Ricordi di una Epifania del dopoguerra
di Ettore Vittorini
Quella mattina del 5 gennaio del 1947 mi ero svegliato pensando che il giorno dopo la Befana mi avrebbe portato la calza piena di dolciumi e forse – a parte – quella automobilina che avevo visto in un negozio di giocattoli.
Alla Befana non ci credevo da più di un anno, dopo averne “discusso” con alcuni compagni di “prima elementare” e notato l’imbarazzo dei miei genitori quando avevo chiesto loro dell’esistenza di quella “benefattrice” che arrivava di notte a cavallo di una scopa. Esclusero subito la scopa spiegandomi l’impossibilità che quel mezzo potesse volare e trasportare sacchi colmi di regali. “Era una signora ricca e buona – mi dissero – che incaricava altre signore di portare i regali ai bambini e li lasciavano davanti alle porte di casa”. Non l’avevo bevuta e loro lo sapevano.
Tornando a quella mattina, mia madre mi incaricò di andare a prendere un “pacchetto” da un’amica che abitava nel palazzo vicino al nostro, nel centro di Barletta. Non dovevo attraversare la strada ma seguire il marciapiede, superare la gradinata della piccola chiesa dell’Immacolata ed entrare nel portone successivo. Nel pacchetto c’era un dolce che la signora aveva preparato per noi.
La guerra era finita da un anno e mezzo, i generi alimentari erano ancora razionati e quel poco che si vendeva nei negozi con la tessera annonaria spariva subito, mentre attraverso il contrabbando si poteva trovare ogni ben di Dio ma a prezzi decuplicati. Quella signora era riuscita ad avere dello zucchero con la “borsa nera”, pagandolo 500 lire di allora al chilo – il doppio di quanto guadagnava un bracciante in una giornata – e lo usava per preparare delle torte che poi vendeva a buon mercato.
A quel tempo i dolci si facevano in casa, il panettone era quasi sconosciuto; un prodotto del Nord la cui immagine si poteva notare soltanto su qualche manifesto pubblicitario della stazione ferroviaria.
Sui gradini della chiesa dell’Immacolata, proprio di fronte al grande palazzo del marchese Bonelli – grosso latifondista della zona – sedeva una donna mal vestita con un bimbo in braccio che piangeva chiedendo in dialetto “u pane..u pane”: aveva fame. La donna gli diceva “statte buono che mò arrive u zì prete”. Non chiedeva l’elemosina ma aspettava che il parroco le desse qualcosa da mangiare.
Di fronte a quello spettacolo non so cosa mi prese, ma corsi a casa e tra le lacrime raccontai a mia madre quella scena. Lei prese subito del pane e poi mi disse: “Abbiamo preparato la calza della Befana per te. Che facciamo? La regaliamo a quel bambino? “. Acconsentii un po’ a malincuore e insieme andammo da quella donna.
A quei tempi la miseria era molto diffusa e non si trattava di scarsità di cibo perché tra olio, grano, verdure, frutta, la Puglia ne aveva in abbondanza, nonostante la recente guerra. Si trattava di povertà e desolazione ataviche che soffocavano la popolazione da secoli. A Barletta – che allora aveva 80mila abitanti – esisteva una sola industria, la cementeria, che dava lavoro a poche decine di operai.
Poi c’era la pesca con una flottiglia di pescherecci e sul molo del porto un mercato all’ingrosso dove al tramonto il pescato veniva venduto all’asta. Ricordo ancora il rimbombo delle voci degli addetti che emanavano parole in un dialetto incomprensibile.
I pescatori non si arricchivano affatto perché la vendita del pesce era limitata al territorio: i camion frigoriferi per spedirlo a Nord erano scarsi e il turismo in Puglia sarebbe arrivato molto più tardi. Il resto dell’economia si basava sull’agricoltura e soprattutto a Barletta sull’uva da vino e le olive per l’olio.
I contadini – come in tutto il Sud dell’Italia – vivevano nei centri abitati. In Puglia le case coloniche erano molto rare; c’erano le “masserie”, antiche fattorie fortificate dove vivevano i padroni latifondisti, il fattore e qualche dipendente con le famiglie. Il terreno veniva lavorato dai braccianti – ingaggiati dai “caporali” – che dalle città, ancora prima dell’alba si recavano alla “terra” a piedi, a dorso di mulo o in bicicletta i più fortunati.
A Barletta, come ad Andria, Canosa, Cerignola e tante altre località, vivevano nei “bassi”, tuguri di una sola stanza dove alloggiavano con famiglie numerose e la notte anche con l’asino. Non esistevano servizi igienici e l’acqua la prendevano dalle fontane. Ricordo che quando andavo a scuola passavo da una piazzetta con una fontana davanti alla quale una lunga fila di donne aspettava il turno per riempire di acqua le giare e i secchi. Nell’attesa parlavano, discutevano, litigavano e a volte si picchiavano.
Proseguendo dovevo attraversare una strada sterrata che portava al mare dove molti maschi erano accovacciati per espletare i loro bisogni fisiologici. A casa le donne usavano il “priso”, un recipiente cilindrico che poi svuotavano ogni mattina in un carretto del Comune trainato da un cavallo. Non parlo di Medioevo, ma di 70 anni fa nell’Italia appena diventata Repubblica.
Di fronte a questa miseria che – seppur bambino – mi era impossibile ignorare, mi rivolgevo ai miei genitori per ottenere qualche spiegazione. Mi parlavano delle ingiustizie, dei padroni, ma mi tranquillizzavano descrivendomi un futuro in cui tutta la popolazione sarebbe stata bene; avrebbe avuto una casa; un lavoro sicuro e tante altre belle cose.
Certo il miglioramento della società c’è stato; i tuguri sono scomparsi, se non del tutto; i “Sassi” di Matera – nella vicina Basilicata – dove un tempo abitavano intere famiglie, sono diventati attrazioni turistiche; le masserie si sono trasformate in resort di lusso. Ma lo sfruttamento dei braccianti e i “caporali” esistono tuttora e adesso ci sono anche molti “schiavi” provenienti da altri Paesi. L’unica differenza col passato è che vengono trasportati al lavoro con in pulmini.
Aggiungo una notizia di cronaca: nella sola Milano per i pranzi di questo Natale organizzati dalla Caritas e altre Onlus, si sono presentate 20mila persone che formavano code lunghe centinaia di metri. E questo nella ricca metropoli dell’efficienza, del lavoro e dei grattacieli. Non mi sembra che questo racconto abbia un bel lieto fine.
Sabato, 31 dicembre 2022 – n°53/2022
In copertina: un’abitazione nel Sud Italia negli anni del dopoguerra – Foto: UNRRA CASAS