L’Odissea dei migranti vissuta da Laura Sestini
di Simona Maria Frigerio
Avevamo lasciato Laura Sestini, fotoreporter e giornalista, pronta a tornare in Toscana e alla sua vita quotidiana, al lavoro e alle sue due gatte, quando l’ultimo tampone arriva come una doccia fredda: dà, infatti, esito positivo al Covid-19. Il viaggio ricomincia, quindi, ma seguendo un itinerario imprevisto: dalla Rhapsody, la nave quarantena dove ha prestato servizio per due settimane come volontaria della Croce Rossa Italiana, al Centro T. Fenoglio di Settimo Torinese.
La confusione, generata dalla rivolta dei migranti a bordo, ha causato una positivizzazione di volontari e operatori. Quanti tra di voi hanno dovuto essere messi in quarantena?
L.S.: «La confusione a bordo ha generato soprattutto positivi tra gli ospiti, circa una trentina. Tra gli operatori uno, solamente io, credo».
Lei è stata portata dalla Cri, in ambulanza e di notte, a Settimo Torinese – al Centro T. Fenoglio, gestito dalla Croce Rossa Italiana e dalla Fondazione Comunità Solidale. Aveva sintomi?
L.S.: «No, nessun sintomo. Né io, né l’altra persona che ha viaggiato con me. Mai, durante l’intero periodo di quarantena. Eravamo ferme al porto di Bari, con la Rhapsody, quando siamo risultate positive al test: io e questa seconda persona – appena giunta per iniziare la propria missione, che si è ritrovata al contrario in quarantena. Devo dire che avevo chiesto di poter passare il periodo a bordo – dato che era una nave quarantena – ma, evidentemente, per noi italiani di razza ariana non è stato giudicato un luogo adatto. Nel giro di poche ore, quindi, ci hanno indicato come destinazione Roma, sostituita in seguito da Settimo Torinese. Quando me l’hanno comunicato non potevo credere alle mie orecchie: mi stavano mandando a 1.018 km di distanza! Tredici ore di viaggio, ‘tuttaunatirata’, con un mezzo CRI a biocontenimento, su sedili duri come la pietra, senza possibilità di stendere almeno le gambe. Siamo partite a mezzanotte da Bari. Prima tappa Roma, sede CRI, dove usare la toilette. Ferme per un totale di venti minuti. Secondo stop, circa tre ore dopo, per caffè e cornetto, gentilmente offerti dalla Croce Rossa Italiana e rigorosamente consumati dentro l’involucro di plastica trasparente che rivestiva il mezzo. Terza tappa, per esigenze fisiologiche evidentemente non previste dal protocollo, in un’area di sosta in autostrada, provvista fortunatamente di alcuni cespugli dove ci siamo potute riparare da occhi indiscreti. Siamo arrivate al centro di Settimo Torinese intorno alle 13.30. In pratica, è stata una tortura. Durante il viaggio ho compreso, improvvisamente, cosa vuol dire essere prigionieri del sistema e perfino le tentate fughe dei migranti. Soprattutto, mi sono sentita un’appestata».
In Piemonte è stata ospitata in una baracca dello Sprar, in parole povere del centro di accoglienza per migranti. Ci descrive il luogo? La sua baracca aveva acqua corrente calda, doccia, televisione, riscaldamento, eccetera?
L.S.: «Ho condiviso un container di lamiera con la collega, volontaria di Croce Rossa, positiva al Covid. All’interno del container si sentivano tutti i movimenti del vicino italiano (telefonate, ritirate in toilette, i brani che ascoltava al computer, tutto). Con la collega avevamo in comune l’entrata, subito trasformata in ambiente per consumare i pasti, grazie ai due comodini che abbiamo unito, dove ognuna appoggiava i suoi piatti, così da condividere qualcosa della nostra lunga, inutile giornata. Non avevamo tavoli di nessun tipo, quindi ci siamo arrangiate. Singolarmente avevamo a disposizione una stanza di due metri per tre, con letto, armadio e una sedia (quindi, di spazio vitale per muoversi solo un paio di metri quadrati) e il bagno con la doccia. C’erano acqua calda e riscaldamento. Mi hanno dato un phon solo sei giorni (ma tre dalla richiesta) dopo l’arrivo. Niente tivù. Però abbiamo chiesto dei libri, che ci hanno portato in breve tempo».
Ci racconta la sua giornata? Com’era il cibo? Aveva possibilità di movimento? È stata mai visitata?
