venerdì, Dicembre 27, 2024

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Liberate Selahattin Demirtaş!

La guerra di Erdoğan contro l’HDP – Partito Democratico dei Popoli

di Laura Sestini

In detenzione preventiva dal 4 novembre 2016 – arrestato con la collega parlamentare Figen Yüksekdağ, Selahattin Demirtaş è l’ex-copresidente, segretario e fondatore del Partito Democratico dei Popoli – HDP (Halkların Demokratik Partisi), un movimento politico nato nel 2012 dalla costola del Partito curdo della Pace e della Democrazia (BDP), che si rifaceva all’Internazionale socialista.

I due co-presidenti HDP – Demirtaş e Yüksekdağ – al momento dell’arresto vengono accusati di terrorismo per presunti collegamenti con un attentato dinamitardo contro una stazione di polizia occorso nella città di Diyarbakir, nel Kurdistan turco e per aver incitato alla protesta antigovernativa la popolazione durante il coprifuoco che vigeva nella medesima città anatolica – cuore geografico e politico della minoranza curda – ad agosto 2014.

Selahattin Demirtaş – già noto come attivista per i diritti umani e politico – si mise in evidenza nel 2009 quale avvocato e mediatore, durante il breve dialogo di pace tra APK (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo) del presidente Recep Tayyip Erdoğan e il PKK – il Partito dei Lavoratori Curdi. Nel 2014 è eletto parlamentare per HDP, partito che sfiora il 10% dei voti – divenendo, perciò, il terzo movimento politico turco in ordine di grandezza. La coalizione tra HDP e BDP ebbe proprio lo scopo di riunire le sinistre turche, senza focalizzarsi esclusivamente sugli obiettivi politici del popolo curdo; per allargarsi, quindi, a una visione più equa e democratica dell’intera Turchia.

Per la seconda volta, e in via definitiva – il 22 dicembre – la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ammonisce la Turchia e intima la scarcerazione immediata di Demirtaş e un risarcimento pecuniario per i danni morali e processuali, con la motivazione che la sua detenzione preventiva viola il diritto a un equo processo e la legittimità della stessa incarcerazione, la libertà di espressione, limitando contemporaneamente il dibattito politico democratico pluralista in Turchia. Il verdetto è stato rifiutato dalla Turchia – che prontamente ha replicato sostenendo che esso non vincolerà il corso detentivo del politico curdo, in quanto accusato di far parte di un’organizzazione terroristica, ovvero che la stessa CEDU propone scarcerazioni di terroristi.

Già condannato a oltre quattro anni per propaganda terroristica a proposito del sopracitato caso di Diyarbakir, Demirtaş è in attesa di ulteriori processi – sempre per capi di accusa legati al terrorismo – nel carcere di tipo F, a Edirne, una delle prigioni di massima sicurezza dove sono rinchiusi i prigionieri politici presunti terroristi.

“Don’t mind their yelling, they are trying to cover up their fears, weaknesses and impotence. Be brave and stand up in the face of atrocity, that is what I do. We are right, we are strong and we are in good spirits. We will win all together. Don’t worry, Turkey is bigger than the 5-member gang”.

Il commento via Twitter di Selahattin Demirtaş, alla reazione della Turchia, desta interesse e la dice lunga sulla determinazione dei detenuti curdi di proseguire la lotta per la democrazia, a costo della vita: Non preoccupatevi delle loro urla, stanno cercando di coprire le loro paure, debolezze e impotenza. Siate coraggiosi e opponetevi alle atrocità, questo è quello che faccio anch’io. Noi siamo nel giusto, siamo forti e di buonumore. Vinceremo tutti insieme. Non preoccupatevi, la Turchia è più grande della banda dei 5 membri”.

Se i militanti politici curdi non hanno mai ricevuto trattamenti ‘garbati’ nella Turchia odierna, o del passato, in virtù delle loro lotte separatiste e del presunto legame con il PKK (organizzazione inscritta nella lista dei movimenti terroristici da più Paesi, ivi compresa l’Italia), a partire dal presunto golpe del 2016 (e utilizzando anche quello a giustificazione), la legge turca ha messo alla sbarra un numero imprecisato di attivisti e oppositori politici. Mentre il partito pro-curdo HDP pare aver ottenuto un canale ‘preferenziale’ riguardo a tale trattamento.

