Quando la Rai censurava la parola ‘amante’
di Ettore Vittorini
Se le televisioni, durante il primo lockdown e per il secondo di questi giorni, avessero provveduto a migliorare i loro rispettivi programmi, avrebbero offerto al pubblico chiuso in casa, occasioni migliori per distendere davanti allo schermo gli animi e renderli più partecipi alle trasmissioni. Invece niente è cambiato rispetto a prima della pandemia. La Rai e le Tv private, alcune delle quali si fanno pagare profumatamente, diffondono normalmente programmi scadenti, con prodotti vecchi, di cattivo gusto, interrotti peraltro da tantissima pubblicità ammantata di falsi sorrisi e di un ottimismo fuori luogo e irreale.
Prendendo come primo esempio i film, potrebbero venire scelte accuratamente, attraverso le ricche cineteche, ottime pellicole adatte a ogni tipo di pubblico. Invece vengono propinati temi di fantascienza ammantati di terrore e disastri di ogni tipo, cataclismi inimmaginabili, folli battaglie tra superuomini addobbati e armati in modo assurdo, città distrutte da piogge di meteoriti che mettono a repentaglio tutta l’umanità. E così via.
Per quanto riguarda i film prodotti dalle società televisive, le cosiddette fiction, la scelta è molto vasta tra i gialli e i polizieschi. I migliori sono quelli inglesi della BBC, ma ormai il pubblico li conosce a memoria perché sono gli stessi di qualche anno fa e ripetuti in continuazione di settimana in settimana: dall’ispettore Barnaby a Poirot, da miss Marple all’ispettore Morse. Per non parlare dei 264 episodi prodotti in USA tra il 1984 e il 1996 della Signora in giallo interpretata dalla bravissima Angela Lansbury, ancora trasmessi in continuazione da Mediaset.
Se poi passiamo ad altri temi, lo spettacolo diventa ancora più desolante: sono emblematici i dibattiti televisivi made in Italy, divenuti così assurdi per gli scambi di insulti, di fandonie, da somigliare alle comiche di una volta. Poi per ‘aiutare’ la distensione del povero telespettatore, vengono trasmessi film di mezzo secolo fa o documentari sulla natura, sugli animali e sull’ambiente, ricavati dagli scaffali polverosi delle cineteche.
Se alla fine affrontiamo il tema del varietà, la rassegna del cattivo gusto diventa la vera protagonista. Tra Rai e concorrenti sono poche le cose che si salvano e il pubblico che dovrebbe decidere si rassegna al peggio. Si tratta di quella massa che fa audience, incapace di scegliere e di separare il ‘buono’ dal ‘cattivo’. Eppure quando gli venivano offerti buoni prodotti come Montalbano, allora l’audience raggiungeva i vertici più alti. E questo vale anche per argomenti ‘politici’ come Report o Che tempo che fa di Fazio. Ma sembra difficile per i dirigenti delle televisioni impegnarsi a valorizzare le loro produzioni, che dovrebbero essere un mezzo per abituare il pubblico alla buona qualità. Ma ne sono capaci?
Si fanno spesso paragoni tra la Tv di oggi e di ieri, quella dei primi tempi, quando in Italia esisteva un solo canale. Molti affermano con nostalgia che quella di una volta era migliore. Difficile fare un paragone perché si tratterebbe di mettere a confronto due mondi completamente diversi. Ma è vero che la Rai a partire dalla nascita, nel gennaio del 1954, e negli immediati anni successivi era molto intenta nel compito di educare il pubblico verso una cultura basilare.
Si trattava di un’educazione guidata dall’alto, da un potere democristiano-clericale che controllava totalmente i palinsesti. L’obiettivo era quello di introdurre la stessa strategia politica della maggioranza della Dc: stringere maggiormente il legame con la Chiesa; emarginare la sinistra socialcomunista; combattere la cultura laicista; imporre il rigore moralistico.
In una serata d’inverno del 1955, la Rai mandò in onda sull’unico canale di allora, un film americano in bianco e nero intitolato La moglie del bandito. Era un banale western con attori di secondo piano che ebbe risonanza nelle rubriche televisive dei giornali non tanto per i contenuti quanto per il titolo che la Rai aveva imposto in sostituzione di quello originale, che era L’amante del bandito. La parola amante era stata censurata in nome delle norme di autodisciplina che incombevano su tutti i programmi. Una di esse diceva: “Le relazioni sessuali illegali devono essere sempre configurate anormali e non debbono suscitare incitamento all’imitazione“. Era un piccolo esempio del clima censorio che esisteva nella tv di allora. In quell’epoca la DC era al potere e il presidente del Consiglio era Mario Scelba, Ministro degli Interni nei precedenti governi, noto per il suo quasi maniaco anticomunismo e le durissime e sanguinose repressioni contro le manifestazioni sindacali.
