“L’elefante” Trump esce di scena
di Ettore Vittorini
Donald Trump, il presidente repubblicano sconfitto alle elezioni americane dal democratico Joe Biden, ha finalmente deciso di mollare e di lasciare la Casa Bianca. Ma lo ha fatto a modo suo: ha trasferito i poteri al vincitore con una lettera firmata dalla sua segretaria, ribadendo che le elezioni si sono svolte in modo truffaldino.
Lo smentiscono i dati ufficiali e i riconteggi da lui pretesi e attuati in diversi Stati, che hanno confermato la vittoria dell’avversario. Biden ha ottenuto il voto di 306 delegati su un quorum di 270 contro i 236 del repubblicano. Si tratta di un vantaggio netto che però il testardo presidente uscente non vuole accettare nonostante l’evidenza.
Non è servita la dichiarazione del capo della sicurezza cibernetica, Christopher Krebs, il quale ha affermato che “le elezioni del 3 novembre sono state le più sicure della recente storia americana”. E Trump come ha risposto? Lo ha licenziato in tronco, sebbene appartenesse al suo staff, come ha fatto con altri suoi ex fedeli che gli hanno voltato le spalle di fronte ai risultati ineccepibili delle elezioni.
Ormai Donald Trump, che continua a lanciare Tweet uno più falso dell’altro, è isolato: gli avvocati della Casa Bianca si sono defilati; perfino il vicepresidente uscente Mike Pence e quasi tutti i parlamentari repubblicani si sono ben guardati dal mettere in discussione i risultati elettorali. Si avvia dunque verso la conclusione una delle più gravi e pericolose esperienze presidenziali che gli statunitensi abbiano avuto dal dopoguerra in poi.
Secondo alcuni sondaggi compiuti dai principali giornali, risulta che Trump sia stato il peggiore, seguito da George W. Bush (da non confondere col padre) e da Richard Nixon. Il primo, appoggiato apertamente dalla lobby dei petrolieri, ha voluto e organizzato la guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan che ha portato il caos politico e militare in tutto il mondo arabo. Eppure è stato eletto per due volte. Il secondo fu costretto a dimettersi nell’agosto del ’74 in seguito allo scandalo Watergate. Ma almeno in politica estera ebbe il merito di porre fine alla guerra del Vietnam e di allacciare rapporti diplomatici con la Cina comunista dopo aver compiuto una storica visita a Pechino. Allo stesso tempo permetteva che la Cia organizzasse colpi di Stato nell’America Latina. Fu particolarmente vergognoso il golpe in Cile contro il governo democratico di Allende del settembre del ’73, seguito poco dopo da una visita di congratulazioni al dittatore Pinochet da parte del segretario di stato Usa, Kissinger.
Trump ha fatto peggio. Non ha organizzato colpi di Stato ma ha completamente smantellato la politica interna ed estera americana che Obama aveva lentamente riassestato dopo i danni provocati da Bush junior. Con lo slogan “America first”, lanciato nel suo breve discorso d’insediamento, aveva promesso di pensare soprattutto al primato della nazione. Forse non sapeva che quelle due parole erano state coniate negli anni 30 da Charles Lindberg, il trasvolatore atlantico diventato filonazista, che a Berlino era stato decorato da Hitler con la medaglia d’oro del Reich di cui andava fiero. In patria era diventato leader di un movimento di estrema destra, proprio America first, che complottava contro il presidente Roosevelt considerato un ‘comunista’.
Tornando a Trump, una sintesi dei suoi quattro anni di presidenza la fa il giornale Foreign Affairs con un articolo intitolato Il presidente del disordine. “Come un elefante in una cristalleria, si è mosso a suon di provocazioni, frasi bellicose e marce indietro”, viene raccontato nel testo.
Ha voluto l’uscita degli Usa dal Wto – l’organizzazione mondiale del commercio; dagli accordi di Parigi sul clima; ha cancellato l’intesa nucleare con l’Iran e il riavvicinamento diplomatico con Cuba; ha imposto barriere doganali con la Cina e l’Europa; ha ordinato il ritiro delle truppe americane dalla Siria abbandonando la popolazione kurda; ha approvato l’aggressività della Turchia in Medio Oriente. Infine ha tentato di ‘domare’ la Corea del Nord incontrandosi col dittatore Kim Song Un, ma senza risultati. In politica interna ha distrutto il welfare varato dal predecessore Obama; ha imposto la chiusura totale dell’immigrazione dal Messico; ha appoggiato le violenze della polizia contro i cittadini di colore.
