Gli interessi statunitensi nella guerra siriana
di Laura Sestini
Numerose agenzie hanno prontamente lanciato la notizia di movimenti militari statunitensi in Siria di Nord-Est, a soli due giorni dal giuramento ufficiale di Joe Biden sulla Costituzione americana, per il suo mandato di Presidente degli Stati Uniti.
L’agenzia di informazione di Stato, la siriana SANA, riferisce di ‘invasione’ Usa non lontano dal confine tra Siria, Iraq e Turchia nell’area di Al-Hasakah.
Difatti il convoglio militare era in viaggio verso la regione nord- est siriana proveniente da Erbil – capitale del Kurdistan iracheno – dove è situata una delle basi della coalizione internazionale anti-Isis a guida statunitense.
La colonna era composta da almeno 40 veicoli blindati, scortata da bombardieri, elicotteri d’attacco e 200 soldati, e si è posizionata nei vicini campi petroliferi della regione a controllo delle SDF (Syrian Democratic Force), le forze militari curdo-arabe. Sempre secondo l’agenzia di stampa di Damasco sembra che: “Il movimento militare statunitense abbia varcato il confine ‘fuorilegge’ di al-Walid per andare a rafforzare le proprie basi ‘illegali’ nell’area tra al-Hasakah e Deir-Ezzor verso i giacimenti petroliferi di Koniko”.
Peraltro, i movimenti militari degli statunitensi non sono graditi neanche al Governo autonomo curdo-iracheno – il quale contesta puntualmente i mancati comunicati di manovra alle autorità del KRG (ossia il Kurdistan Regional Government).
La presenza dei militari statunitensi in Siria risale ufficialmente al 2014 a seguito dell’Operazione Inherent Resolve (CJTF–OIR) per contrastare l’ascesa del Califfato Islamico: una task force che comprendeva oltre 30 Paesi. Precedentemente alla Coalizione anti-Isis, gli Stati Uniti avevano dato supporto monetario e alimentare ai ribelli anti-governativi, ovvero all’Esercito Libero Siriano (FSA), costituito da ex-ufficiali di Baššār al-Assad, entro il quale, in seguito, confluirono innumerevoli sigle e milizie fondamentaliste. Queste ultime poi si mischiarono in gran numero anche al Califfato di al-Baghdadi. Prima del 2014, gli Usa avevano anche fornito addestramento, risorse economiche e intelligence per formare i comandi dell’FSA.
Nel 2016, quando il Califfato Islamico era al picco massimo della sua espansione in Iraq e Siria, con le roccaforti a Mosul e Raqqa, gli Stati Uniti inclusero nell’operazione militare Inherent Resolve le SDF (le Forze Democratiche Siriane), a direzione YPG – i reparti militari maschili curdi – a cui fornirono armamenti di terra per contrastare l’invasione del Califfato. Questa manovra statunitense suscitò, però, il malumore del Presidente turco Erdoğan – il quale considera i curdi dei terroristi alleati del PKK, ed è il responsabile di numerosi tentativi belligeranti per invaderne il territorio in Siria di Nord-Est.
Per la liberazione finale di Raqqa, headquarter del Califfato, a fine 2016, la direzione delle operazioni fu affidata alle SDF, la cui comandante in carica fu addirittura una donna – Rojda Fehlat – una valente combattente curda YPJ (i reparti militari femminili curdi).
Con un salto cronologico di tre anni – dopo la liberazione di Raqqa avvenuta a luglio 2017 e l’annuncio ufficiale delle SDF, il 23 marzo 2019, della sconfitta militare dell’Isis, con la battaglia di Al-Baghuz Fawqani – il 9 ottobre, la Turchia, a oggi riconosciuta globalmente come nazione che assolda i rimanenti miliziani fondamentalisti del disgregato Califfato e del rimpastato Esercito Siriano Libero (tramutatosi nel frattempo in Esercito di Liberazione Nazionale), invade repentinamente la Siria di Nord-Est, l’area della Confederazione Democratica autonoma creata dai curdi.
Nuovamente, e reiteratamente, i civili sono coloro che subiscono di più, a causa dei bombardamenti e delle milizie filo-turco-jihadiste che entrano prepotentemente nelle abitazioni, uccidendo, espropriando, stuprando e rapendo donne.