Dall’inizio del ’55 il partito di maggioranza aveva cambiato tutti i vertici della Rai: l’amministratore delegato Sabino Sarnesi, artefice della ricostruzione dell’emittente di Stato e della nascita della Tv, venne trasferito a dirigere la compagnia di navigazione Italia. Sarnesi aveva gestito l’Azienda radiotelevisiva come un’industria. Si preoccupava del profitto e di fornire ai consumatori programmi ben fatti e un’informazione formalmente obiettiva. Per questo motivo non accettava le intrusioni dei politici e le raccomandazioni, creando così divergenze insanabili col mondo cattolico che decise di andare all’attacco dopo due ‘incidenti’ politici. Il primo si verificò quando il deputato del Pci Antonio Giolitti, intervenuto al Convegno dei cinque (una rubrica settimanale), mise in imbarazzo molto garbatamente gli interlocutori democristiani. Da notare che allora gli interventi dei politici alla Tv, seppur raramente aperti alla sinistra, si svolgevano, contrariamente a oggi, nel rispetto dei tempi e della massima educazione. Il secondo episodio si verificò quando nel corso di una inchiesta si parlò favorevolmente dell’edilizia popolare sovietica.
Il posto di Sarnesi fu affidato a Filiberto Guala, ex presidente dell’INA Casa e fervente cattolico. Di lui si diceva che avesse fatto voto di castità e che portasse il cilicio. Direttore generale divenne Giovanni Battista Vicentini, proveniente dall’Azione Cattolica e molto amico di Luigi Gedda, leader dell’integralismo cattolico italiano.
Il nuovo ‘padrone’ era Guala, che entrò in Rai come un missionario in un territorio di cannibali. I risultati arrivarono subito: i giornali radio assunsero i toni di un bollettino ufficiale che ignorava tutti gli avvenimenti che davano fastidio al governo; il telegiornale mostrava inaugurazioni, vescovi e cardinali. Il settore della musica leggera, affidato all’ex segretario del sindacato cattolico degli avvocati, Francesco Di Piazza, fu invaso da canzonette banali dedicate alle mamme e all’amore casto.
Il varietà che nel ’54 offriva una volta alla settimana ballerine con abiti ‘discinti’, rimase, ma le avvenenti signorine furono costrette a coprire le gambe con ridicoli mutandoni. Qualche anno dopo la Rai, non potendo censurare le gambe delle gemelle Kessler, le obbligò a indossare calze nere. Le annunciatrici come Nicoletta Orsomando, Marisa Borroni, Fulvia Colombo, pur scelte per la loro bellezza, dovevano apparire sul teleschermo riservate e per niente sexy. Quindi, avevano l’obbligo di non truccarsi e mantenere sempre un sorriso discreto.
Il varietà aveva anche i suoi lati positivi come la partecipazione di comici eccezionali: Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello con le loro battute satiriche e le imitazioni facevano ridere tutta l’Italia. Da ricordare la satira all’inchiesta televisiva ‘la donna che lavora’, nella quale Tognazzi nei panni di una ‘lavoratrice’ rispondeva a Vianello, l’intervistatore: “Io faccio la mondina e lavoro tutta la settimina”.
Di fronte alle parolacce e al pessimo gusto che oggi volano impuniti alla Tv, le ingenue gag di quei comici di allora provocavano un autentico divertimento. Ma la loro presenza alla Rai non durò molto. Finì dopo che imitarono una scena realmente accaduta al Teatro alla Scala, quando il Presidente della Repubblica Gronchi, nel palco d’onore con l’omologo francese De Gaulle, cadde dalla sedia. I due comici furono cacciati immediatamente.
Guala ebbe il merito di promuovere corsi per creare nuovi giornalisti, funzionari e programmisti tra i quali uscirono manager come Angelo Guglielmi, Fabiano Fabiani e Emanuele Milano; collaboratori come Umberto Eco, Furio Colombo, tutti non collegati al mondo clericale. In queste scelte incise il consigliere dell’amministratore delegato, Pier Emilio Gennarini, un intellettuale molto preparato proveniente dal movimento dei cosiddetti ‘cattocomunisti’.