A oggi, infatti, un numero imprecisato di attivisti curdi – intorno a 20 mila – è detenuto nelle carceri turche; mentre buona parte dei sindaci eletti il 31 marzo 2019, durante le ultime amministrative, è stata rimossa. Molti tra di essi sono stati anche arrestati con l’onnipresente accusa di terrorismo, e sostituiti dai kayyum – i funzionari statali nominati dal governo.

Tra le condanne ‘importanti’ dell’ultima settimana, sia per numero di anni comminati che per la notorietà politica, ritroviamo Leyla Güven, ex-parlamentare HDP, re-incarcerata già a gennaio 2018 per aver criticato l’operazione militare turca in Siria denominata Ramoscello d’olivo – nel cantone curdo di Afrin – che portò all’invasione del territorio e a un’inaudita violenza contro la popolazione civile. Da allora il cantone rimane occupato, lasciato in mano alle ‘sentinelle mercenarie’ (sostenute dalla Turchia) dell’NSA-National Syrian Army – l’organizzazione paramilitare frammista di innumerevoli milizie islamiste, dove sono confluiti altresì i mercenari jihadisti in seguito alla sconfitta del Califfato Islamico.

Leyla Güven – immagine HDP.

L’ex-deputata curda – già due volte sindaca, condannata e imprigionata a più riprese – a novembre 2018 aveva iniziato uno sciopero della fame, estesosi tra i detenuti politici curdi che, in breve tempo, raccolse oltre 7 mila adesioni – causando anche otto giovani vittime, dato che detti scioperi sono spesso fino alla morte’. Scarcerata per motivi di salute e per le pressioni internazionali, ha proseguito con lo sciopero contro l’isolamento carcerario del leader politico Abdullah Öcalan, oltrepassando i 200 giorni di digiuno.

Eletta deputata sebbene detenuta, è riuscita a entrare in Parlamento, ma in breve (a giugno 2020) ha perso l’immunità insieme ad altri colleghi HDP – a seguito dei reiterati ‘giri di vite’ del governo turco nei confronti di tutti gli oppositori politici. La sentenza di condanna a 22 anni e tre mesi – per la quale è stata prelevata a casa dalle forze dell’ordine – è giunta lo scorso 21 dicembre con l’accusa di associazione a organizzazione terroristica, dato che presiede il Congresso della Società Democratica (DTK, istituzione civile e democratica che prende parte agli sforzi per la democratizzazione del Paese) e, quindi, per aver fondato un’organizzazione illegale – sebbene la Ong esista dal lontano 2007.

Anche se non è parte attiva nelle politiche pro-curde, ma altrettanto importante per il suo ruolo professionale – e per meglio comprendere il clima di autoritarismo che preme sempre di più sulla società civile turca – non possiamo dimenticare il giornalista Can Dundar, ex-caporedattore del più antico quotidiano turco, Cumhuriyet, condannato a oltre 27 anni di detenzione per aver svelato, nelle vesti di giornalista, i traffici di armi dalla Turchia verso la Siria che foraggiavano i gruppi islamisti – motivo per cui la denuncia del giornalista si è tramutata immediatamente in un’accusa contro lo stesso per appartenenza al gruppo terroristico legato a Fethullah Gülen e per spionaggio ai danni dello Stato.

Can Dundar.
Image Olaf Kosinsky (kosinsky.eu) – Licence CC BY-SA 3.0-de.

Dopo che la sede del quotidiano Cumhuriyet è stata perquisita – nel 2015 – e alcuni giornalisti sono finiti in carcere, Dundar (una volta liberato a seguito della decisione della Corte Costituzionale) ha scelto di fuggire in Germania, dove si crede tuttora si nasconda. A ottobre scorso gli sono stati confiscati tutti i beni personali e sono stati congelati i suoi conti in banca. La posizione di Dundar, dopo la sentenza, cambia completamente e il giornalista dovrà essere ancora più accorto in futuro, dato che negli ultimi anni Erdoğan non ha avuto remore a fa prelevare dai suoi agenti segreti – anche in Paesi stranieri – chi non è allineato con la sua linea politica (https://www.theblackcoffee.eu/svelato-volo-segreto-di-rendition-e-un-sito-di-tortura-dellagenzia-di-intelligence-turca-mit/).

Sabato, 26 dicembre 2020

In copertina: Sehalattin Demirtaş – immagine HDP.

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