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Mondiali di calcio

Tanti soldi e pochi eroi

di Ettore Vittorini

Giorni fa mi è stato chiesto da alcuni conoscenti se avrei seguito i mondiali di calcio che si svolgono nel Qatar. Ho risposto che non mi interessavano come non lo avevano fatto anche quelli del passato. Quel rifiuto non è un atteggiamento snobistico, ma una avversione verso il calcio in genere, con i suoi risvolti economici e finanziari, la divinizzazione di certi calciatori, la violenza negli stadi, le curve parafasciste gestite dalla malavita e i miliardi buttati al vento nel “commercio” degli atleti.

Eppure da bambino ho giocato tante volte al calcio con i miei compagni: improvvisavamo un campo sul grande piazzale sterrato davanti al castello di Federico Secondo di Svevia allestendo le porte con le cartelle di scuola e i cappotti o al campo sportivo quando riuscivamo a racimolare 100 Lire da dare al guardiano che ci permetteva di giocare per un paio d’ore. Mi divertivo molto ma non sognavo mai di diventare in futuro un grande calciatore. L’unica partita di “serie A”, tra Inter e Milan, cui ho assistito tanti anni fa allo stadio di San Siro di Milano, mi aveva annoiato.

Però confesso che per una volta mi sono sentito tifoso al massimo – con urla, invettive e salti di gioia – durante la finale dei mondiali tra Italia e Francia del 9 luglio del 2006 svoltasi a Berlino, che dette la vittoria alla nostra squadra. Quel giorno mi trovavo ad Atene e alcuni amici mi invitarono ad assistere alla partita davanti alla Tv dell’Istituto Italiano di Archeologia.

Durante quella partita mi comportai come il più tifoso dei tifosi, forse trascinato dall’entusiasmo dei miei compagni di ascolto, archeologi, assistenti e studenti. Inoltre a fine partita dopo i due rigori della vittoria, molti clienti stranieri dell’albergo di fronte all’istituto si affacciarono ai balconi gridando “Viva l’Italia!” La mattina dopo in un caffè di Atene camerieri e clienti sentendomi parlare italiano mi fecero i complimenti per la vittoria, come se vi avessi contribuito anch’io. Fu una esperienza per me rara e molto bella.

Questi ultimi mondiali, dove la squadra italiana non ha partecipato per le batoste prese alle eliminatorie, sono stati utili almeno per far conoscere il Qatar, una piccola nazione di 11mila Kmq. e di 3 milioni di abitanti, costituita da una protuberanza – simile a una escrescenza – della grande penisola Arabica, circondata per tre lati dal mare del golfo Arabico o Persico, come lo chiamano gli iraniani.

Eppure questo minuscolo Paese del deserto poco più grande della metà della Toscana, è uno dei più ricchi del mondo grazie al petrolio e al gas. I suoi petrodollari, tra l’altro, sono serviti ad aggiudicarsi il più importante avvenimento sportivo del mondo accogliendolo con una organizzazione perfetta e con strutture costruite in breve tempo, degne delle grandi nazioni.

E pensare che sino agli anni Trenta del secolo scorso il Qatar era un insignificante puntino della carta geografica sconosciuto a tutti tranne ai mercanti di perle, unico prodotto che permetteva – insieme alla pesca – la sopravvivenza dei suoi abitanti. Una ventina di anni dopo quando si è scoperto che quel territorio desertico galleggiava su enormi giacimenti di idrocarburi, è diventato in breve tempo così importante da essere considerato una grande potenza economica e il suo emiro degno degli omaggi dei vari leader dei Paesi industriali. Una conseguenza di questo successo internazionale è anche quella di aver convinto la FIFA ad aggiudicargli la gestione dei campionati del mondo. La Federazione calcistica fece quella scelta nel 2012 e poco dopo gran parte dei suoi dirigenti furono allontanati per motivi mai chiariti.