Sul Covid-19, che ha colpito duramente gli Stati Uniti, si è comportato in modo superficiale, paragonandolo a una semplice influenza. Si è ricreduto dopo essere stato contagiato, senza però ordinare misure efficaci contro la pandemia. Anzi ha messo da parte il virologo Anthony Fauci, capo della task force contro il Covid-19. Intanto adesso i contagiati sono 13 milioni e oltre.
Le definizioni da attribuire al carattere di questo personaggio sarebbero tante. Definirlo un ‘matto’ è poco anche perché potrebbe apparire come una giustificazione del suo operato. In realtà si comporta come un uomo normale, incolto, prepotente, appartenente a quella categoria di magnati senza scrupoli tanto bene descritta nel film Quarto potere – in cui il regista Orson Welles intendeva riferirsi a Randolph Hearst, il ‘re’ dei legnami e dell’editoria di allora. Oppure ai ricconi prepotenti e malvagi di Le luci della città, di Chaplin.
Ma Trump, seppur un magnate ammirato dai suoi elettori, non ha gestito tanto bene i propri affari. Il New York Times ha scritto che anni fa perse un miliardo di dollari in investimenti sbagliati e che successivamente non pagò le tasse per un lungo periodo. Eppure in queste ultime elezioni, con un record di affluenza, ha ottenuto più di 73 milioni di voti contro i quasi 80 di Biden. Quindi, circa il 48% degli americani ha continuato a sostenerlo. Lui, nella campagna elettorale contava proprio su quella massa di cittadini di destra – usando un termine più europeo – e col suo comportamento voleva spaccare il Paese in due. Per fortuna ha vinto un’opinione pubblica più riflessiva, composta da giovani e in generale dagli abitanti delle grandi città.
E adesso il neopresidente Biden sembra intenzionato a cancellare gli errori del suo predecessore. Prima di tutto ha dichiarato che “gli avversari politici non sono dei nemici”. Poi ha già avviato le scelte dei membri del prossimo governo puntando su figure collaudate. Oltre alla Vicepresidente di origine indoamericana, Kamala Harris, la prima donna della storia del Paese a occupare questa carica, molte altre scelte cadono su rappresentanti del sesso femminile. Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve dal 2014 al 2018, sarà Ministro del Tesoro. Venne licenziata da Trump il quale disse: “Potrei confermarla, ma è troppo bassa”. Segretario di Stato (Ministro degli Esteri) diventa Antony Blinken, con una lunga e importante carriera diplomatica. Dovrebbe ricucire tutti i rapporti internazionali stracciati da Trump. Avril Haines sarà la prima donna a guidare l’ufficio che coordina le attività dei servizi di intelligence, compresi Fbi e Cia. Segretario per la Sicurezza (Ministro degli Interni) sarà Alejandro Mayorkas, di origine cubana.
John Kerry, candidato alle presidenziali del 2004 sconfitto da Bush, sarà il responsabile per l’ambiente. Artefice del patto di Parigi sul clima, cancellato da Trump, avrà il compito di rilanciarlo. Infine il Presidente darà pieni poteri e priorità assoluta alla task force di Fauci per combattere la pandemia del Covid-19. Con le sue prime scelte, sembra proprio che Biden voglia mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale: ricostruire una Nazione distrutta dal terremoto Trump.
“L’America è un grande Paese anche perché ha un’opinione pubblica molto attiva”, mi spiegò al liceo tantissimi anni fa il docente di Storia. Erano i tempi del mondo diviso in due blocchi e della guerra fredda. Rimasi molto perplesso per quella definizione, fino a quando mi resi conto che la voce dell’opinione pubblica dei Paesi del mondo comunista veniva soffocata.
Pertanto la democrazia rimane l’unica forma di governo accettabile, “seppur con tanti difetti”, come diceva Churchill. E negli Stati Uniti un difetto deriva dai poteri forti – quelli del denaro – che da sempre comandano nella nazione. Sono questi che hanno manovrato l’elezione di Trump nel 2016 e la sua caduta nel 2020 perché era diventato un pericolo per gli interessi economici e finanziari. Nel 1963, col presidente J.F.Kennedy, non sarebbe bastato manovrare le elezioni successive e hanno dovuto ricorrere all’attentato, come hanno fatto cinque anni dopo col fratello Bob, candidato alla presidenza, che sarebbe stato ancora più pericoloso per i loro interessi.
Immagine di Pete Lindforth – Pixabay