Danimarca e persino la neutrale Svizzera, si apprestano a revocare la cittadinanza a chi – dei propri connazionali affiliati all’Isis – abbia il doppio passaporto.

In Europa ci sono alcuni casi di sentenze o procedimenti penali contro europei, extraeuropei residenti stabilmente in Europa, siriani e iracheni accolti come rifugiati e poi scoperti, tramite i social, di appartenere alle gang jihadiste e perfino in carico all’azienda francese Lafarge, operativa con un cementificio in Siria del Nord, e che ha trattato accordi di sicurezza – dietro milionari compensi – con gruppi jihadisti. Tutti questi affiliati Isis già giudicati, tra i quali emergono diverse donne, erano tra coloro rientrati individualmente in territorio europeo. I rimpatriati direttamente dalla Siria verso l’Europa per essere giudicati – in soli cinque Stati membri – non superano al momento le 25 unità in totale.

L’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est, nonostante essersi resa disponibile a istituire l’apposito Tribunale speciale nel proprio territorio di riferimento, pur volendo non avrebbe né le capacità economiche per sostenere tale impegno, né capacità legali aderenti il più possibile a standard che rispettino i diritti umani e i sistemi giuridici occidentali, anche se è in atto una revisione della giurisprudenza penale, che risulta la più equa delle aree circostanti. Inoltre vengono richiesti avvocati e osservatori che tutelino gli imputati, per mettere in atto processi equi e trasparenti. L’Iraq è stato tra i primissimi Paesi a portare in giudizio i mercenari jihadisti – tra i quali numerosi cittadini francesi per accordi presi con la Francia – spesso con processi veloci e sommari che hanno comminato la pena di morte come condanna. Nell’Amministrazione Confederale della Siria di Nord e dell’Est la pena capitale è stata, al contrario, già abolita.

In attesa che la situazione si evolva e mentre qualche accenno di sostegno sembra pervenire dalle autorità svedesi, sono iniziati a marzo 2020 i processi ai mercenari di nazionalità siriana e di altri Paesi extra Ue, quali Kosovo, Russia e altre nazioni dell’Ex unione Sovietica, insieme a numerosi rimpatri verso i medesimi.

Un altro tentativo europeo – relegato alla sola proposta – è il rimpatrio dei bambini nati dentro lo Stato Islamico da unioni miste di cittadini europei con affiliati all’Isis, idea alla quale in seguito si è associata la possibilità di rimpatriare anche le madri naturali, ma mai messa in atto.

Il dilemma è che l’Europa non ha una strategia comunitaria sulla gestione dei foreign fighter di ritorno o da rimpatriare, e ogni Paese membro dovrebbe giudicare i propri cittadini per i crimini commessi, pur avendo codici penali da aggiornare su reati quali crimini di guerra, contro l’umanità e per genocidio, allungando enormemente i tempi di avvio per le procedure di rimpatrio – sempreché ce ne sia davvero la volontà. Inoltre mancano ancora dei progetti di de-radicalizzazione e di reinserimento nella società degli ex-membri Isis e coloro che destano più preoccupazione sono proprio le madri jihadiste e i loro figli.

In questi giorni una delegazione francese guidata dall’ex ambasciatore francese in Siria, Eric Chevalier, è arrivata nella Regione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est ed è stata ricevuta dal co-presidente dell’Ufficio per le Relazioni Estere, Abdulkarim Omar, per discutere proprio dei processi ai miliziani dell’Isis qui detenuti. Oltre a discutere anche di altre tematiche, come le ingiuste sanzioni statunitensi o i posti di frontiera ancora chiusi, alla delegazione francese sono stati affidati dieci minori orfani da consegnare ai Paesi europei di origine dei loro genitori, insieme alle loro madri; nonostante molti Stati membri non siano disposti ad accettare madri e bambini insieme.

Secondo Eric Chevalier – e anche altri politici europei – sarebbe più idoneo giudicare i jihadisti nel territorio della Regione Autonoma Confederale per la maggiore disponibilità dei testimoni e di prove dei crimini.

Tuttavia – nonostante i piccoli passi compiuti – la strada per arrivare a una vera collaborazione tra Confederazione Autonoma e Unione Europea sembra ancora lunga e tortuosa.

In copertina: Immagine tratta da Internet di autore sconosciuto.

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