Questo scenario era sconosciuto alla maggior parte dei telespettatori che seguivano la Tv a milioni, nonostante gli abbonati nel ’55 fossero appena 178 mila, raddoppiati l’anno dopo grazie al fenomeno di Lascia o raddoppia. Mike Bongiorno, ideatore e conduttore del programma, in un’intervista confessò che nei primi tempi della trasmissione, veniva pagato con 50 mila lire alla settimana. Era sempre poco rispetto ai milionari emolumenti di oggi. La rilevante differenza tra abbonati e spettatori venne spiegata in un’inchiesta pubblicata nel ’55 dall’Espresso. L’autore, Mauro Calamandrei scrisse, tra l’altro, che a Scarperia, un paese di 5000 abitanti nei pressi di Firenze, esistevano soltanto 22 televisori ripartiti tra famiglie benestanti e locali pubblici. Ma precisava che quasi tutti guardavano la Tv come avveniva nel resto dell’Italia. “Sta nascendo un nuovo costume sociale e pochi se ne accorgono”, spiegò Calamandrei.
Un target elevatissimo fu raggiunto anche col teatro e la commedia realizzati con molta accuratezza. Venivano prodotte opere di grandi drammaturghi e commediografi: da Goldoni a Pirandello; da Niccodemi a De Filippo; da Cechov a Tolstoj, da Shakespeare a Dickens. Gli italiani si chiudevano in casa o riempivano i bar per vederle. David Copperfield ebbe 15.400.000 spettatori; Il Mulino del Po, di Bacchelli, 14.600.000.
La pubblicità arrivò nel gennaio del ’57, ma in modo discreto, con Carosello, un programma di 10 minuti, in onda dopo il telegiornale, con quattro spot, alcuni con cartoni animati, altri con la partecipazione di famosi personaggi dello spettacolo.
La direzione di Guala si concluse nel giugno del ’56 quando l’AD fu costretto a dimettersi ed entrò, pochi mesi dopo, nell’ordine dei Frati Trappisti.
L’Italia stava cambiando e i vertici della DC avevano compreso che era finito il tempo del clericalismo a oltranza. Nel nuovo quadro politico Scelba scompariva mentre Segni diventava Primo Ministro e Gronchi Presidente della Repubblica.
L’Italia si avviava verso il boom economico. I vertici della Rai cambiarono: amministratore delegato divenne Marcello Rodinò, ingegnere elettronico ben lontano dai sistemi clericali di prima. Lo affiancava il direttore generale Rodolfo Arata, un giornalista cattolico apprezzato per le sue doti di equilibrio. Dette molta attenzione ai cambiamenti politici ed economici in un’Italia che cresceva. Molte trasmissioni cambiarono in meglio rasentando la spregiudicatezza, anche se la censura rimase.
La presenza settimanale, nel ’62, di Dario Fo e Franca Rame a Canzonissima ebbe grande successo, ma non durò a lungo perché la coppia venne cacciata per la satira rivolta agli industriali, ai palazzinari, alla situazione precaria dei lavoratori. La DC, restia a intervenire contro di loro, lo fece solo per compiacere le richieste del leader liberale Malagodi e del neofascista Movimento Sociale.
Da poco direttore generale era diventato Ettore Bernabei, un giornalista cattolico e uomo di fiducia di Fanfani. Uomo di grande abilità, meticoloso, con un carattere dittatoriale e collerico, diventò presto il vero detentore del potere della Rai. Trasformò l’azienda, che aveva raggiunto i tre milioni di abbonati, in una grande fabbrica di consenso, potenziando l’offerta di programmi con risvolti spesso progressisti, accontentando i socialisti e riducendo le critiche dei comunisti. Addirittura nominò Enzo Biagi direttore del Tg1 assicurandogli che lo avrebbe appoggiato nel bloccare tutte le intromissioni politiche. Ma pochi mesi dopo Biagi si dimise non riuscendo a respingere “la tendenza dominante di considerare il telegiornale un prolungamento degli uffici stampa dei vari ministeri”. Biagi se ne andò spontaneamente perché non accettava compromessi. Contrariamente a quanto è accaduto anni dopo con Berlusconi, il Presidente del Consiglio di allora si era ben guardato dall’intervenire contro il giornalista. Questione di stile?
Il resto è storia recente. Nel ’75 venne approvata la legge sulla riforma della Rai che, tra l’altro, divideva i tre canali della Tv tra Dc, Psi e Pci. Negli anni Ottanta la liberalizzazione delle Tv private portò alla nascita delle grandi emittenti e al monopolio di Berlusconi.
Oggi la ridicola censura di Guala fa parte di un ricordo remoto. Uno dei pregi della televisione di allora fu quello di unificare la lingua italiana e di diffondere un po’ di cultura anche tra i ceti popolari. Pertanto un sentimento di nostalgia appare realmente accettabile.
Non sono cambiati invece i telegiornali con i loro giornalisti sempre ubbidienti al potere.
In copertina: La fruizione dei programmi televisivi del passato