Il bravo fornaio lavorerà con la farina che gli è stata offerta
di Ettore Vittorini
Il discorso programmatico del presidente Draghi non ha deluso le aspettative tra i membri della maggioranza e nell’opinione pubblica. Lo attestano i voti ricevuti in Parlamento e i primi sondaggi demoscopici. Le parole del nuovo premier sono state dirette e prive di inutili preamboli. In primo piano ha posto la lotta alla pandemia, la scuola, l’ambiente, il turismo, il recovery plan e la riforma tributaria. Su quest’ultima è stato molto esplicito: “Faremo come in Danimarca, tutto in un sol colpo, intervenendo sull’Irpef drasticamente e combattendo l’evasione fiscale”. Sul Covid-19 ha annunciato una maggiore mobilitazione per estendere le vaccinazioni e ha sottolineato che la pandemia, una volta estinta, non va considerata dai cittadini ‘come il ritorno della corrente elettrica a lungo interrotta e quindi tutto ritorna come prima’. “Il Paese deve cambiare”, ha aggiunto.
Con molto fair play ha accennato alla continuità del nuovo governo rispetto a quello di Conte, ma contrariamente al precedente ha posto non generiche promesse; ha annunciato in modo particolareggiato i provvedimenti da prendere. Quindi non solo nella riforma tributaria ma nella scuola, con un elevato aumento degli investimenti e lo sviluppo delle scuole tecniche a modello di quelle tedesche e francesi per le quali sarà stanziato un miliardo e mezzo di Euro. Sarà rilanciato anche il turismo che, a suo avviso, dovrà essere meno disordinato del passato.
Riguardo all’Europa ha sottolineato: “Sostenermi significherà accettare l’irreversibilità dell’Euro”. È stata una precisa risposta a Salvini che in uno dei suoi ripensamenti antieuropei aveva dichiarato con la sua tipica ‘raffinatezza’ che “irreversibile era solo la morte”.
Nonostante le frasi fatte del leader della Lega e i voti contrari di una cinquantina di parlamentari dei 5Stelle, il nuovo premier ha ottenuto una grande approvazione e una maggioranza ‘bulgara’ in Parlamento. Il segretario del PD, Zingaretti, ha commentato: “L’Italia è in buone mani”. Sono seguite altre frasi elogiative date per scontate.
Ma il vero show delle parole e delle svolte politiche era stato rappresentato immediatamente dopo la designazione di Draghi voluta dal Presidente Mattarella. Dopo il primo no e il successivo ripensamento, Grillo ha espresso il meglio della sua non voluta vis comica alla fine dell’incontro ufficiale col premier incaricato quando, via internet, ha cercato di convincere i pentastellati ad accettare la partecipazione del movimento alla coalizione. Di Maio, poi riconfermato ministro degli Esteri, ha commentato l’incontro con la frase “mi ha fatto una buona impressione”. Come se avesse incontrato un lontano parente rientrato da una lunga permanenza all’estero. Chissà come avranno commentato questa uscita i funzionari della Farnesina. Salvini, antieuropeista convinto prima della convocazione di Draghi, ha capovolto totalmente la sua posizione con l’adesione incondizionata alla nuova maggioranza. Glielo hanno imposto certamente i leghisti che contano – cioè gli imprenditori, grandi e piccoli, lombardi e veneti per i quali è fondamentale lavorare sotto la protezione del tetto e del denaro europei.
E in nome della rinascita dell’Italia e della UE, il partito democratico e i cinquestelle hanno dovuto ingoiare la pillola amara dell’alleanza col ‘nemico’ di pochi giorni prima, che si è aggiunto a Forza Italia già accolta con meno riluttanza.
Se si scorre l’elenco dei ministri del nuovo governo, sembra che il presidente Draghi abbia seguito il cosiddetto ‘manuale Cencelli’. Questo signore era un funzionario della Democrazia Cristiana che, una sessantina di anni fa, formulò in un suo libricino un metodo per distribuire le cariche ministeriali in base all’importanza numerica dei partiti delle coalizioni di allora. Pertanto la fetta più grossa spettava alla DC e il resto agli alleati.
È certo che Draghi non abbia consultato il noto manuale. Il premier ha sdoppiato la formazione governativa scegliendo ministri ‘tecnici’ da lui ritenuti più adatti ai dicasteri più importanti per lo sviluppo del Paese e lasciando ai partiti la facoltà di nominare i loro uomini e le (poche) donne. Così ritroviamo nel governo Renato Brunetta alla Pubblica amministrazione, un dicastero già da lui guidato nel 2008. Allora aveva dichiarato che i dipendenti dello Stato non avevano voglia di lavorare.
Ritornata anche la Gelmini, agli Affari regionali, che sempre per Forza Italia era stata ministro della Pubblica istruzione contribuendo pericolosamente alla squalificazione della Scuola. Su tutti gli altri si vedrà. Il presidente Mattarella aveva detto che nelle crisi governative un premier poteva ‘fare il pane con la farina che gli veniva data’. Speriamo che il nuovo ‘fornaio’ sia bravo.
Le auto blu
Seguendo alla Tv le varie tappe della formazione del governo, mi ha colpito l’andirivieni delle ‘auto blu’ che trasportavano ex e futuri ministri, sottosegretari di Stato, segretari di partiti e, ovviamente, il candidato presidente del Consiglio, Draghi. Le auto facevano la spola tra Senato e Quirinale, da palazzo Chigi alla Camera, e dai palazzi istituzionali alle varie segreterie dei partiti.
In realtà le auto rappresentative dello Stato non sono più blu, ma hanno cambiato colore e nazionalità – una volta strettamente italiana – delle case produttrici: sono grigio metallizzate e quasi tutte Volkswagen Passat, BMW, Audi e qualche rara Alfa Romeo. Non voglio fare del nazionalismo automobilistico, né criticare le amministrazioni statali che provvedono alle scelte. Non ne hanno colpa perché in Italia non si fabbricano più auto di classe medio-alta. Ci sarebbero le berline Maserati inaccessibili per il costo, delle quali soltanto due o tre sono al servizio del Quirinale per le grandi occasioni.
Un tempo – perlomeno 30-40 anni fa – le nostre industrie producevano diversi tipi di auto di rappresentanza e molto eleganti, disegnate da carrozzieri noti in tutto il mondo: la Lancia Aurelia, la bellissima Flaminia, ancora usata dal Quirinale nella versione decappottabile, la Tema, l’Alfa Romeo 2000, le Fiat Croma e la più lussuosa 130. E chi può dimenticare, tra le auto economiche, la Fiat 124 costruita anche in Unione Sovietica in milioni di unità, in Argentina e in Brasile. Se ne vedono ancora a Cuba.
Un elenco accompagnato da amarezza e nostalgia per un’industria italiana che creava modelli di design innovativi – che venivano copiati in tutto il mondo. Oggi la Lancia produce soltanto un modello economico vecchio di 20 anni e l’unica novità dell’Alfa è la nuova Giulia reclamizzata per la sua sportività. L’intera produzione di auto italiane, compresa la Ferrari, appartiene alla Stellantis – cioè a una Industria italo-franco-statunitense con sede legale in Olanda e domicilio fiscale in UK. E non c’è molto da scegliere tra i prodotti veramente italiani. Per esempio, la Tipo venduta come auto Fiat, viene fabbricata in Turchia.
Sabato, 20 febbraio 2021 – n° 4/2021
In copertina: Mario Draghi durante il discorso di insediament. Foto: http://www.governo.it – ad uso stampa.