martedì, Dicembre 03, 2024

Società

Lea Melandri: amore e violenza domestica

Dibattito sugli slogan storici del femminismo

Redazione TheBlackCoffee

Il #MeToo e le mobilitazioni femministe in tutto il mondo hanno riportato al centro del dibattito uno degli slogan storici del femminismo, “il personale è politico”. Come parlare di femminicidio e patriarcato senza prendere in conto la relazione potente e strutturale tra amore e violenza? La saggista Lea Melandri ne parla con Francesca Barca.

Lea Melandri (1941) è saggista, scrittrice e giornalista. È una delle figure storiche del femminismo italiano. Il suo Amore e Violenza. Il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri) è uscito nel 2011 e verrà rieditato nel 2024: il testo è stato tradotto in inglese e in francese apparirà in primavera in francese per Sens Public. Per i suoi scritti consultare l’Archivio di Lea.

La “dominazione maschile” ha una peculiarità rispetto alle altre. Quale? 

Lea Melandri: Fra tutti i domini che la storia ha conosciuto, quello maschile è del tutto particolare in quanto passa attraverso le vicende più intime, come la sessualità, la maternità, le relazioni familiari. Gli uomini sono i figli delle donne, incontrano un corpo diverso dal loro che li ha generati nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità. È il corpo che li ha in sua balìa per i primi anni di vita, che può dare accudimento o abbandono, vissuto all’origine come potente, corpo che incontreranno nella vita amorosa adulta in una posizione di potere capovolta. Confinando la donna nel ruolo di madre l’uomo ha costretto anche se stesso a portare una maschera di virilità sempre minacciata, a contrarre vincoli di indispensabilità anche quando non sono necessari. Il sogno d’amore, come appartenenza intima a un altro essere, unità a due, prolungamento del legame originario tra madre e figlio, porta in sé il rischio dello strappo violento, legato al bisogno di autonomia di ogni singolo. Le figure di genere, nella loro complementarietà e collocazione gerarchica, strutturano rapporti di potere e, al medesimo tempo, spingono verso un ideale, un armonioso ricongiungimento di parti inscindibili dell’umano: corpo e pensiero, sentimenti e ragione, ecc. È questa confusione tra amore e violenza che fa sì che sia ancora oggi così lento e ostacolato l’emergere della coscienza del sessismo.

Lei scrive: “Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire”. Quali sono queste “zone”, luoghi della politica e dell’anima?

L.M.: Forse non è inutile partire da quella che è stata la grande “sfida” o rivoluzione del femminismo degli anni Settanta: la scoperta che per millenni erano state considerate “non politiche” le esperienze più universali dell’umano — sessualità, maternità, nascita, morte, legami familiari — confinate nel “privato” e nell’ordine della “natura”. E come tali destinate a rimanere delle “permanenze”. Quelli che ancora siamo portati a considerare “luoghi dell’anima” appartengono da sempre alla storia, alla cultura, alla politica. Lo slogan “il personale è politico” significava riconoscere che nelle vite singole, nei vissuti personali, così come nella memoria del corpo, ci sono tesori di cultura ancora da scoprire, c’è una storia non scritta che non si trova in nessun manuale, in nessuno dei saperi e dei linguaggi già dati. È in queste “zone” rimaste fuori dalla scena e dal discorso pubblico, coperte dal pudore e dall’ignoranza, o dalla “indicibilità”, che la generazione di quegli anni è andata a cercare il fondamento della separazione tra la politica e la sessualità, tra il destino dell’uomo e della donna, così come l’origine di ogni dualismo: biologia e storia, individuo e società. La prima forma di violenza che è arrivata a consapevolezza in quegli anni non poteva che essere quella che ho chiamato “violenza invisibile” o “violenza simbolica”: una rappresentazione maschile del mondo che le donne stesse forzatamente hanno fatta propria, “incorporata”. Non è un caso se la vittima parla la stessa lingua dell’aggressore. Che altro potevano fare le donne se non incunearsi in quei ruoli – “madri di”, “mogli di” – cercando di strappare da lì un qualche potere e piacere.