Nella questione dell’attacco turco – inammissibile da ogni punto di vista e, specialmente, per la violazione dei diritti umani – si inseriscono, da subito, le mediazioni degli Stati Uniti, da tempo nelle mani di Trump, e della Russia, forza militare sul campo accanto alla Turchia e pro-al-Assad.
Dopo l’invasione in territorio siriano, per l’ennesima volta la Turchia chiede una safe-zone lungo il confine turco-siriano, andando a presentare la richiesta perfino alle Nazioni Unite – proposta sempre rifiutata da al-Assad perché ritenuta inaccettabile. Infine, accade ciò che è visto da molti come un regalo di Trump all’alleato Nato turco – congiuntamente all’approvazione della Russia, a seguito degli accordi di Adana di cui è garante verso la Siria dal 1998 – ossia, si istituisce una ‘zona di sicurezza’. Le motivazioni della Turchia per detta area di ‘decompressione’ sono traboccanti di demagogia (sono sotto i nostri occhi gli effetti a lungo termine di scelte similari, in merito ai conflitti in Libia e in Azerbaijan) in quanto il fine è destabilizzare l’area a maggioranza curda e appropriarsi di nuovi territori in una nazione – la Siria – dove anche altri hanno interessi personali a far saltare la poltrona del Presidente siriano.
La safe-zone, istituita il 23 ottobre, è profonda 32 chilometri verso sud e 440 chilometri da est a ovest, arrivando quasi fino al confine tra Siria, Turchia e Iraq, entrando in una fetta di territorio della Confederazione Autonoma così da avere il controllo della strategica M4, la strada più importante della regione, della quale la Turchia controlla già 120 chilometri. Secondo quanto affermato da Erdoğan, la striscia di sicurezza era già stata accordata con Trump a gennaio 2019.
Ottobre 2019 è un mese particolarmente pregno di grandi eventi per la Siria di Nord-Est, tantoché gli Stati Uniti – il 27 del mese – annunciano di aver individuato, in un’operazione segreta, il covo di Abu Bakr al-Baghdadi, capo carismatico e fondatore del Califfato Islamico, a Barisha, un piccolo centro nei pressi di Idlib. La cronaca racconta che il terrorista islamista si è fatto esplodere con la famiglia all’arrivo delle forze militari statunitensi, ma la narrazione sulla morte di al-Baghdadi rimane tuttora molto controversa e poco credibile, con numerosi risvolti poco chiari.
A seguito della liberazione di Raqqa, nel 2018, Trump annuncia il parziale ma costante ritiro del contingente militare – e parallelamente inizia a concretizzarsi il lento mutamento di relazioni con le SDF – mentre si preparano nuove basi nella regione ricca di giacimenti petroliferi di Deir Ezzor e più a sud nel distretto di Douma, al confine con l’Iraq e la Giordania. Trump annuncia che le truppe che rimarranno – senza calendario e numeri effettivi – costituiranno comparti di peacekeeping, con al massimo 1.000 unità totali, mentre il restante contingente sarà riallocato in KRG (il Governo Regionale del Kurdistan) e altre basi in Medioriente e nei Paesi del Golfo. Il movimento di uomini e mezzi statunitensi entro la Siria del Nord non si è mai fermato da allora, con continuità di andirivieni. Nel 2019 Trump aveva firmato il Caesar Syria Civilian Protection Act, un provvedimento sanzionatorio per la presidenza di al-Assad e dei suoi associati, i quali – secondo l’amministrazione statunitense – sono colpevoli di crimini di guerra verso i propri cittadini https://www.state.gov/syria-sanctions/.
Lo stesso atto include gli aiuti umanitari statunitensi alla popolazione civile siriana – al quale il neo-presidente Biden ha nuovamente rinnovato l’appoggio – valido per cinque anni. Per il ritiro delle sanzioni sono invece previste alcune clausole:
- Fine dei bombardamenti aerei siriani e russi sui civili.
- Le forze iraniane, siriane e russe, così come le entità a esse collegate, non limitino più l’accesso umanitario alle aree assediate e consentano ai civili di andarsene liberamente.
- Tutti i prigionieri politici vengano rilasciati e le organizzazioni internazionali competenti per i diritti umani abbiano pieno accesso alle prigioni e alle strutture di detenzione della Siria.
- Cessino i bombardamenti di strutture mediche, scuole, aree residenziali e luoghi di ritrovo della comunità, compresi i mercati, da parte di forze siriane, russe, iraniane, nonché di entità a esse collegate.