L.S.: «In generale le giornate erano noiose: cosa si può fare in un vano di sei metri quadrati, senza poter uscire, senza una tivù, senza la visita di un amico? Mi rimaneva solo il cellulare per comunicare e avere informazioni dall’esterno. Oppure dormivo per non pensare. Il cibo era abbondante, addirittura troppo, tanto è vero che la metà, sia la mia compagna di container sia io, la buttavamo nel bidone della spazzatura (come ci era stato indicato). La qualità, inoltre, era davvero scadente. Certo non mi aspettavo, né pretendevo, di essere in un hotel a quattro stelle, ma il menù era composto da verdura surgelata bollita – a tal punto che della verdura rimaneva solo il colore – e da pasta stracotta, condita nel 99% dei casi con salsa di pomodoro. Dopo il primo pasto, ho chiesto solo cibo vegetariano, e forse è andata anche peggio. La mia alimentazione (non tenendo minimamente in conto la vita sedentaria e soffocante) si componeva spesso di fagioli e ceci. A metà quarantena credo sia cambiato il cuoco, perché il cibo si è leggermente diversificato ed è apparso anche qualche pezzetto di formaggio – sebbene insapore. Nell’intero periodo di quarantena il medico si è visto un paio di volte: mi ha misurato la febbre, come faceva altresì chi consegnava i pasti. Due volte, su mia richiesta, mi sono stati misurati la pressione e il livello di ossigenazione del sangue, oltre a essere sottoposta ai test per il Covid che erano di sua competenza».
Si è sentita una migrante a Settimo Torinese? Cosa le è rimasto, a livello umano, di una simile esperienza?
L.S.: «Non mi sono sentita una migrante perché, rispetto a loro, che non protestano, qualche volta ho espresso la mia insoddisfazione, almeno sul cibo. Ma capivo che il problema di per sé non era il cuoco, che certamente avrebbe potuto fare meglio, bensì l’intero il sistema. Una completa mancanza di cura verso l’essere umano – che ho ritrovato anche altrove – il quale si trasforma in un numero e come individuo/persona scompare. Il pasto più insopportabile era la prima colazione che, latte a parte, era composto da un caffè che aveva il sapore del catrame mentre il tè, liofilizzato, era talmente zuccherato da sembrare miele. Impossibile bere una bevanda calda decente, sempreché arrivasse calda. Solitudine, abbandono a se stessi, grigiore (anche meteorologico), intere giornate vuote fitte di ore senza scopo, tantoché la collega ha deciso di comprare online il Back Gammon, arrivato al Centro via corriere, insegnandomi a giocarci per passare qualche mezz’ora in maniera differente. Nessun contatto umano tranne con la compagna (o il compagno) di stanza che, non è detto, sia persona con la quale si va d’accordo. E io sono stata fortunata – sperando che anche lei pensi la stessa cosa di me! In ogni caso, nel Centro Cri di Settimo Torinese non sono ospitati solo migranti dello Sprar positivi al Covid, o migranti in quarantena obbligatoria perché appena arrivati in Italia dalla rotta balcanica, ma anche migranti che vi risiedono e altre persone che, immagino, abbiano problemi di abitazione o similari. Una sera, dopo le 22, qualcuno ha bussato prepotentemente alla nostra porta. D’un tratto ci siamo trovate di fronte a un uomo sui 65 anni che, irato e in maniera arrogante, ci ha ordinato di uscire dalla ‘sua’ stanza. Stupefatte, gli abbiamo spiegato che eravamo positive al Covid-19 e che quello era il luogo che ci avevano assegnato per la quarantena. Ma alle nostre parole lui rispondeva con ulteriori minacce. Ci abbiamo messo un po’ a fargli capire che non era nostra la responsabilità se eravamo lì. A un certo punto credo ci abbia scambiate per le donne delle pulizie, mentre continuava a ripetere che ce ne dovevamo andare. Una scena surreale».
Dopo quanti giorni ha potuto lasciare Settimo Torinese? Come si è sentita a respirare nuovamente aria di libertà e a tornare in una casa vera?
L.S.: «Ho lasciato il Centro CRI di Settimo Torinese dopo 19 giorni, di cui gli ultimi otto in completa solitudine, poiché la compagna di quarantena era tornata alla vita di tutti i giorni (per ironizzare, visti i nuovi DPCM). Tornare a casa ha significato, soprattutto, cominciare a riprendere contatto con il mio corpo – obbligato all’immobilità nei pochi metri quadrati che avevo a disposizione – grazie a un po’ di attività fisica. La libertà si autodefinisce da sé e ha molte sfaccettature personali, oltre a essere un elemento indispensabile per la salute psicologica degli individui. La mia abitazione non è molto tecnologica, e ho scelto di trasferirmi dalla città alla campagna che si affaccia sul mare, proprio per avere una migliore qualità di vita. Quindi, posso dire di essere tornata nel paradiso che mi ero scelta già alcuni anni fa. Mi ritengo un’abitante della Terra molto fortunata, rispetto al 99% delle persone che ho incontrato in quest’ultimo mese».
(Per la prima parte dell’intervista: https://www.theblackcoffee.eu/dalla-nave-quarantena-di-brahim-aissaoui-alla-quarantena-in-uno-sprar/ )
In copertina: il Centro Sprar di Settimo Torinese Foto ©Laura Sestini (tutti i diritti riservati)