In questo piccolo emirato musulmano domina sin dal Diciannovesimo secolo la tribù degli Al Thani una specie di feudatari dell’Impero ottomano. Durante la Prima guerra mondiale la piccola penisola divenne protettorato dell’Impero britannico che la difese dalle incursioni di altre tribù del deserto. Scoperto il petrolio, nel 1935 la società britannica Qatar petroleum company ottenne la prima concessione della durata di 75 anni. L’indipendenza arrivò nel settembre del 1971 dopo il ritiro degli inglesi.

L’attuale emiro, Tamin bin Hamed al Thani, di 42 anni, cura il benessere del suo popolo – come facevano anche i suoi predecessori – elargendo il denaro che la famiglia riceve in grande abbondanza dalle royalty del petrolio. Ma sui 3 milioni di abitanti soltanto 300 mila sono qatarioti mentre gli altri sono immigrati che – a parte poche migliaia tra ingegneri, architetti, tecnici e dirigenti provenienti dall’Occidente e pagati profumatamente – offrono la manodopera per i lavori più umili che gli abitanti storici rifiutano. Se ne occupano gli immigrati del Pakistan, dell’India, del Bangladesch, dell’Africa e del Medio Oriente.

Fanno i camerieri nelle case o nei ristoranti, fanno gli spazzini, lavorano sui pozzi di petrolio nel deserto, sulle piattaforme del golfo e soprattutto nell’edilizia. È stato grande il loro contributo nella costruzione degli stadi e delle altre strutture dei mondiali come lo è da tempo nell’erigere i grattacieli che svettano sulla capitale Doha che oggi appare come lo scenario di un film di fantascienza.

Come avviene nel resto del mondo i lavoratori stranieri vengono sfruttati e a migliaia restano vittime di incidenti sul lavoro spesso provocati da misure di prevenzione inadeguate.

Per i fortunati 300 mila abitanti, gli ospedali e le visite mediche sono gratuiti come l’acqua, la luce e il gas. Il giorno delle nozze gli sposi ricevono in dono dallo Stato un terreno e il denaro per costruirsi la casa. La disoccupazione non esiste e molti cittadini occupano posti di rilievo presso tutte le aziende straniere – dai fast food ai grandi negozi e ai centri commerciali – il cui 51% della proprietà deve appartenere per legge ai qatarioti. A distanza di un secolo e più, tanti discendenti dei cercatori di perle, dei pescatori e dei cammellieri sono diventati amministratori delegati o consiglieri di amministrazione con enormi stipendi pur non svolgendo in realtà le mansioni attribuitegli.

Ma tutto questo benessere con i suoi grattacieli, le autostrade, i grand hotel, le filiali delle case automobilistiche più lussuose, è amministrato da uno Stato feudale e islamico che nega le libertà democratiche. L’oppressione contro il dissenso non è dura come in Iran o in Afghanistan, ma non esistono partiti politici, le donne pur non obbligate a indossare il velo, per lavorare o viaggiare hanno bisogno del permesso scritto del capo famiglia; l’omosessualità è un reato grave.

Sono verità rivelate dai media occidentali in occasione dei mondiali di calcio ai margini delle cronache sportive come se fosse la prima volta che manifestazioni simili si svolgono in Paesi islamici. Non ci sono mai state critiche durante le gare di formula uno in Bahrein o in Arabia Saudita, o i mondiali di atletica leggera nello stesso Qatar.

La noncuranza è finita in questi giorni quando i giocatori del Galles, Belgio, Danimarca, Olanda e Svizzera, avevano deciso di portare al braccio la fascia arcobaleno. La FIFA glielo ha vietato minacciandoli di un ammonimento. Forse avrebbero fatto meglio a tenere nascoste le loro intenzioni sino al momento delle partite.

Il vero coraggio lo hanno mostrato i giocatori dell’Iran col silenzio tenuto durante il suono dell’inno nazionale. Loro sapevano che al rientro in patria avrebbero subito sanzioni molto più gravi di un ammonimento sportivo.

Sabato, 26 novembre 2022 – n° 48/2022

In copertina: uno scorcio di Doha, capitale del Qatar – Foto: Tmqtar CC BY-SA 4.0

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