Il verdetto del processo su Gezi Park scatena proteste in tutta la Turchia
di Laura Sestini
La difesa di un fazzoletto di verde pubblico in mezzo alla città di Istanbul – il tristemente famoso Gezi Park delle proteste pacifiche violentate dalla Polizia turca nel 2013 – sta costando molto cara a numerosi referenti di organizzazioni culturali turche e per la tutela dei diritti umani.
Otto imputati in tutto – tra cui il filantropo Osman Kavala fondatore dell’organizzazione Anadolu Kultur – processati per aver aderito ideologicamente alle proteste dei giovani ambientalisti che stavano occupando il parco, ribellandosi alle politiche urbanistiche dell’attuale Presidente Erdoğan – allora Primo Ministro – che spazza via anche interi antichi quartieri della città per far spazio ad enormi modernissimi progetti, di cui i cittadini turchi non sanno egli dove troverà le risorse, considerando la forte crisi economica in cui si trova il Paese. Nel caso di Gezi Park, uno dei pochi che erano rimasti in città – nel quartiere di Taksim – si doveva costruire un nuovo centro commerciale ed una moschea.
La protesta era iniziata con poche persone, a maggio 2013, per proteggere diverse centinaia di alberi dall’abbattimento, ma in seguito si era velocemente amplificata a causa delle cariche della polizia che tentava di sgomberare l’area dai manifestanti, ed anche allargata ad altre città della Turchia, trasformandosi in un ampio diniego contro il Governo Erdoğan.
Osman Kavala, l’imputato più conosciuto – oggi condannato all’ergastolo ostativo – fu arrestato a novembre 2017 – in una delle numerose purghe del partito di governo AKP – con l’accusa di aver aderito all’organizzazione gulenista giudicata responsabile del presunto colpo di Stato di luglio 2016.
In seguito – in carcere preventivo da allora – a Kavala gli sono stati attribuiti anche reati legati alle manifestazioni di Gezi Park per cui è stato condannato, mentre sono decadute le imputazioni per l’appartenenza al movimento guidato da Fethullah Gülen.
Kavala, imprenditore ed attivista per i diritti umani, è sempre stato impegnato nella promozione di arte e cultura, ed anche interlocutore delle istituzioni europee. Proprio dalla Corte Europea dei Diritti Umani nel 2019 era giunta un’infrazione a carico della Turchia, con la conferma che non ci fossero prove sufficienti di reato e per la lunga detenzione senza una sentenza. In seguito anche Consiglio dei Ministri europeo ne aveva sollecitato la scarcerazione, motivazione per cui Erdoğan aveva raffreddato i rapporti con numerosi Paesi dell’Unione europea e gli Stati Uniti incitanti la libertà dell’intellettuale turco (https://www.theblackcoffee.eu/procedura-di-infrazione-ue-a-carico-della-turchia-sul-caso-di-osman-kavala/).
Gli altri imputati sono stati condannati a 18 anni, ma tutti – compreso Kavala – sono accusati di aver cercato di rovesciare il Governo, orchestrando le proteste di massa che avevano scosso il Paese tra maggio ed agosto del 2013. Obiettivamente una condanna che appare molto controversa, eccessivamente megalomane rispetto alla richiesta di salvare il parco cittadino da parte dei manifestanti e di chi li ha appoggiati. Un giudizio senza prove e senza una reale logica, che rimanda alla reiterata repressione del dissenso politico perpetrata in Turchia.
Al presidente Erdoğan piace molto apparire sulle scene internazionali, predicando anche ‘fantomatiche’ mediazioni diplomatiche, ma guai a chi mette il naso negli affari interni del suo Governo, dove i diritti civili per le minoranze etniche, migranti, uomini politici di opposizione, studenti, attivisti ambientali, gruppi musicali, avvocati, giornalisti, insegnanti sono sempre più lontani dal poter essere considerati tali.
D’altronde, sulla deriva scivolosamente autoritaria in cui sta dirigendo da anni la Turchia, il Presidente turco non si era smentito neanche davanti alle violenze della polizia antisommossa sui manifestanti di Gezi Park, che avevano causato 11 vittime sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo e proiettili di gomma che stranamente uccidevano, centinaia di feriti e migliaia di arresti. Uno dei suoi discorsi di allora fu: «Non possiamo solo rimanere a guardare alcuni “çapulcu” (predoni) che fomentano il nostro popolo. Sì, costruiremo anche una moschea. Non ho bisogno di permessi per questo, né del Presidente del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), né di pochi çapulcu. Ho già ricevuto il permesso dal cinquanta per cento dei cittadini che ci hanno eletto come partito di governo».
Dopo la sentenza, forti manifestazioni di sdegno e protesta si sono accese in numerose città della Turchia.
Una dichiarazione del Parlamento europeo, a seguito della condanna a vita per Osman Kavala cita le testuali parole: “[….]Questa decisione riconferma il carattere autoritario dell’attuale sistema e mostra chiaramente la mancanza di volontà di fare qualsiasi tipo di vera riforma nel campo dei diritti fondamentali e dello stato di diritto. Da questo punto di vista, c’è poca o nessuna prospettiva dell’UE per l’attuale Turchia, che si sta allontanando dal consenso internazionale su un ordine basato sulle regole mentre manca di rispetto ai propri impegni internazionali. Il fatto che uno dei giudici membri del tribunale fosse candidato all’Assemblea nazionale per il partito al governo è solo un altro esempio scioccante di come questo caso sia stato segnato da ingerenze politiche. L’intero processo negli ultimi 4 anni e mezzo è stato un susseguirsi di manovre giudiziarie nel totale disprezzo degli standard del processo equo” (https://www.europarl.europa.eu/delegations/it/product/product-details/20220426DPU32722.
Sabato, 30 aprile 2022 – n° 18/2022
In copertina: un manifestante Sufi balla indossando la maschera antigas per i continui lanci di lacrimogeni delle forze dell’ordine turche – Foto: Azirlazarus (giugno 2013) – Licenza CC BY-SA 3.0