Eravamo una generazione che si ribellava alle madri in quanto viste come anello di trasmissione della legge dei padri e uno dei nodi in cui ci siamo trovate a scavare con più difficoltà è stato non a caso il rapporto madre/figlia. Scoprivamo che l’espropriazione più violenta che le donne hanno subito è stata quella di essere cancellate come “persone”, identificate col corpo – corpo erotico, corpo materno – e ridotte a “funzioni”.

Avremmo dovuto, a quel punto, aprire le porte di casa, interrogare i rapporti di coppia, i legami familiari in tutta la loro ambiguità, portare allo scoperto la violenza nelle sue forme “manifeste”: maltrattamenti, sfruttamento, femminicidi. Se della violenza domestica ci siamo occupate solo molto più tardi, all’inizio degli anni Duemila, è perché evidentemente l’amore ha fatto da velo, anche per chi, come nel mio caso, aveva assistito per anni alla violenza contro le donne della sua famiglia. Oggi, di fronte alla catena ininterrotta di femminicidi è facile gridare contro il “mostro”, chiedere un aumento delle pene. Più difficile chiedersi se non è proprio l’amore, così come lo abbiamo ereditato, confuso col potere, che andrebbe interrogato. Ma non è un caso che l’amore sia rimasto anche per il femminismo un “tabù”.

Come spiegare che gli uomini che uccidono le donne che amano — il femminicidio in qualche modo è il dramma ultimo, ma prima di lui (e anche senza di lui) ci sono forme di violenza e controllo che si instaurano in amori “normali” e “felici” — sono i “figli sani del patriarcato”? 

L.M.: Dopo mezzo secolo di teorie e pratiche femministe, è solo oggi che si comincia a parlare di patriarcato come “fenomeno strutturale”. È stato un grande passo avanti parlare dei femminicidi non come “casi di cronaca nera”, patologia del singolo, o portato di culture arretrate, ma molto resta ancora da fare perché si riconosca che la violenza “manifesta” è solo l’aspetto più selvaggio, arcaico, di una cultura diffusa, diventata la “normalità”. 

Ho sempre preferito la definizione di “dominio maschile”, o “sessismo”, anziché “patriarcato”, forse per l’esitazione ad affrontare l’ambiguità di un potere che ha visto confondersi il volto di un tenero figlio con quello di un padre padrone. Se gli uomini fossero solo il sesso vincitore e sicuro di sé, non avrebbero bisogno di uccidere; se le donne vedessero nell’uomo che minaccia la loro vita solo un assassino, non esiterebbero tanto a denunciare la violenza che subiscono.

Oggi gli uomini uccidono perché di fronte alla libertà delle donne — al fatto che non sono più un corpo a loro disposizione, considerato finora un privilegio maschile “naturale” — scoprono la loro fragilità e dipendenza. Liberi sulla scena pubblica, insieme ad altri uomini, in realtà non sembra sia mai venuto meno quel cordone ombelicale che li ha visti negli interni delle case rimanere sostanzialmente figli, anche di donne mogli, amanti, molto più giovani di loro. “Patriarcato” possiamo oggi dire che è la visione del mondo che ha dato forma ai saperi colti come al senso comune, che porta il segno di una comunità storica di soli uomini, ma che le donne stesse hanno interiorizzato. Se è diventata la “normalità” è perché rimasta a lungo nel “privato” e nell’immobilità delle leggi naturali.