- Venga data la possibilità di un ritorno sicuro, volontario e dignitoso ai siriani sfollati a causa del conflitto.
- Sia riconosciuta la responsabilità per gli autori di crimini di guerra in Siria e giustizia per le vittime di crimini di guerra commessi dal regime di al-Assad, anche attraverso la partecipazione a un processo credibile e indipendente per la verità e la riconciliazione.
Considerato il forte coinvolgimento della Turchia nel conflitto siriano, pare davvero astruso il fatto che non venga mai citata nel Caesar Act. Evidentemente gli alleati Nato sono istintivamente esclusi, nonostante i numerosi crimini commessi in terra siriana, e anzi beneficiari di regali di Mamma America, quale la safe-zone. Il Caesar Act, attraverso gli aiuti umanitari, rimane anche un organo di controllo su differenti aree civili siriane.
A luglio 2020 l’Amministrazione Autonoma della Siria di Nord-Est firma un accordo con la Delta Crescent Energy LLC, una compagnia petrolifera statunitense, per sviluppare le attività di estrazione delle risorse naturali di cui l’area è particolarmente ricca. L’accordo è condannato dall’amministrazione siriana, che considera illegale lo sfruttamento delle risorse entro la sovranità dei suoi confini territoriali, classificandolo un crimine di guerra.
Con l’arrivo della presidenza Biden, in molti credono che tutto si appianerà e alcuni conflitti si declassificheranno. In realtà, in Siria gli interessi economici e geopolitici che hanno molti Paesi sono forti, e i conflitti armati appaiono solo la punta dell’iceberg di tali interessi. La posizione strategica che si ritrova geograficamente la Siria interessa anche la questione delle due correnti dell’Islam, sunnita e sciita, dato che il Paese funge da pungiball in Medioriente tra quelli a maggioranza sunnita – essendo al-Assad di corrente sciita (come l’Iran) alawita.
Di fatto, l’asse geopolitico a sfondo teocratico è costituito da Usa, Israele e Arabia Saudita, quest’ultima a maggioranza sunnita (corrente ultra-conservatrice wahhabita), acerrima nemica della Siria ma, soprattutto, del suo forte sostenitore, ossia l’Iran. Al gruppo pro-regime siriano si unisce la Russia, già alleata del padre di Baššār al-Assad. A ben vedere, è piuttosto evidente cosa ci sia dietro il caos di facciata all’interno dei confini siriani.
In attesa che si sviluppino i nuovi movimenti militari in Siria con l’avvento di Biden, e se ne capiscano gli obiettivi, continuano sfacciatamente i lanci di missili d’Israele verso la Siria e, per meglio colpire i bersagli iraniani in loco, vola illegalmente anche nello spazio aereo libanese. L’ultimo bombardamento diretto sull’area di Hama, in Siria di Nord-Ovest, risale al 21 gennaio. Non sappiamo se abbia centrato l’obiettivo predestinato, ma senz’altro ha ucciso dei civili innocenti – come riporta la stessa agenzia siriana Sana.
Aggiornamento:
Il 27 gennaio la nuova amministrazione di Joe Biden ha dichiarato che proseguirà la cooperazione con le SDF a guida curda nella lotta contro lo Stato Islamico in Siria di Nord-Est.
“Le Syrian Democratic Force(SDF) hanno fatto la parte del leone nella lotta congiunta sul campo contro ISIS, e rimane un partner militare capace e impegnato che non può continuare a sradicare autonomamente i terroristi islamisti – e nel contempo controllare le decine di migliaia di detenuti ISIS e le relative famiglie in loro custodia – senza il supporto statunitense. Gli Stati Uniti rimangono in Siria di Nord-Est in stretta coordinazione con i partner locali, incluse le SDF, la comunità umanitaria e i gruppi della società civile. Continueremo il nostro supporto delle necessità umanitarie, volte creare una forma di stabilità e sicurezza necessaria per un miglior futuro per la popolazione siriana.”
Il portavoce del Dipartimento di Stato statunitense aggiunge inoltre che – in prevenzione di lacune di sicurezza – gli Usa supporteranno anche l’Iraq nella lotta contro i miliziani ISIS che, quest’ultimi, rimangono concentrati sul territorio tra Erbil e Baghdad. Fonte: Rudaw News
Sabato, 30 gennaio 2021 – n° 1/2021
In copertina: la mappa geografica delle aree interessate in Siria di Nord-Est.