Lea Melandri
Foto: IPAZIA liberedonne APS

Lei cita Bourdieu – Il Dominio maschile, 1988 –  che parla dell’amore come “forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile della violenza simbolica

L.M.: Prima di leggere il Dominio maschile di Pierre Bourdieu — libro che ho amato molto e recensito nonostante non abbia avuto in Italia la diffusione che meritava — il tema dell’amore era già entrato ampiamente nel mio percorso personale e politico. Alla fine del decennio anni Settanta, dedicato in gran parte al problema della sessualità e dell’omosessualità, al centro di pratiche come l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, mi sono resa conto quanto fosse importante per me il bisogno d’amore e quanto fosse legato, quanto più è forte, al “sogno d’amore”: fusionalità, appartenenza intima a un altro essere. All’inizio degli anni Ottanta ho cominciato una lunga analisi, ho scoperto i Diari di una donna di Sibilla Aleramo, e ho tenuto una rubrica di “posta del cuore” su un rotocalco per adolescenti “Ragazza In”. Sono stati gli anni in cui ho scritto quello che considero il mio libro più personale: Come nasce il sogno d’amore. In realtà, avrei dovuto intitolarlo “Come finisce” l’illusione amorosa, quel sogno di “unità a due” che Aleramo definirà, dopo averlo inseguito per un numero indescrivibile di “amori”, “errori”, un “atto sacrilego dal punto di vista della individualità”.

Da allora in avanti ho scritto spesso del sogno d’amore come “violenza invisibile”, chiedendomi se fosse questa la forza o la debolezza delle donne, se la loro “schiavitù” più profonda non andasse cercata proprio nel potere di rendersi indispensabili all’altro, nel rendere “buona” la vita all’altro. È questo lo “svelamento” che attraversa i Diari di Aleramo, il percorso straordinario di “autoanalisi” di una coscienza femminile anticipatrice, che ha avuto il coraggio di calare, per usare le sue parole, l’ “amore nella mischia”, dire l’ “impresentabile” di quell’altalena tra “estasi” e “gelo” che ha reso e rende tuttora così’ difficile per le donne il “fastidioso obbligo di vivere per sé”. Il merito del libro di Bourdieu è di aver analizzato a fondo le costruzioni di genere, il maschile e il femminile, in quelle “permanenze” che si trovano nei contesti storici e politici più diversi, di aver riconosciuto quanto il dominio maschile sia stata una colonizzazione delle menti, oltre che dei corpi e, in particolare , di essersi interrogato sull’ambiguità del sogno d’amore. Nell’ultimo capitolo del libro, Bourdieu si chiede se l’amore, come fusione, smarrimento nell’altro, sia una “tregua”, un’ “oasi” nella guerra tra i sessi, o la forma suprema, perché la più invisibile e perciò la più subdola della “violenza simbolica”. Era la stessa conclusione a cui ero arrivata nel mio percorso femminista, e che fosse un uomo a riconoscerlo non poteva che farmi piacere. 

Si puo’ parlare dell’amore in modo diverso, per liberare innanzitutto la lingua? 

L.M.: Penso che le alternative cominciano a intravedersi solo quando si è analizzato il male a fondo e, a proposito del perverso annodamento tra amore e violenza, credo che il cammino sia ancora lungo. Molto interessante da questo punto di vista è il libro di Bell Hooks, Tutto sull’amore, ma anche i saggi di Francois Jullien, Sull’initimità. Lontano dal frastuono dell’amore, Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima.

Cosa è cambiato negli ultimi anni, dopo il #MeToo e dopo gli ultimi fatti di cronaca? Quando ci siamo sentite – il dibattito sull’omicidio di Giulia Cecchettin era fresco – mi ha detto “sento nei giornali i discorsi che noi, le femministe, facevamo da anni”. Cosa è successo? 

L.M.: Un grande cambiamento è venuto, più ancora che dal #MeToo — che ha rischiato di diventare solo un processo mediatico a figure note — dalle ultime ondate generazionali del femminismo, a partire dall’inizio degli anni Duemila. Nel 2007 in Italia c’è stata la prima grande manifestazione, promossa dal gruppo “Sommosse”, in cui comparvero gli striscioni sulla violenza domestica e lo slogan “L’assassino ha le chiavi di casa”. Si era finalmente portato lo sguardo in quegli interni di famiglia, in quei rapporti di coppia, in cui compariva ormai in modo inequivocabile la violenza che li ha sempre abitati e che l’ambiguo legame con la vita intima aveva fino allora tenuto coperto. Molto hanno contato, nel portare il sessismo nel discorso politico, i rapporti nazionali e internazionali sulle cause di morte delle donne, e molto, purtroppo, la sequenza ininterrotta dei femminicidi.

Importante è stata poi nel 2017 la nascita della Rete Ni una menos, partita dall’Argentina. Da allora, ogni anno, nella ricorrenza dell’8 marzo e del 25 novembre si tengono enormi manifestazioni a cui, tuttavia, non è mai stato dato il rilievo che meritavano.

In questa ultima “marea” femminista, quello che io ho trovato di nuovo è stato l’allargamento del discorso a tutte le forme di dominio: sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, ecc. Tornavano le esigenze radicali poste dal femminismo degli anni Settanta, quando si diceva “modificazione di sé e del mondo”: la sfida era partire dal luogo più lontano dalla politica, il Sé, il vissuto personale, per investire e “sconvolgere” i saperi e poteri della vita pubblica. Sul Sé abbiamo allora pensato e cambiato molto, ma il mondo era ancora lontano, ed è soltanto oggi che le generazioni più giovani ne vedono tutti gli orrori e le devastazioni. 

Il salto “imprevisto” della coscienza storica, pur riconoscendo l’eredità essenziale di mezzo secolo di femminismo, è avvenuto in Italia con il femminicidio di Giulia Cecchettin, la studentessa uccisa dall’ex fidanzato l’11 novembre 2023. Sono state le parole di Elena, sorella della vittima, e del padre, Gino Cecchettin, ad aprire una breccia inaspettata in una cultura e in una informazione ancora fondamentalmente maschilista come quella italiana. 

La vicenda di un ennesimo femminicidio, anziché chiudersi nel privato di una famiglia ferita, per la prima volta ha visto aprirsi le porte di casa, del domestico, per fare uscire parole sentite finora solo nelle manifestazioni del femminismo. L’aggettivo “imprevisto”, usato agli inizi anni Settanta da Carla Lonzi per descrivere la comparsa delle donne come “soggetti politici” sulla scena pubblica, torna oggi di attualità a proposito del dominio millenario di una comunità storica di soli uomini. Solo un “padre” che ha saputo guardare al di là del suo ruolo genitoriale e pensarsi “uomo” tra uomini, accomunati da una cultura virile che oggi li costringe ad interrogarsi di fronte alla sue manifestazioni più violente, poteva eclissare la figura del Patriarca, a cui ancora alcuni guardano con malcelato rimpianto. La guerra tra i sessi ha avuto nella famiglia il suo radicamento più forte e insieme la sua più forte copertura, a causa della confusione tra amore e violenza.

È toccato alle figure di un padre e di una figlia aprire una breccia in quella corazza che sono stati finora i ruoli familiari, mettere in discussione la “normalità” fatta di pregiudizi atavici che ha “privatizzato” e “naturalizzato” rapporti storici di potere. Le parole della sorella di Giulia sono state di per sé una svolta da cui non si torna indietro: erano gli slogan e le verità gridate da generazioni di femministe che uscivano per la prima volta da ambiti ristretti e ignorati per essere sentiti e ripresi nei luoghi più diversi della vita pubblica. 

“Mostro – ha detto Elena – è una eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi responsabilità. I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve una educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è “possesso”. A partire dalla lettera che Elena ha inviato al Corriere delle sera, chiunque tenti ancora di riportare la violenza contro le donne alla patologia del singolo, alla crisi dei valori tradizionali della famiglia o alla mancanza di pene adeguate, in qualunque modo cerchi di sottrarsi alla evidenza dell’ordine sociale, culturale e politico dentro cui cresce, non sarà più credibile.

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Original source: EDJNet – The European Data JournalismNetwork/https:love-has-been-a-veil-for-domestic-violence-interview-with-lea-melandri/

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Sabato, 4 maggio 2024 – Anno IV – n°18/2024

In copertina: immagine anonima da Piqsels

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